Pietro Barucci Architetto, Electa, Milano 2009
Autore / Author: Ruggero Lenci
Pietro Barucci è un architetto romano ben radicato in una tradizione familiare dedita all’arte, all’architettura e alla costruzione. Il nonno paterno, l’omonimo pittore Pietro Barucci (1845-1917) celebre per le sue vedute rusticane ambientate nella campagna romana, fu allievo di Achille Vertunni all’Accademia di San Luca. Il prozio, Pio Barucci, raffinato costruttore, edificò la chiesa Anglicana All Saints a via del Babuino, il cui progetto venne iniziato da George Edmond Street (1882) e fu terminato da Pio insieme a Vincenzo Cannizzaro. Chiunque vi sia entrato – vi andai ad assistere una messa domenicale celebrata dall’Arcivescovo di Canterbury il 14 febbraio del 1999 – sarà certamente rimasto stupito dalla quantità di dettagli e dalla straordinaria qualità dello spazio interno, con l’aula liturgica pavimentata in legno di quercia, colonne in marmo intarsiate con pietre dure, lapislazzuli e basalti, con mosaici e vetrate preraffaellite. Il padre, Giulio Barucci (1891-1955) ingegnere, oltre a una serie di consulenze per la proprietà dei marchesi Patrizi, ha realizzato la villa Hole ai Monti Parioli e la villa Lessona a Santa Marinella.
Forte di una tradizione di famiglia – tra arti figurative, progetto e costruzione – il giovane Pietro (1922) si è avviato agli studi architettonici nel 1940, in pieno conflitto bellico con le ben note interruzioni forzate. A seguito di una brillante formazione universitaria – eccelleva in particolar modo nella composizione e nel disegno, tanto che i suoi progetti di quegli anni sono ancora oggetto di ammirazione – si laurea nel 1946 con vari docenti-guida del nutrito gruppo di Arnaldo Foschini, tra cui Luigi Vagnetti.
Tra i suoi amici e colleghi bisogna citare Leonardo Benevolo, Claudio Dall’Olio, Vittorio De Feo, Romualdo Giurgola. Con Carlo Aymonino, di lui più giovane di circa quattro anni, i rapporti sono sempre stati di rispetto ma mai idilliaci, con Paolo Portoghesi, più giovane di nove anni, non vi è mai stata grande stima reciproca, almeno da quando questi rilasciò un’intervista a Paolo Mieli pubblicata sull’Espresso del 3 maggio del 1981 nella quale stilò un elenco di architetti italiani, che include P. Barucci, N. Di Cagno, S. Lenci, P. Sartogo, L. Passarelli, a suo dire reprobi rispetto all’incalzante ondata post-moderna.
Dal 1946 al 1955 Pietro Barucci ha svolto il ruolo di assistente universitario di Arnaldo Foschini, personaggio da lui definito “un gran signore, un uomo di uno stile e di un’eleganza assolutamente indiscutibili”. La sua formazione è pertanto improntata agli stilemi dell’epoca degli accademici, della quale facevano parte, oltre a Foschini, Marcello Piacentini, Vittorio Ballio Morpurgo, Roberto Marino, oltre al modernissimo Mario De Renzi. Già dai banchi universitari – come i disegni a corredo di questi testi introduttivi stanno a dimostrare – Barucci si libera dagli stilemi neoclassici propri delle accademie degli anni ‘40, pur mantenendone certi tratti nella personalità.
Fu questa l’impressione che mi fece nel 1985 allorquando lo conobbi – non era presente in Facoltà negli anni ‘70 e fino ad allora ne avevo solo studiato le opere, il Caravaggio e il Laurentino 38 – ed ebbi l’occasione di lavorare con lui al progetto del Piano di Zona Mistica 2 a Roma in gruppo con Carlo Melograni, Nico Di Cagno, Sergio Lenci, Marta Calzolaretti, Piero Ostilio Rossi, Giampaolo Imbrighi, Simone Ombuen.
Questa sua caratteristica personalità cristallina, ben forgiata, con qualche curva e molti spigoli, gli ha procurato nel corso degli anni una serie di gelosie che si sono rese evidenti tanto nell’ambiente accademico quanto nella professione. Saverio Muratori una volta succeduto a Foschini lo allontanò dal corso, senza mezzi termini e dopo nove anni di lavoro. Luigi Moretti, nel quartiere CEP di Livorno di cui era coordinatore (1959-60), lo trattò dapprima come un giovane inesperto invitandolo ad attingere dalle sue tipologie del Villaggio Olimpico romano, per poi ricredersi di fronte a un coraggioso rifiuto nonché alla qualità degli schemi proposti e della relativa realizzazione. Nel 1961 quando Mario Ridolfi, a causa di un incidente stradale, non poté partecipare al concorso dell’Istituto Tecnico Industriale di Pietralata poi vinto da Barucci, gli tolse il saluto. Bruno Zevi non lo amava perché ne riconosceva un’attitudine che, pur priva di compromessi, non era rivoluzionaria, evidentemente ritenuta non alienabile al compimento dei propugnati strappi con la storia. Ludovico Quaroni, dopo Muratori, lo lasciò alla finestra allorquando gli preferì il giovanissimo astro nascente della teoria architettonica italiana, Manfredo Tafuri che, in un lampo, realizzò il famoso libro sull’opera del maestro, episodio di fronte al quale nulla fu più come prima, sancendo il fatto che in ambito accademico il potere della teoria prevale su quello del progetto (specie se tempistico e lusinghiero). Adalberto Libera morì prematuramente nel marzo del 1963 a soli 59 anni allorquando Barucci, tornato alla Facoltà di Architettura di Roma su chiamata del maestro razionalista dopo anni di assenza, fu il suo primo assistente. L’assessore Morassut, quando era sindaco di Roma Veltroni, alla fine del 2006 ha fatto demolire tre ponti degli undici del suo Laurentino 38, per proporne la riedificazione della medesima cubatura con ipotesi formal-funzionali poco convincenti e certamente estranee alle logiche del quartiere.
Sono state tutte queste vicende accademiche e professionali, e altre ancora, a trasformare Pietro Barucci in un personaggio indistruttibile sotto la mannaia della vita, vicende che lo hanno temprato aumentandone la resistenza, forse a scapito di quella duttilità che troviamo in altri personaggi, ma tutti più giovani di lui. Del resto non erano certo duttili un Bruno Zevi, un Adalberto Libera, un Mario Ridolfi. Gli architetti nati a ridosso dell’irriducibile scontro tra accademia e contemporaneità non lo potevano essere, né da un lato né dall’altro delle barricate e tutti, nessuno escluso, ne portano evidenti i segni. Con questo non si vuole dire che Pietro Barucci non sia disposto a cambiare idea accettando il punto di vista dell’altro, ma che ciò può avvenire solo a fronte di solide, ben documentate e convincenti argomentazioni.
La sua figura, in particolare negli anni ’50, è quindi quella di un personaggio che i potenti accademici e/o progettisti dell’epoca non desideravano avere troppo vicino – in alcuni casi per non riceverne l’ombra, in altri per ottenere i maggiori servizi assistenziali che colleghi più disponibili potevano elargire – senza però precludersi la possibilità di invitarlo, affidargli un incarico complesso, delicato, risolvibile solo da chi è veramente bravo, dinamico e costantemente animato da un respiro internazionale.
Ma se da un lato Pietro Barucci ha vissuto a intermittenza le vicende universitarie da metà degli anni ’40 al 1963, dall’altro ha intrapreso una brillantissima carriera che lo ha visto progettare molto, in particolare in città quali Roma, Napoli, Livorno, oltre che Torino, Aosta e altre d’Italia, e, all’estero, in Tunisia ed Etiopia.
Gli anni del neorealismo: dal “paese dei Barocchi” al “Laurentino di Barucci”
L’APAO fondata nel 1944 da Bruno Zevi trasformò Frank Lloyd Wright in un mito che, insieme al neo empirismo scandinavo di Sven Markelius, alimentò più o meno consciamente quel processo di riduzione del razionalismo che favorì la trasfusione del neorealismo dal cinema all’architettura, cosa che avvenne in particolare ad opera di Mario Ridolfi, Ludovico Quaroni e Federico Gorio. La cinematografia neorealista degli anni ‘40, ‘50 e ‘60 infatti descriveva con film quali Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, Roma città aperta di Roberto Rossellini, e in seguito Le mani sulla città di Francesco Rosi le condizioni nelle quali versava il paese reale, e l’architettura dei nuovi quartieri era lo sfondo reale di quelle descrizioni che, per una scelta culturale basata anche sulla scarsezza dei mezzi, utilizzava la città quale scenografia.
Come noto, questi quartieri, nascenti dai piani Ina Casa diretti da Arnaldo Foschini, costituivano il perno della ricostruzione post bellica e diventarono il banco di prova sul quale, nell’Italia post fascista, sperimentare la progettazione architettonica a scala urbana. Foschini fu abile nel distribuire gli incarichi e nell’incoraggiare una sperimentazione accogliente, tanto accogliente che il neorealismo in architettura emerse come un suo carattere distintivo, particolarmente visibile nel famoso quartiere Tiburtino che doveva ricevere in modo ospitale i contadini inurbati nella capitale creando per loro un habitat simile a quello esistente nei paesi di provenienza: Il paese del Barocchi, come in quegli anni ebbe a scrivere Ludovico Quaroni sulle pagine di Casabella.
Pietro Barucci ha resistito più a lungo di altri, fino al Quartaccio degli anni ’80, ad aderire a questa declinazione populista e paesana della Scuola romana come media tra le importazioni organiche e neo empiriste trasfuse in modo casareccio in un neorealismo volto a trasformare Roma in un grande paese. Sin dal primo progetto realizzato da lui firmato, la modernissima palazzina in via dei Monti Parioli, la sua appartenenza alla Scuola romana è stata chiaramente schierata a favore di Vincenzo Monaco, Amedeo e Ugo Luccichenti, Adalberto Libera, Mario De Renzi, Luigi Moretti, Giuseppe Vaccaro, quindi caratterizzata da un’irriducibile voglia di contemporaneità, e comunque scettica nei confronti delle ipotesi propugnate in quegli anni da Ridolfi, Quaroni e Gorio.
Sul progetto di architettura personalità quali Barucci, Dall’Olio, Aymonino, Passarelli, Fiorentino, Lugli, Gatti-De Sanctis, Mandolesi, Anversa, presentano delle similitudini e non solo per un fatto generazionale, andando a costituire insieme a Melograni, Berarducci, Rebecchini, S. Lenci, Piroddi, Lambertucci, Chiarini, quel tessuto forte della Scuola romana che ha il suo sviluppo apicale negli anni ’70. Pur con in mente la ricerca di un’identità italiana dell’architettura, lo sguardo a quanto si andava realizzando all’estero ha sempre caratterizzato i migliori e più colti esponenti di tale Scuola.
L’housing britannico, dal Barbican al Brunswick Center, da Roheampton ad Alexandra Road, quello francese delle banlieu parigine, di Toulouse Le Mirail di Candilis, Josic e Woods, le eleganti sperimentazioni di Jacobsen ed Erskine, indicavano agli architetti italiani un nuovo modo di progettare, non solo seriale e castigato, secondo i nuovi miti della progettazione collaborativa e dell’architetto ridotto a “tecnico”; difatti erano questi i mutamenti invocati dalle facoltà universitarie e dagli enti preposti all’edilizia pubblica.
Se la grande dimensione dell’architettura abitativa arrivò in Italia con tre colossali interventi, a Trieste, Genova e Roma, segnatamente il Rozzol Melara di Carlo Celli, il Forte Quezzi di Carlo Daneri e il Corviale di Mario Fiorentino, fu senza dubbio il Laurentino 38 il vero progetto abitativo a scala urbana, la nuova cittadella con il forte segno unitario. Se nei primi tre è il corpo di fabbrica a riassumere tutto il significato del progetto restituendolo alla città sotto forma di macrosegno – un surrogato urbano riepilogativo e astratto – nel secondo è una chiara distribuzione e articolazione urbana volumetrico-funzionale a determinare le regole insediative, declinate in chiave futurista, per una comunità di trentamila abitanti. Ponti, torri, linee, strade in trincea, differenziazione dei percorsi, insulae composte da sette corpi di fabbrica, vanno a strutturare come vertebre il nuovo pezzo di città con strade intitolate ai nomi dei futuristi appunto, quali Filippo Tommaso Marinetti.
Ma le aree su cui realizzare queste opere bibliche erano quelle dettate dallo sviluppo “a pelle di leopardo”, slogan urbanistico più intrigante, almeno nell’immaginazione, del famoso sviluppo “a macchia d’olio”. A Roma la scelta di tale tipo di sviluppo fu influenzata, senza alcuna logica, dal Piano di Stoccolma ideato da Sven Merkelius per un ambente naturale ricco di boschi e di laghi, avviando nella così diversa realtà romana un nefasto e gratuito processo di smembramento del tessuto urbano. L’evocazione dello splendido felino celava per Roma questa idea del tutto impropria della “città per parti”, nefasta appunto se tra le parti regna sovrano il degrado, il residuale, lo spazio di risulta, come è accaduto nella capitale.
Né fu il progetto dello Studio Asse capace di imprimere una svolta a una tendenza che vedeva nella parcellizzazione del territorio un più facile veicolo di spartizione delle aree – da codice Cencelli – quindi di controllo della rendita fondiaria. E ciò colpendo la città per parti, come se questa fosse una battaglia navale,
A un certo punto, verso la fine degli anni ’70, a qualcuno venne in mente che il demone contro cui combattere era lo stile dell’architettura, il suo linguaggio, non la regola insediativa. Ciò produsse lo scivolone della post modernità, che in quel periodo ha fatto barcollare molti architetti, ma che non intimorì Barucci, se non producendo qualche contenuto cedimento lirico. Ne sono rimasti colpiti soprattutto la Francia, in particolare con Bofill, l’Inghilterra con le idee del Principe Carlo e gli Stati Uniti, con operazioni diffuse su tutto il territorio nazionale culminate nell’edificazione della città di Celebration in Florida, simbolo dell’effimero, set del neo-irrealismo, del sogno americano dove tutto è finto e si compiace di diventare un “Truman show” che sostituisce la favola di Walt Disney al neorealismo italiano alla Collodi, intristita però da un endogeno minimalismo alla Carver.
Così come il Laurentino 38, anche il quartiere Zen a Palermo, pur se molto diverso come impianto urbano e scala d’intervento, dimostra l’impossibilità da parte dell’architettura di risolvere i problemi di una società tenuta in perenne stato di convalescenza, se non di vera e propria malattia cronica. L’architettura, così come ben sa chi si interessa di Behavioural Architecture, può fare qualcosa per migliorare il comportamento delle comunità umane, ma non tutto. Inoltre, come un alberello appena piantato, va sostenuta specie nei primi anni di vita e, se si omette di farlo, come l’albero prenderà una piega che nel tempo non si raddrizzerà più.
Il dilemma della dimensione urbana dell’architettura
L’architettura di Barucci è pertanto molto radicata sulle questioni fondative del progetto, scevra dall’identificarsi alle tendenze volatili che si sono succedute particolarmente negli ultimi 25 anni del secolo scorso. Purtuttavia in determinati progetti, quali la ricostruzione di alcuni comparti del Casale di Barra a Napoli, il Quartaccio a Roma e la villa nella campagna romana, opere che risentono dell’esperienza campana tesa alla ricerca di una scala appropriata e di una sostenibilità a impatto zero quasi invisibile nell’ambiente, vengono sacrificati quei salti ontologici verso il futuro, quelle visioni alle quali le sue precedenti opere ci avevano abituati.
Tale riduzione di obiettivi progettuali deriva da tre ordini di fattori.
Il primo è una risposta, quasi cinica, a quell’ “acre senso di condanna che pervade l’opinione pubblica” emerso a seguito delle esperienze moderniste dei mitici anni ’60 e dei dannati ’70, ovvero a quella stroncatura propagandistica degli architetti visti, erroneamente, come i maggiori responsabili del degrado urbano, i reprobi, ideatori delle banlieu non più proponibili negli anni ’80. Risposta ormai pervasa dal pensiero debole che, nelle discipline progettuali, preconizza il ritorno a un’architettura abitativa non più intensiva ma almeno semi-intensiva.
Il secondo è costituito dal desiderio di volersi impegnare a comprendere empaticamente le esigenze della società, da veri saggi che detestano gli sciocchi sofismi dei dialettici – categoria umana impegnata solo a cercare consenso (Seneca, e così Barucci, apprezzava più i lirici dei dialettici, che almeno sono coscienti di vaneggiare). E, immersi in un vento poetico, con alle spalle una mole di lavoro poderosa quanto il Caravaggio, il Laurentino 38, ecc., ma non prima di aver raggiunto tanto spessore di idee e realizzazioni, generano vortici che trasfondono il grecale di un tempo nella tramontana di oggi e, così facendo, gettano una semplice occhiata e un saluto dalla soglia a “codeste sciocchezze” (il consenso), senza disprezzo, ma senza neanche lasciarsi ingannare nell’attribuire loro qualche segreta virtù. Male che vada, nel coltivare la lirica, si sarà trattato di un dubbio cartesiano, shakespeariano, di un sentirsi essere nel pensare, anche nel dubitare, nell’aprirsi ancora una volta a quella duttilità del pensiero che sempre ondeggia e oscilla al volgere di ogni decennio, secolo, millennio. E poi non sono pochi gli architetti che hanno avuto percorsi anche molto contrastanti. Le Corbusier ha iniziato la sua vastissima opera con una brutta casa in stile neoclassico nel paese nativo de La Chaux-de Fonds (1905), ma da lì è passato alla villa Savoye, Ronchamp, Chandigarh. Quindi non vi è da stupirsi se Pietro Barucci in tarda età abbia voluto coscientemente sperimentare l’architettura in chiave lirica. Semmai ci si può interrogare sul perché il suo percorso abbia seguito un procedere inverso.
Il terzo obiettivo, certamente il più vero perché reale e operativo, è costituito dalla passione per l’architettura quale eccezionale spinta a sondare le innumerevoli soluzioni possibili, spesso complesse e quasi di natura escheriana, dello spazio e della sua rappresentazione. Tale passione si sviluppa a Napoli, durante la missione a prima vista impossibile del risanamento del quartiere di Casale di Barra, opera per la quale o si ha una grande passione per il “mestiere”, oppure si rinuncia a tale incarico irto di difficoltà di ogni tipo. O si affronta il problema immergendovisi totalmente, oppure non si opera, si resta a guardare. E Pietro Barucci, ancora oggi attivo nel dibattito architettonico, nuovamente vicino agli studenti (sia a quelli di Franco Purini che ai miei), non è mai rimasto a guardare, si è sempre calato all’interno delle questioni con quell’apertura così ben spiegata da Louis Sullivan: “è parte di ogni problema ben impostato quello di contenere la propria soluzione”. E ciò dal singolo edificio, al centro direzionale, dal disegno del quartiere, al recupero del patrimonio edilizio esistente. Ed è proprio quest’ultimo tema che spesso scatena energie nascoste, nelle quali gli aromi dei materiali di cantiere si fondono all’odore delle copie cianografiche e dei disegni fatti a mano, i sudori degli operai sotto il sole partenopeo al buon vino delle colline tufacee di quella generosa regione, i frequentissimi viaggi autostradali agli incidenti di percorso, come quello del furto dell’automobile poi magicamente rinvenuta dietro elargizione di un compenso.
Calarsi all’interno dei problemi vuol dire risolvere il quotidiano, avere quel fluido positivo in grado di legittimamente trasformare la crisi in valore, i disegni in opere, recuperare groviere di edilizia fatiscente con quell’immaginazione che sceglie di aderire alla realtà dei luoghi in modo totalmente responsabile, da vero esperto in materia di spazi dell’architettura. E’ un’esperienza che segna nel profondo quella di dar luogo a piazzette pavimentate, profferli, portici, scale simili a quelli dei rabat di Monastir e di Sousse a lui ben noti per il decennio africano, muri risanati con intonaci freschi, colorati e aromatici, tipologie inserite nelle preesistenze con garbo, prive di traumatiche lacerazioni anche nelle coperture, comignoli, finestre, balconi, ringhiere. Insomma, i famosi elementi dell’architettura, quelle componenti edilizie che qualcuno deve pur scegliere, produrre, facendosi anche carico dell’errore quando di tanto in tanto lo si commette. I molti giovani che negli anni del PSER di Napoli sono stati vicino a Pietro Barucci e a Vittorio De Feo (M. Avagnina, E. Dezerega, S. Ombuen, G. Palombi, M.C. Perugia, P. Pizzinato, P. Quondamstefano, C. Vigliotti, E. Villani) sono stati validi collaboratori in questa impresa di ideazione, costruzione e ricostruzione, tutta basata su un’ermeneutica della stratificazione della città di Napoli, della natura intima dei luoghi, della volontà di preservare (Casale di Barra) ciò che spesso si sarebbe potuto più facilmente ed economicamente radere al suolo e ricostruire, perdendo però irrimediabilmente alcuni caratteri urbani storici propri del luogo.
Tutto ciò, protratto nel tempo per un periodo di circa dieci anni, incide profondamente nell’animo degli architetti sensibili e generosi, qual è Barucci, che tra l’altro risiede nel centro di Roma a due passi dalla già citata chiesa anglicana di All Saints di via del Babuino. La città storica scorre come sangue nelle vene di molti romani che vi risiedono, i quali non vogliono abbandonarla per trasferirsi in luoghi più comodi e raggiungibili, e ciò per i tanti benefici e privilegi che vi si trovano: piazza di Spagna e il meraviglioso tessuto storico, un pullulare di ristoranti, gallerie d’arte, empori, boutique, il colore dinamico dei turisti, piazza del Popolo e i suoi bar, e ora, nel bene e nel male, anche Meier con il suo “biancone”. Insomma, una volta immersi in questa civiltà del vivere la città storica è molto difficile pensarne un’altra, alternativa, moderna, anche se Barucci con il Laurentino 38 ci è riuscito.
Quindi ci si limiti a considerare il Quartaccio, i progetti per Catania e soprattutto la villa nella campagna romana – progetti che non ci saremmo stupiti se fossero stati ideati da un Portoghesi – come momenti lirici, ammissibili dubbi amletici in lui sorti a seguito di una duttilità acquisita sul campo, nel decennio trascorso tra gli antichi tessuti urbani di Napoli.
Generazioni a confronto
Da un punto di vista generazionale Pietro Barucci, come egli stesso scrive parafrasando un famoso saggio di Pasolini del 1972 sul PCI, non appartiene né agli “Ateniesi” (Libera, Ridolfi, Moretti, Quaroni, Muratori, Zevi, De Carlo, ecc.) né ai “Salamini” (Tafuri, Aymonino, Portoghesi, ecc.). Egli sarebbe un “post-Ateniese”, come Lucio Passarelli e altri, ovvero un architetto appartenente a una generazione di mezzo. Ed è proprio questa non appartenenza a gruppi generazionali, questa identità non condivisa tra pari, che spinge i post Ateniesi ad affrontare il progetto da un punto di vista razionale e scientifico prima ancora che artistico. Nel tema dell’housing, ad esempio, per Barucci è la tipologia dell’alloggio la questione centrale da risolvere, quella che indirizza le regole della composizione architettonica. Non i prospetti e neanche l’articolazione delle masse come fatti fini a se stessi e avulsi dai contenuti dai quali sono generati.
Cosi come nella tradizione pasoliniana, i “Lacedemoni”, quelli del ‘68 ormai alle porte, si allearono con i Salamini contro gli Ateniesi e – più per condizioni poste dai Salamini che per propria convinzione – contro quelli della generazione di mezzo, visti come un’aderenza tendinea, un corpo resistente e tenace da rimuovere col bisturi per dar luogo ai nuovi flussi che, come noto, necessitano di scorrimenti legamentosi ben inguainati. Pertanto l’operazione svolta con pervicace abilità è stata quella di trasformare tali aderenze in guaine, la continuità della storia in momenti di rottura, tranne poi utilizzare queste fratture come corsie preferenziali atte a certi scorrimenti veloci, faglie sulle quali ridisegnare in modo dinamico le nuove derive dei continenti architettonici, le nuove tendenze che la disciplina avrebbe dovuto prendere sia dentro che fuori dall’accademia.
L’approccio lamellare
Ciò che nella produzione progettuale di Pietro Barucci emerge come un carattere distintivo è lo sviluppo di un approccio morfologico e distibutivo fatto per corpi lamellari paralleli, una modalità che si innesta nel processo evolutivo dell’architettura contemporanea in modo vigorosamente fecondo. I prodromi si hanno con l’impianto planimetrico del progetto di concorso per il quartiere ICP a S. Basilio a Roma del 1947 nel quale gli edifici a schiera sono disposti sul lotto secondo il medesimo orientamento, come vagoni che scorrono concettualmente su invisibili binari, lasciando liberi frequenti spazi aperti permeabili alla vista.
Questo tema verrà ripreso, a scala molto maggiore, nei progetti del Centro Direzionale di Piazzale Caravaggio a Roma, del concorso per il vasto Centro Direzionale di Torino, del Laurentino 38 ancora a Roma, nonché nei corpi di fabbrica accoppiati di Taverna del Ferro e di Pazzigno al PSER di Napoli.
Ecco alcuni antefatti. Nel 1924 Ludwig Hilberseimer disegna la sua famosa città verticale a corpi lamellari paralleli e a circolazione e funzioni stratificate, progetto che, tra gli architetti, si imprime nella memoria di tutte le nuove generazioni. Nel 1957 Helmut Hentrich e Hubert Petschnigg realizzano il grattacielo Phoenix-Rheinrohr a Düsseldorf, nel quale cinque lamelle vengono affiancate le une alle altre e compresse in un unico edificio, un pacchetto-multistrato a corpo quintuplo. Barucci vede questo progetto sulle riviste, quindi si reca a Düsseldorf e rimane colpito di fronte a tanta chiarezza e coerenza morfologico-distributiva. Allorquando viene incaricato del Centro Direzionale di Piazzale Caravaggio (tre progetti, dal 1959 al 1963), non può quindi eludere di misurarsi con l’approccio lamellare, elaborando uno schema che in ultima analisi – ovvero a seguito della prima proposta redatta con la collaborazione di Manfredi Nicoletti nella quale lo slittamento è ancora solo in nuce – risulta essere stratificato sia orizzontalmente (Hilberseimer), sia verticalmente (Hentrich e Petschnigg). Il grattacielo di Düsseldorf viene quindi reinterpretato architettonicamente, articolato con una piastra contenente circolazione e funzioni stratificate, quindi trasformato da elemento isolato a sistema: nasce la vertebra urbana.
Il progetto di concorso del Centro Direzionale di Torino (1962) diventa un ulteriore tassello significativo della ricerca sulla stratificazione e sullo slittamento dei volumi, un generoso tentativo basato su un sistema alternativo alla vertebra che prefigura una parte unitaria di città.
Il progetto di Piazzale Caravaggio, nella sua versione definitiva del 1963 tanto elogiata da Leonardo Benevolo, fa quindi la sua comparsa due anni prima del maestoso e complesso Piano Pampus di Bakema e Van den Broek per l’espansione di Amsterdam (1965), che diverrà a sua volta per Pietro Barucci, insieme alla new town di Cumbernauld in Scozia, fonte di ispirazione e riferimento indispensabile per il suo Laurentino 38 (1971-73). Alla luce di tale esperienza realizzata, e al contempo osservando da vicino il modello proposto per la Venezia nordica, al Laurentino 38 la vertebra urbana assume maggiore complessità di quella del Caravaggio e, con l’inserimento dell’elemento a ponte pedonale attrezzato con servizi di quartiere e della torre, ne struttura l’insula. Qui la logica compositiva lamellare diventa la regola, il sistema nucleotidico di un DNA che presiede al dislocamento degli spazi, dei pieni e dei vuoti determinati dai sette edifici costituiti dai cinque corpi in linea, dalla torre e dal ponte pedonale attrezzato. Un dispositivo tanto rincorso dal fiore dell’architettura europea, dal Bauhaus di Gropius alle tante ricerche abitative degli anni ’60 e ’70 – si veda tra gli altri il progetto presentato al concorso ISES del 1965 da S. Lenci e A. Lambertucci – che Barucci, al di là di ogni fin troppo scontata polemica, ha il grande merito di aver saputo sintetizzare in un sistema realizzato di architettura a scala urbana.
Quindi, tanto la vertebra urbana quanto l’insula – composizioni ambedue lamellari, articolate, complesse, di matrice organica, razionalista, neoplastica e international style al tempo stesso – costituiscono la vera cifra progettuale di Pietro Barucci, il dispositivo architettonico per il quale egli entra a pieno titolo a far parte della storia dell’architettura contemporanea.
In questo percorso di frequenti rimandi – guidati dalla ricerca dello sviluppo della conoscenza architettonica come questione di empatia, ovvero appartenente a una dimensione più ampia degli interessi intellettuali del singolo progettista – si delineano, come la trama e l’ordito di un percorso evolutivo che ruota sul progetto urbano, i seguenti passaggi: da Düsseldorf (l’elemento), a Piazzale Caravaggio (la vertebra), a Torino (lo slittamento come matrice progettuale nella città consolidata), ad Amsterdam (la spina dorsale solo progettata), al Laurentino 38 (la spina dorsale realizzata). Va inoltre aggiunto che i colossali centri direzionali (mixed-use development), costituiti dal Peachtree Center e dall’Embarcadero Center, progettati e costruiti da John Portman rispettivamente ad Atlanta e a San Francisco alla fine degli anni ‘70, rappresentano un’ulteriore declinazione di questo tema che, nella tradizione americana, mette in campo un accentuato sviluppo in altezza.
Anche alla luce di queste due realizzazioni statunitensi i volumi lamellari del progetto di concorso del Centro Direzionale di Torino del 1962, pur non essendo organizzati come vertebra urbana, costituiscono un tassello significativo della ricerca sulla stratificazione e sullo slittamento dei corpi lì dove essi vengono compattati in volumi che lasciano intravedere la matrice progettuale dalla quale derivano. Un progetto molto diverso dal Caravaggio o dal Laurentino, che aprirà la strada ad altre riflessioni. Il concetto di vertebra – l’abbiamo detto, l’apoteosi della ricerca di Pietro Barucci – è infatti possibile e pertinente solo se è presente un’arteria che le attraversa e le collega. In mancanza di questa i volumi vengono organizzati secondo altri principi insediativi.
Altra notazione è il carattere non incline alle mode di Pietro Barucci, che fa sì che nei suoi progetti siano quasi del tutto assenti elementi architettonici curvilinei.
Architettura urbana e costruzione
Diversamente dai molti architetti suoi coetanei, Pietro Barucci è sempre andato alla ricerca di ipotesi architettoniche che non si limitano all’applicazione degli standard del manuale ridolfiano ma che, in particolare nell’edilizia abitativa, spaziano in territori di ricerca ampi quanto l’Europa. Mai limitato dalle strette logiche economiche dei costruttori, ha sempre cercato di comprenderle, di prevenirle incorporandone sin da subito i dati essenziali nel progetto, piuttosto che subirle come imposizioni, sempre inaccettabili. Da qui deriva la sua grande passione per il cantiere, per lo studio di soluzioni costruttive non tradizionali per l’Italia, come per il sistema dei “tunnel” della società francese Hirondelle del quale diverrà esperto, peraltro adattandolo alle esigenze locali.
L’In/Arch, quale luogo d’incontro culturale tra il mondo degli architetti e quello imprenditoriale così fortemente voluto da Bruno Zevi, ha sempre sostenuto e incoraggiato attraverso incontri-dibattito un equilibrato connubio tra progettisti e costruttori nel quale ognuno dovrebbe poter esprimere il meglio di sé, senza bloccare le esigenze dell’altro, anzi, aprendosi a queste per conoscerle e, se possibile, implementarle al meglio.
Pietro Barucci ha svolto un ruolo importante in questa direzione, col suo generoso contributo teso non solo allo sviluppo del progetto architettonico tout court, ma anche alla messa in atto della sua realizzazione secondo le più sperimentali modalità costruttive che, in particolar modo negli anni ’60 e ‘70, si affermavano anche in Italia. Il suo coinvolgimento in questa direzione è stato totale, specie negli anni della costruzione del primo PEEP con i progetti del Tiburtino Sud e del Laurentino 38, in ambedue i quali ha fatto uso dei citati tunnel francesi e di metodi di prefabbricazione a pie’ d’opera che hanno fatto la storia dei “dannati” anni ‘70. Nel primo dei due progetti è stato anche direttore dei lavori, con un impegno totale nel cantiere e con il ruolo di coordinatore nei confronti della ditta francese detentrice del brevetto dei tunnel. Se costruire bene l’architettura vuol dire trovare le migliori metodologie che ne rendono possibile il passaggio dal progetto alla realizzazione, ideare un’architettura costruibile significa avere la capacità e la naturale inclinazione di progettarla assecondandone il metodo costruttivo, dando vita a un organismo nel quale i caratteri distributivi, la struttura, gli impianti, i volumi, le bucature, i materiali, ecc., sono integrati sin dall’inizio in un complesso sistema di scelte, tutte presenti sin dall’inizio sul tavolo dell’architetto. A titolo di esempio si vedano le piante degli edifici in linea del Tiburtino Sud e quelle delle torri del Laurentino 38.
Architettura urbana e gestione
Ma tutto ciò è insufficiente a produrre idonee parti di città se il sistema politico che ne governa le scelte non è in grado di realizzarle in modo appropriato e soprattutto di gestirle. Tale incapacità a Roma è culminata negli errori forse più gravi avvenuti in Italia, dovuti in primo luogo agli assurdi contrasti tra il Comune e l’Istituto Autonomo Case Popolari. Questi hanno prodotto l’abbandono di molti quartieri al loro destino, uno per tutti il Laurentino 38, minandone alle fondamenta il decollo per l’incapacità di operare scelte socialmente valide e all’altezza del grande ideale presente in quel progetto di architettura urbana sul quale Barucci scommetteva, sperando in una felice vita associata fra gli abitanti di quelle unità di vicinato, le insulae, che costituivano le “vertebre” o moduli di crescita del quartiere.
Le origini del suo degrado in ultima analisi si devono alla decisione del comune di Roma di trasferirvi un centinaio di famiglie che occupavano abusivamente l’Hotel Continental trasformato in un centro di malavita, innestandovi così quelle dinamiche del controllo del territorio proprie della micro criminalità. Noncuranti del fatto che non è solo la forma architettonica la responsabile del successo o del declino di un quartiere abitativo, ma le scelte politico-sociali (giuste, sbagliate, omesse), le Facoltà di Architettura italiane hanno promosso sin dalla fine degli anni ‘70 una denigrazione dei grandi interventi “moderni” (Corviale e Laurentino 38 a Roma, Rozzol Melara a Trieste, Forte Quezzi a Genova, Zen-Cardillo a Palermo, ecc.), che ha contribuito in forte misura a spalancare le porte alla post-modernità e ai suoi rigurgiti, i cui esiti sterili e dal sapore di falso sono stati ben peggiori di quanto si voleva sanare. La città-presepe è stata, e per alcuni ancora lo è, la panacea per quanti si spacciavano per i guaritori dei mali delle periferie. Modello che, optando per un’architettura meno astratta e più accondiscendente, avrebbe narcotizzato le istanze delle classi meno abbienti e più conservatrici, trattenendole il più a lungo possibile in una condizione incolta e subalterna.
In questo quadro di totale confusione le leggi Merloni, nel goffo tentativo di ridurre la spesa della committenza pubblica, ha tentato di produrre il declassamento dell’architetto dal ruolo storicamente riconosciutogli di libero intellettuale, un po’ artista e un po’ scienziato, al grado di burocrate. Tale tentativo, va detto per inciso, è riuscito solo in parte, e mai bisogna abbassare la guardia.
I progetti
Occupiamoci ora di alcuni progetti che, letti nella loro successione temporale, rivelano una straordinaria coerenza e vanno a svelare la forgia sulla quale si è formata la personalità architettonica di Pietro Barucci. Per tutti gli altri, così come per una descrizione più puntuale ed esaustiva di questi, si rimanda alle schede qui di seguito illustrate.
Dal 1947 Pietro Barucci, appena laureato, elaborerà circa sei progetti, di cui due particolarmente significativi. Il primo è costituito dalla partecipazione al Concorso per il quartiere ICP di San Basilio a Roma, progetto che richiama alla memoria la scheda di un computer, con le case a schiera che diventano altrettanti banchi di memoria e microprocessori ante litteram, andando a costituire un interessante caso di anticipazione verso la prefigurazione di un’architettura “elettronica”. Il secondo, è costituito dal progetto eseguito della palazzina “Orione” su via dei Monti Parioli, nella quale è presente una composizione articolata delle logge che segue in senso cartesiano l’idea dell’alternanza dei pieni e dei vuoti.
Negli anni ’50 Barucci elaborerà circa venti progetti, di cui cinque di notevole interesse, tutti sviluppati dal ’58 in poi. Il primo è costituito dal Quartiere INA CASA Coteto a Livorno, caratterizzato da una conformazione planimetrica esemplare che va alla ricerca della definizione spaziale del vuoto tra i volumi, prima ancora che della morfologia degli edifici stessi, idonea a generare multiple unità di vicinato tra loro morfologicamente simili. Il secondo, ancora a Livorno, riguarda la sopraelevazione dell’edificio neoclassico che ospita l’Istituto Tecnico di quella città per inserirvi delle aule. La demolizione del timpano e del cornicione esistenti ne ridurranno gli eccessi semantici e, al tempo stesso, lasceranno libero lo spazio per l’inserimento di un piano attico di coronamento, molto vetrato. Il terzo progetto riguarda la partecipazione al concorso Internazionale per il nuovo municipio di Toronto, nel quale viene messa in campo un’interessante articolazione di volumi autosimili di matrice frattale, a partire da una corte aperta centrale. Quindi è la volta del progetto di concorso per la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele II di Roma a Castro Pretorio, che ha conseguito il secondo premio ex-aequo, il cui trattamento dei corpi e impianto planimetrico rimanda ad alcuni progetti per l’E42, segnatamente a quelli del Palazzo della Civiltà Romana di F. Albini e del Palazzo dei Ricevimenti e delle Feste di G. Terragni, C. Cattaneo e P. Lingeri.
Il decennio si conclude con il progetto segnalato al Concorso per un nuovo quartiere alle Barene di S.Giuliano a Mestre, caratterizzato da edifici in linea che generano corti per lo più aperte, sistemi edilizi in continua ricerca di corrispondenze spaziali.
Gli anni ’60 sono caratterizzati da una fervida attività che trova i suoi due nuclei centrali nel “Caravaggio” e nei progetti svolti in Tunisia ed Etiopia presso le sedi dello Studio a Sousse e ad Addis Abeba (BDS). In questo periodo Barucci elaborerà una serie innumerevole di progetti, difficilmente quantificabili se si includono tutti quelli per le scuole (concorsi e realizzazioni) e per le due citate realtà africane. Tra di essi se ne segnalano almeno tredici, singoli o raggruppati. Il primo è il vasto gruppo dei progetti per la Tunisia, che include la pianificazione urbanistica di centri abitati dell’Arrondissement di Sousse (El Djem, M’Saken, la Médina di Sousse, Kairouan, Moknine et Ksar-Ellal, Hammam-Sousse, Teboulba, Ksour-Essaf, Akouda), oltre all’elaborazione di un abaco di tipologie edilizie da impiegare nelle aree di espansione dei Piani urbanistici studiati. Segue il progetto presentato in Belgio al Concorso Internazionale per una Casa Europea che, grazie alla messa a punto di sistemi innovativi, si aggiudica il Premio per la Ricerca Tecnologica. Quindi il progetto realizzato, a seguito della vittoria al concorso nazionale, del Mercato Ittico di Livorno, con una copertura a doppia corda molle che ricorda le reti dei pescatori. Il quarto progetto è ancora un primo premio, quello dell’appalto concorso dell’Istituto Tecnico Industriale a Pietralata, Roma, che recepisce indicazioni internazionali sui caratteri distributivi degli edifici scolastici. Poi vi è la partecipazione al Concorso per il Centro Direzionale di Torino che sviluppa il tema degli edifici a corpi lamellari (di cui si è già trattato) e riporterà una menzione di merito. Il sesto progetto, iniziato con Adalberto Libera, porta alla realizzazione del Palazzo per gli Uffici dell’ENPAM in via Torino, concepito, caso raro nel centro storico di Roma, con struttura metallica in vista e pannelli esterni di tamponamento in graniglia rossa. E’ quindi la volta del grandioso Centro Direzionale a Piazzale Caravaggio nel quale Barucci, come già sottolineato, sintetizza nello sfalsamento di più corpi lamellari la propria “cifra” progettuale. L’ottavo gruppo di progetti include le quattro scuole realizzate dalla Tecnosider a seguito di appalti-concorso vinti: due Scuole Medie a Ostia Lido e Comacchio, due Istituti Tecnici Industriali a Velletri e Tivoli. Fanno parte di questo gruppo anche i progetti presentati a vari concorsi per scuole di vario tipo: a Roma sulla Circonvallazione Ostiense e alla Serpentara (1 e 2), Frascati, Sassari, Pistoia, Foggia, Torino. Quindi è la volta del gruppo di progetti di Pianificazione Urbanistica e Studio Socio-Economico di 17 Città dell’Etiopia, elaborati a seguito della vittoria di un Concorso Internazionale bandito dall’Imperiale Governo di quella nazione (Asbe Teferi, Asella, Axum, Bati, Bedesa, Combolcha, Dabat, Dangla, Debre Markos, Debre Tabor, Dera, Dessie, Dire Dawa, Gondar, Harar, Jijiga, Maichew, Tensea Berhan). Il decimo progetto che si segnala è quello presentato al Concorso Nazionale ISES di Napoli-Secondigliano – vinto dal gruppo Gorio – che risulterà tra i dieci selezionati, ulteriormente sviluppato in occasione del concorso Lussemburgo-CECA. Dal piazzamento all’importante prova di Secondigliano scaturiscono gli incarichi per il vasto Complesso ISES di 412 alloggi realizzato a Spinaceto, e per quello INCIS di 80 alloggi realizzato a Torino. Il tredicesimo gruppo di progetti è costituito da due interventi finemente concepiti di case per vacanze all’Argentario. Con l’intervento di Spinaceto Barucci prende confidenza con la grande dimensione abitativa, tema che diverrà l’oggetto principale di studio dei suoi grandi piani dei prossimi anni.
Nel decennio degli anni ‘70 il numero dei progetti è inferiore, pari a circa nove, ma non il dato dimensionale. Tra di essi se ne segnalano tre, tutti abitativi, tutti imponenti. Il primo è quello di edilizia sperimentale abitativa per 500 alloggi realizzati al Quartiere Tiburtino Sud, progetto che Barucci seguirà passo passo in cantiere per avviare il sistema costruttivo dei tunnel. Il secondo è il Laurentino 38 con il quale Barucci realizza il sogno di ogni progettista, peraltro già riuscitogli al “Caravaggio”, quello di dar vita a un’architettura a scala urbana, dove edificio e città si fondono in una concezione unitaria e stratificata dello spazio. L’obiettivo era quello di dar vita a una cittadella autonoma rispetto a Roma che assume la forma di un anello costituito da un asse viario principale, in trincea, di -4,4 m rispetto al piano porticato delle residenze, sul quale sono ubicati gli edifici, accorpati organicamente secondo il già descritto sistema delle insulae. Il combinato disposto dell’edificio-ponte e della strada in trincea, dalla quale hanno accesso le autorimesse, genera quel doppio livello di circolazione, uno carrabile l’altro pedonale, tanto auspicato in architettura sin dai tempi di Leonardo da Vinci. Al centro dell’anello è ubicato un parco. Il dato più significativo di questo intervento pensato per oltre 30.000 abitanti è costituito dalle undici insulae con i famosi ponti che collegano i due lati dell’asse stradale, distribuite su un interasse di 118,80 m secondo uno schema alternativamente ribaltato. La loro notevole spaziatura crea una consistente disponibilità di spazi intermedi sistemati a parco, con nuclei di scuole materne e asili nido, attrezzature sportive e ricreative. Come già menzionato il progetto deriva dal Piano Pampus di Bakema e Van den Broek per l’espansione di Amsterdam che metaforicamente dà luogo a una planimetria che mostra uno splendido “cobra” eretto sul proprio fusto. Al Laurentino 38, per carenza di spazio, il cobra viene riposto nella “cesta” (l’area, che qui è di forma compatta), trasformando l’asse bakemiano in un anello. Il terzo gruppo di progetti che conclude gli anni ‘70 è costituito dallo studio tipologico per la Legge 513/1977 che darà luogo al quartiere abitativo di Torrevecchia.
Gli anni ‘80 sono caratterizzati da tre progetti imponenti, oltre a una serie di partecipazioni a concorsi e altre ideazioni di varia scala. Il primo è costituito dalla trilogia elaborata per Tor Bella Monaca, che mette in campo sette torri, di cui tre collegate tra loro, e un immenso edificio a redant. E’ poi la volta dei tre colossali interventi del Piano Straordinario di Edilizia Residenziale a Napoli, PSER, per un totale di oltre 1.800 alloggi, che includono gli ambiti di Taverna del Ferro, dell’antico Casale di Barra, e di Pazzigno dove, in quest’ultimo, viene progettata e realizzata anche la chiesa parrocchiale. Si tratta di un impegno di lavoro che durerà dodici anni, centrale tanto per questo decennio quanto per il prossimo. Una particolarità è che i due imponenti edifici abitativi di Taverna del Ferro e di Pazzigno sono in perfetto allineamento tra loro. Di 240 metri di lunghezza il primo e di 120 il secondo, essi si sviluppano secondo la medesima sezione. Ciò è dovuto al fatto che si voleva sottolineare il carattere unitario e qualificante della ricostruzione, facendo sì che dal mare si potesse percepire la presenza di un volume virtuale tratteggiato dai due interventi distanti tra loro circa 900 metri, che dovevano svettare sul vasto quartiere di San Giovanni. Una barra ideale con il compito di ricucire, quasi a proteggere e rafforzare, tutto il quartiere stesso. L’ideale segno urbano piacque molto al Commissariato diretto da Vezio De Lucia che se ne affezionò come a uno slogan non volendo più rinunciarvi e, quando a causa del pessimo terreno di fondazione dell’edificio di Pazzigno affiorarono delle insormontabili difficoltà costruttive, questi non volle rinunciarvi a costo di dover ricorrere all’uso di una struttura metallica che ne ha cambiato sensibilmente i carattere architettonici.
Il terzo progetto è costituito da un altro piano di zona romano, il Quartaccio, per circa 750 alloggi del 2° PEEP pensato a una scala diversa, minore rispetto agli altri grandi interventi abitativi. Poi vi sono i progetti non realizzati dei tre interventi abitativi Cosper a Catania. Quindi la partecipazione al concorso per la sistemazione di piazza Matteotti a Vicenza e la grande villa realizzata nella campagna romana, progetti che segnano quel momento di riflessione nell’opera di Barucci al quale si è precedentemente accennato.
Gli anni ’90, oltre ai lavori ancora in corso fino al 1994 a Napoli, registrano qualche partecipazione a concorsi tra cui si segnala quello per la nuova sede dello IUAV a Venezia.
Con il terzo millennio Pietro Barucci interrompe la professione, ma nel 2009 partecipa insieme al sottoscritto al concorso internazionale per una torre-simbolo di 170 metri a Dubai. I progetti presentati sono 2.967 provenienti da 108 paesi. Pertanto, oltre ad aver avuto il piacere di occuparmi della sua monografia ho avuto anche quello di elaborare insieme a lui l’ultimo progetto in essa contenuto.
L’esperienza di Harvard
Forse anche per andare oltre l’esperienza di Napoli, nel dicembre del 1994 Pietro Barucci accetta la proposta di Peter Rowe, Professore di Architettura e Urban Design nonché Preside della Facoltà di Architettura di Harvard, di tenere un corso agli studenti dell’ultimo anno della Graduate School of Design (GSA). Il piano didattico comprendeva uno studio comparato dell'edilizia sociale realizzata in Italia e negli Stati Uniti dopo la seconda Guerra Mondiale; corsi da tenersi separatamente da Barucci e da Rowe, ma con una sessione finale comune, di confronto tra le due esperienze e per la formulazione dei titoli delle tesi che gli studenti avrebbero dovuto svolgere. La risposta fu molto positiva e produsse lunghi testi da parte degli studenti, accuratamente commentati da Barucci e riveduti e valutati da Rowe.
Barucci era partito per l'America alla fine di agosto del 1995 dopo otto mesi di lavoro ininterrotto per la preparazione del seminario, che ebbe inizio alla fine di settembre e, con una lezione alla settimana e i "tutorial" negli altri giorni, terminò a Natale, dopo la sessione finale di confronto fra i due corsi. Le conclusioni furono particolarmente interessanti, e misero in luce le profonde differenze fra l’esperienza italiana, finanziata e gestita dallo Stato, e quella americana, condotta soprattutto dall’iniziativa privata ma non priva di importanti contenuti sociali e di contributi pubblici. Fu anche posto in rilievo il diverso significato delle due operazioni dal punto di vista culturale, in special modo per quanto riguarda l’architettura e il diverso ruolo esercitato dagli architetti. Il lavoro di lettura e commento delle tesi occupò i primi mesi del 1996.
La chiusura dello studio
Una nota aggiuntiva è necessaria su questo argomento. Negli anni ’80 ha fatto la sua comparsa il personal computer che, con la sua vampata di virtualità e disponibilità non solo a costruire ma anche a decostruire lo spazio, inizia a sancire e a rendere sempre più certa l’incertezza del futuro. Barucci, per una questione generazionale, vive questa esperienza di riflesso, anche se, a riprova della sua instancabile vitalità, nel 2009 usa computer di ultimissima generazione con i quali scrive, lavora tratta immagini, manda e-mail, naviga su internet. Più difficile per lui, ma anche per chi ha 30 anni in meno, usare quei fantastici programmi che rendono possibile un uso anche temerario della geometria spaziale, generando ogni immaginabile intersezione tra solidi e superfici complesse.
In questo momento di nettissimo passaggio storico, il vento dell’Angelus Novus della rivoluzione informatica ha sostituito l’odore di ammoniaca delle vecchie cianografiche con quello immesso negli studi di architettura dalle ventole di raffreddamento dei microprocessori al silicio dei computer e dai getti d’inchiostro dei plotter e delle stampanti. E’ come se lo stesso progetto nell’atto del proprio compiersi abbia subito un processo di alcalinizzazione, passando dai medioevali vapori degli acidi di ammonio, ai filtrati e controllati odori dell’incipiente contemporaneità elettronica: dal ventilatore all’aria condizionata, con però il rischio di bronchiti croniche; dal sudore al deodorante, con però odori spesso più sgradevoli di ciò che si vorrebbe combattere.
Barucci stesso ammette che questo vento nuovo ha mutato radicalmente le scale dei valori: «perfino le fondamentali leggi di natura, la gravità, la statica, sono considerate in una luce diversa, di sfida, il tutto con un senso di transitorio, di liberatorio, di ironica trasandatezza: il casual dall’abbigliamento è passato all’architettura… un inquietante aspetto della contemporaneità fugace ed evanescente».
Fatto sta che, appena varcato il millennio, di fronte a un quadro che ormai è radicalmente cambiato, Pietro Barucci decide di chiudere il suo studio professionale. Seppur non indolore, la scelta è netta, una di quelle che si pensano in anticipo e si attuano in modo costante, pacato, sicuro, senza ripensamenti, facendo sì che ogni cosa vada al suo posto. Insomma, non è nel suo stile uscire dalla professione, metaforicamente parlando, con la scatola di cartone piena di oggetti personali sotto al braccio, immagine tipica dei film americani quando qualcuno lascia un incarico. La preparazione riveste invece per Barucci un ruolo importante, richiede mesi, forse anni. Poi, l’ultimo giorno, con grande eleganza, egli esce di scena a mani libere, senza neanche un foglio. Nel 2008 donerà il suo nutritissimo archivio alla Soprintendenza Archivistica Regionale del Lazio, dov’è conservato presso l’Archivio di Stato di Roma-EUR.
Ciò non gli impedisce, peraltro, di lavorare, scrivere, partecipare a dibattiti, accettare i frequenti inviti ai corsi delle facoltà universitarie, fare lunghi viaggi per interessi culturali o di umane frequentazioni, partecipare a concorsi, ma soprattutto di mettere in ordine e organizzare in sei fascicoli, con il valido aiuto di Cosimo Distante, le schede delle sue tante opere realizzate e dei progetti, dai quali nasce questo libro.
Ruggero Lenci on Pietro Barucci
Pietro Barucci is a Roman architect, whose family roots are in art, architecture and building. His paternal grandfather, the painter Pietro Barucci (1845-1917), famous for his rustic scenes set in the Roman countryside, was a pupil of Achille Vertunni at the Academy of San Luca. His great-uncle, Pio Barucci, a talented builder, was responsible for the Anglican Church of All Saints in Via del Babuino, a project begun by George Edmond Street (1882) and concluded by Pio along with Vincenzo Cannizzaro. Anyone who knows the church – I was present at a mass celebrated by the Archbishop of Canterbury there on 14 February 1999 – will certainly have been astonished by the extraordinary quality of the mass of detail inside, from the oak floor to the marble columns inlaid with semi-precious stones, lapis lazuli and basalt, and pre-Raphaelite mosaics and windows. His father, Giulio Barucci (1891-1955), was an engineer, and as well as various consultations for the property of the Marquises Patrizi, he built Villa Hole at Monti Parioli and Villa Lessona at Santa Marinella.
With this family tradition in the figurative arts, design and construction behind him, the young Pietro (1922) began his architectural studies in 1940 in the thick of the war, with the inevitable interruptions that that entailed. Following a brilliant university career – he excelled particularly in composition and design, so much so that his designs from that period are still the object of admiration – he graduated in 1946 with various teacher-guides from Arnaldo Foschini’s extensive circle, which included Luigi Vagnetti.
His friends and colleagues included Leonardo Benevolo, Claudio Dall’Olio, Vittorio De Feo and Romualdo Giurgola. His relations with Carlo Aymonino, who was about four years younger, were always respectful but never idyllic, while with Paolo Portoghesi, who was nine years younger, there was never much mutual admiration, at least after the latter’s interview with Paolo Mieli in Espresso (3 May 1981), in which he drew up a list of Italian architects, including P. Barucci, N. Di Cagno, S. Lenci, P. Sartogo and L. Passarelli, who in his view failed to appreciate the urgency of the post-modern wave.
From 1946 to 1955 Pietro Barucci taught under Arnaldo Foschini, whom he described as “a true gentlemen, a man whose style and elegance are absolutely unquestionable”. His training was therefore influenced by the stylistic features of the age of the academicians, who, apart from Foschini, included Marcello Piacentini, Vittorio Ballio Morpurgo and Roberto Marino, as well as the ultra-modern Mario De Renzi. While still a student – as the designs illustrating these introductory texts demonstrate – Barucci freed himself of the neo-classical stylistic features typical of the academies in the 1940s, while maintaining some of those features in his personality.
This was the impression he made on me when I met him in 1985 – he was not in the Faculty in the 1970s and until then I had only studied his works, the Caravaggio and the Laurentino 38 – and I had the opportunity to work with him on the project of the Plan of the Low Income Housing Mistica 2 in Rome in a group that included Carlo Melograni, Nico Di Cagno, Sergio Lenci, Marta Calzolaretti, Piero Ostilio Rossi, Giampaolo Imbrighi and Simone Ombuen.
His personality was well-formed and clear-cut, capable of warmth but decidedly spiky, and over the years he aroused jealousy in various quarters, both in the university and among professional architects. Once he had succeeded Foschini, Saverio Muratori dismissed him in no uncertain terms after nine years of work. Luigi Moretti, in the CEP district of Livorno which he was coordinating (1959-60), treated him first as young and inexperienced, suggesting he draw on his typologies for the Olympic Village in Rome, only to think again when his suggestion was boldly refused, and when he saw the quality of the schemes proposed and how they were put into effect. In 1961 when a road accident prevented Mario Ridolfi from taking part in a competition of the Istituto Tecnico Industriale of Pietralata, he cut Barucci dead when he won it.
Bruno Zevi did not like him as his uncompromising attitude was not revolutionary, and clearly saw him as unsuitable for breaking with history in the required way. After Muratori, Ludovico Quaroni left him empty-handed, preferring to take on the young rising star of Italian architectural theory, Manfredo Tafuri who at once produced his famous book on his master’s work, after which nothing, apparently, was the same again, demonstrating that in academe theory (especially if well-timed and flattering) is stronger than practice. After years of absence from the Faculty of Architecture, he was recalled to teach under the rationalist master, Adalberto Libera, who then died at the early age of 59 in 1963. At the end of 2006, when Veltroni was Mayor of Rome, the councilor Morassut had three of the eleven bridges of his Laurentino 38 demolished, proposing to replace them with unrealistic formal-functional plans quite out of keeping with the logic of the area.
All these, and many other, academic and professional experiences, made Barucci impervious to the blows of life, toughening him and increasing his resistance, perhaps at the expense of that suppleness that we find in other, younger, figures. Yet one could hardly describe Bruno Zevi, Adalberto Libera, or Mario Ridolfi as supple. Architects born as they were immediately after the implacable clash between academe and the contemporary could not afford to be supple, whichever side of the barricades they were, and all, without exception, clearly bore the marks of this. This does not mean that Barucci was unwilling to change his mind or accept other points of view, but that only happened when he was faced with solid, well documented and convincing arguments.
So, particularly in the 1950s, he was one whom the academic and architectural powers-that-be of the period did not want to have too close to them – in some cases so as not to be in his shadow, in others because he was less likely to accept the role of an all-purpose dogs-body than other more amenable colleagues – though they reserved the right to offer him one of those complex, delicate tasks that can be solved one by those who are really good, dynamic and with international breadth.
But if Pietro Barucci’s role in the university was a very intermittent affair from the mid 1940s until 1963, at the same time he enjoyed a most brilliant career that saw him designing much, particularly in cities such as Rome, Naples and Livorno, as well as Turin, Aosta and others in Italy, and abroad, in Tunisia and Ethiopia.
The years of neo-realism: from the “Baroque-toy village” to “Barucci’s Laurentino”
Founded in 1944 by Bruno Zevi, APAO transformed Frank Lloyd Wright into a myth that, along with the Scandinavian neo-empiricism of Sven Markelius, encouraged more or less consciously the movement away from rationalism that led to the transfusion of neo-realism from the cinema to architecture, as happened particularly in the work of Mario Ridolfi, Ludovico Quaroni and Federico Gorio. The neo-realist cinema of the forties, fifties and sixties, in films such as Vittorio De Sica’s Bicycle Thieves (Ladri di biciclette) and Roberto Rossellini’s Rome, Open City (Roma città aperta), and, later, Francesco Rosi’s Hands Over the City (Le mani sulla città), described the real state of the country, and the architecture of the new districts was the real background of these descriptions, which used the city as a set, an artistic choice determined partly by shoe-string budgets.
As is well known, these districts, which grew out of the Ina-Casa plans directed by Arnaldo Foschini, were the hub of post-war reconstruction and became the testing ground on which post-fascist Italy could experiment with architectural design on an urban scale. Foschini was good at distributing jobs and encouraging a cosy experimentation, so much so that neo-realism in architecture emerged as a distinctive feature of his, particularly visible in the famous district of Tiburtino, which was intended as a welcoming environment for the farm-workers who had moved to the capital, giving them a habitat that would seem familiar: the Baroque-toy village, (Il paese del Barocchi), in the words of Ludovico Quaroni in the pages of Casabella.
Pietro Barucci resisted longer than others, until the Quartaccio of the 1980s, before adhering to this populist version of the Roman School as a mean between the organic and neo-empiricist importations transfused into a home-grown neo-realism designed to transform Rome into one large village. From his first project, the ultra-modern palazzina in Via dei Monti Parioli, his membership of the Roman School was clearly on the side of Vincenzo Monaco, Amedeo and Ugo Luccichenti, Adalberto Libera, Mario De Renzi, Luigi Moretti, and Giuseppe Vaccaro, which meant it was characterized by an irreducible desire to be contemporary, and in any case skeptical toward the theories put forward in that period by Ridolfi, Quaroni and Gorio.
On architectural design, figures such as Barucci, Dall’Olio, Aymonino, Passarelli, Fiorentino, Lugli, Gatti-De Sanctis, Mandolesi and Anversa had more in common than being of the same generation, and along with Melograni, Berarducci, Rebecchini, S. Lenci, Piroddi, Lambertucci and Chiarini they created the strong texture of the Roman School, which reached its apex in the 1970s. While constantly seeking an Italian identity in architecture, the best and most cultivated exponents of that School always had an eye on what was being done abroad.
British housing (from the Barbican to the Brunswick Center, from Roehampton to Alexandra Road), French housing (from the Parisian banlieu to Candilis, Josic and Woods’ Le Mirail in Toulouse), and the elegant experiments of Jacobsen and Erskine, suggested a new method of design to Italian architects, one that was not only serial and sober, in accordance with the new myths of collaborative design and the architect as mere “technician”; in fact these were the changes invoked by the university faculties and the public bodies involved in state building projects.
Large-scale housing arrived in Italy with three colossal projects in Trieste, Genoa and Rome: in particular Carlo Celli’s Rozzol Melara, Carlo Daneri’s Forte Quezzi and Mario Fiorentino’s Corviale. But without a doubt the Laurentino 38 was the first real urban-scale housing project, the new citadel conceived as a unity. In the first three it is the building that sums up the whole meaning of the project, restoring it to the city in the form of a macro-sign – an abstract surrogate of the city it condenses in itself – in Barucci’s work it is the distribution and organization of volumes and functions that determines the futuristic rules of an estate for a community of 30,000 inhabitants. Bridges, towers, linear buildings, sunken roads, differentiated course-ways, and insulae consisting of seven buildings, make up the new piece of the city like vertebrae, with streets named appropriately after futurists such as Filippo Tommaso Marinetti.
But the areas for these grand works were those dictated by “leopard-skin” development, a more intriguing slogan for town planning, at least in theory, than the kind of uncontrolled development everywhere. In Rome the choice of this type of development was influenced, quite illogically, by Sven Merkelius’ Stockholm Plan for a natural environment full of trees and lakes. In the very different Roman context this set off an ominous and gratuitous process of dismembering the tissue of the city. Evoking the leopard concealed this quite unsuitable idea of Rome as a “city divided into parts”, which boded ill if what held sway among the parts was degradation, the residual and demolition areas, as proved to be the case.
Nor was the project of the Studio Asse able to impose a change of direction on a trend that found it easier to parcel up the territory according to the current balance of power – and so control land rent – striking the city bit by bit, as if it were a naval battle.
At a certain point, toward the end of the 1970s, the idea took hold that the enemy was architectural style, its language, and not the city planning rules. That led to the blunder of post modernity, which led many architects astray in that period, but which did not frighten Barucci, apart from producing a few limited lyrical concessions. France, in particular, caught the bug, above all with Bofill, and so did England with the ideas of Prince Charles, and the USA, with projects across the whole country culminating in the building of the city of Celebration in Florida, a symbol of the ephemeral, a neo-unrealist set of the American dream where everything is fake and has happily become a “Truman show” that replaces Italian neo-realism à la Collodi with a Walt Disney fairy story enervated by an endogenous minimalism à la Carver.
Like the Laurentino 38, the Zen district in Palermo too, though very different in conception and scale, showed how impossible it was for architects to solve the problems of a society that was in a permanent state of convalescence, if not chronic disease. Architecture, as those interested in Behavioral Architecture well know, can do something to improve the behavior of human communities, but not everything. In addition, like a newly planted stripling, it needs support in its early years, and without it, like the tree, once bent, will never be straightened.
The dilemma of the urban dimension of architecture
Barucci’s architecture is therefore deeply rooted in the basic questions of design, without identifying itself with the various volatile trends of the last quarter of the twentieth century. Although certain projects, such as the reconstruction of some sections of the district of Casale di Barra in Naples, the Quartaccio district in Rome, and the villa in the Roman countryside, show the effects of his experience in Campania in search of an appropriate scale and a zero impact sustainability on the environment, they sacrifice those ontological leaps toward the future, those visions that his previous works had accustomed us to.
There are three different reasons for this.
The first was an almost cynical response to that “acrid sense of condemnation pervading public opinion” that had emerged from the modernist experiments of the mythical sixties and the damned seventies. It was a reaction against a false and propagandistic dismissal of architects as those mainly responsible for urban degradation, reprobates, planners of banlieu that could no longer be put forward in the eighties – a response now pervaded by the weak thinking that in design disciplines foretold a return to housing plans that were no longer intensive but at least semi-intensive.
The second was the desire to make a serious attempt to understand and identify with the needs of society, like true sages who detest the empty sophistry of dialecticians – a human category interested only in seeking approval (like Seneca, Barucci appreciates lyric poets more than dialecticians, as at least they know they are spouting nonsense). And, absorbed in a poetic wind, with a mass of significant achievements like the Caravaggio, the Laurentino 38, etc., but not before reaching that density of ideas and finished work, they generate vortexes that infuse the Attic airs of the past into the western breeze of today. With all that behind them, they can nod acknowledgment at “this nonsense” (approval), without contempt, but without deceiving themselves either that there is some secret virtue in it. At worst, in cultivating lyricism, one would have felt a Cartesian, Shakespearian doubt, a sense of being in thinking, even in doubting, in opening oneself once more to that suppleness of thought that always ripples and wavers at the turn of each decade, century or millennium. Then again, not a few architects have had highly contrasting careers. Le Corbusier began his vast output with an ugly house in neo-classical style in his native town of La Chaux-de Fonds (1905), but from there he moved on to Villa Savoye, Ronchamp and Chandigarh. So it is no surprise if in his old age Pietro Barucci wanted deliberately to experiment with architecture in a lyrical style. If anything we might wonder why his development was in the opposite direction.
The third aim, certainly the truest because real and operative, was his passion for architecture as an exceptional drive to sound the countless possible, and often complex and almost Escher-like, solutions of space and how to represent it. This passion developed in Naples, during what at first sight seemed the impossible mission of upgrading the district of Casale di Barra: either one’s professional passion will see one through a task like that, bristling with difficulties of every kind, or one will give it up. Either one tackles the problem, immersing oneself in it totally, or one stands aside and does nothing. And Barucci, still active today in the debate on architecture, once again close to students (both Franco Purini’s and mine), never stood aside, but always got to grips with questions from within, with that openness so well explained by Louis Sullivan: “part of every well-framed problem is that it contains its own solution”. And this was so from the individual building, to the mixed use development, from the plan for a district to the restoration of the existing building heritage. And it was precisely this last subject that often unleashed hidden energies, in which the smells of the building yard mingled with the odor of the hand-drawn blueprints and designs, the sweat of the workers under the Neapolitan sun with the good wine from the tufa hills in that generous region, the constant motorway journeys and the odd setback, such as the theft of a car, which magically reappeared when a reward was offered.
Getting to grips with problems from within is a day-by-day affair, having that positive fluid that can legitimately transform crisis into value, designs into works, restore the riddled hulks of dilapidated buildings with a responsible imagination that chooses to adhere to the reality of places, like a true expert on architectural space. He was deeply affected by the experience of creating paved squares, outside staircases, porticos, stairways like those of the rabat at Monastir and Sousse that he knew well from the ten years spent in Africa, walls restored with fresh, colored and aromatic plaster, typologies tactfully blending with what was already there, with no traumatic lacerations in the roofs, chimney pots, windows, balconies and railings. In short, the famous elements of architecture, those building components that someone has to choose, produce and take responsibility for when the occasional error is made. The many young architects who were close to Pietro Barucci and Vittorio De Feo in the years of the PSER in Naples (M. Avagnina, E. Dezerega, S. Ombuen, G. Palombi, M.C. Perugia, P. Pizzinato, P. Quondamstefano, C. Vigliotti and E. Villani) were worthy collaborators in this work of planning, building and rebuilding, all based on a hermeneutics of the stratification of the city of Naples, of the intimate nature of the places, and of the will to conserve (Casale di Barra) what could often have been more easily and cheaply razed to the ground and rebuilt, at the cost of the irreparable loss of some historical urban characteristics of the place.
All this, over a period of ten years, had a profound effect on a sensitive and generous architect like Barucci who lived in the center of Rome a stone’s throw from the above-mentioned Anglican Church of All Saints in Via del Babuino. Many Romans who live in the city center feel it in their blood, and have no intention of leaving it for more convenient and reachable places, because of the many benefits and privileges they find there: the Spanish Steps and the wonderful historical texture, the throbbing restaurants, art galleries, emporia and boutiques, the dynamic color of the tourists, Piazza del Popolo and its bars, and now, for good or ill, Meier and his white marble shell too. In short, once one is steeped in this civilization of living in the center of Rome it is very hard even to think of another, modern alternative, even though Barucci managed to with his Laurentino 38.
So let us simply consider the Quartaccio, the projects for Catania and, above all, the villa in the Roman countryside – projects that could easily be imagined as the work of a Portoghesi – as lyrical moments, understandable moments of uncertainty and self-doubt that had arisen as a result of the suppleness acquired on the field, in the decade spent among the ancient urban textures of Naples.
Comparing generations
Men of Barucci’s generation, as he wrote himself, paraphrasing Pasolini’s famous 1972 essay on the Communist Party, were neither “Athens” (Libera, Ridolfi, Moretti, Quaroni, Muratori, Zevi, De Carlo, etc.) nor “Salamis” (Tafuri, Aymonino, Portoghesi, etc.). Like Lucio Passarelli and others, he was a “post-Athenian”, an architect belonging to a transitional generation. And it was precisely their not belonging to generational groups, this lack of an identity shared with equals, that led the post-Athenians to face design from a rational and scientific, rather than artistic, point of view. In housing, for example, Barucci saw the typology of the flat as the central question, the one that directed the rules of architectural composition. Not the elevations or the articulation of masses as ends in themselves without reference to the content that generated them.
As in Pasolini’s account, the “Lacedaemonians”, those of the imminent student rebellion of 1968 allied with Salamis against Athens, and – more because of the conditions imposed by Salamis than out of conviction – against those of the transitional generation, who were seen as a resistant and tenacious tendon adhesion, to be removed with the scalpel to let in the new fluxes, which, as we know, require well sheathed ligamental flows. So these adhesions were stubbornly turned into sheaths, the continuity of history into a break with the past, only to use these fractures as a fast lane for certain rapid fluxes, fault-lines on which to redesign dynamically the new continental drifts of architecture, the new trends that the discipline would have to take on board both inside and outside the academy.
The lamellate approach
A distinctive characteristic of Barucci’s work is his development of an approach to form and space using parallel lamellate volumes, a method that has been extremely fertile in contemporary architecture. The first signs of it were the ground-plan for the competition project for the ICP district of S. Basilio in Rome in 1947 in which the row housing units were organized facing in the same direction, like carriages running conceptually on invisible rails, with plenty of open space between them.
This would be taken up on a much larger scale in the plans for the mixed-use development of Piazzale Caravaggio in Rome, the competition for the vast mixed-use development in Turin, and the Laurentino 38 (also in Rome), as well as in the pairs of buildings of Taverna del Ferro and Pazzigno at the PSER of Naples.
There are various antecedents. In 1924 Ludwig Hilberseimer designed his famous vertical city of parallel lamellate buildings and stratified movement and functions, a project that imprinted itself on the memories of all the new generations of architects. In 1957 Helmut Hentrich and Hubert Petschnigg built the Phoenix-Rheinrohr skyscraper in Düsseldorf, in which five lamellas are placed next to each other and compressed into a single building, a multi-layered quintuple package. Barucci saw this project in the journals, went to Düsseldorf and was impressed by its clarity and coherence in handling form and space. So, when he was given the job of the mixed-use development of Piazzale Caravaggio (three designs, from 1959 to 1963), inevitably he had to try the lamellate approach. In the first proposal in collaboration with Manfredi Nicoletti the sliding effect was still only in embryo, but in the final version it was stratified both horizontally (Hilberseimer) and vertically (Hentrich and Petschnigg). It was a reinterpretation of the Düsseldorf skyscraper, with a plate containing stratified circulation and functions, transforming it from an isolated element into a system: the urban spine was born.
The competition project of the Turin mixed-use development (1962) was a further significant stage of experimentation with stratification and the sliding effect of volumes, a generous attempt based on an alternative system to the spine that prefigures a unified piece of the city.
The final version of the project of Piazzale Caravaggio dates from 1963 and it was much praised by Leonardo Benevolo. It appeared two years before Bakema and Van den Broek’s complex and majestic Piano Pampus to extend Amsterdam (1965), which, along with the new town of Cumbernauld in Scotland, was an indispensable source of inspiration for Barucci when he designed his Laurentino 38 (1971-73). In the light of this experience, and placing it alongside the proposed model of a nordic Venice, the urban spine is more complex in the Laurentino 38 than it is in the Caravaggio, and it is this, the footbridge with shops, and the tower, that give a structure to its insula. Here the lamellate compositional logic becomes the rule, the nucleotide system of a DNA presiding over the deployment of volumes and spaces in the seven structures of the five linear buildings, the tower and the footbridge. It was an arrangement that had been sought by the flower of European architecture, from Gropius’ Bauhaus to the many housing experiments of the 1960s and 1970s – see, for example the project presented at the 1965 ISES Competition by S. Lenci and A. Lambertucci – and, leaving aside the all too predictable disputes, Barucci had the great credit of being able to synthesize it in a system of urban-scale architecture.
So the urban spine and the insula–– both of them complex lamellate compositions whose matrix is at once organic, rationalist, neo-plastic and international – are Barucci’s essential trademark, what give him his entrée to the history of contemporary architecture.
His journey was not linear, but guided by his experimentation in the development of architectural awareness as a question of empathy, which belonged to a broader dimension of the designer’s interests. We can pick out the following transitions, like the warp and woof of a development based on urban design: from Düsseldorf (the element), to Piazzale Caravaggio (the spine), to Turin (sliding effect as design matrix in the consolidated city), to Amsterdam (the backbone at the design stage), to the Laurentino 38 (the backbone finished). It should also be added that the two huge mixed-use developments, the Peachtree Center and the Embarcadero Center, designed and built by John Portman in Atlanta and San Francisco respectively in the late 1970s, are a further interpretation of this theme, with a characteristically American, markedly vertical development.
Although the lamellate volumes in the competition project for the Turin mixed-use development of 1962 were not organized as an urban spine, the two American projects help us see what a significant contribution to research on the stratification and sliding of buildings it was, where they are compacted in volumes that allow a glimpse of their design matrix. It is a very different project from the Caravaggio or the Laurentino, one which opened up further possibilities. The concept of spine – as we have said, the apotheosis of Barucci’s experimentation – is actually possible and relevant only if there is an artery crossing and linking them. Without that the volumes are organized differently.
Another point worth noting is Barucci’s resistance to fashion, with the result that his projects are almost wholly lacking curvilinear elements.
Urban architecture and building
Unlike many architects of his generation, Pietro Barucci was always in search of architectural possibilities that transcended the standards of Ridolfi’s manual, and, particularly in housing, ranged across Europe. Never limited by the narrow economic logic of builders, he always sought to understand and forestall it by incorporating its essential data in the project from the start, rather than enduring it as an unacceptable imposition. Hence his great passion for the building yard, for studying non-traditional solutions for Italy, such as the French company Hirondelle’s “tunnel system”, which we would soon become expert in, adapting it to local requirements.
The Institute of Architecture, In/Arch, strongly desired in Italy by Bruno Zevi as a cultural meeting point, a hub for architects and businessmen, has always organized debates and meetings to support and encourage a balanced mixture of designers and builders in which each should be able to express the best of himself, without blocking the needs of the other, but being open to them and knowledgeable about them, and, if possible, putting them into effect as well as possible.
Pietro Barucci performed an important role in this direction, with his generous contribution not only to developing architectural projects tout court, but also to making them real using the most experimental building methods, which, particularly in the 1960s and 1970s, were taking hold in Italy too. His involvement in this was total, especially in the years of the construction of the first PEEP with the projects of the Tiburtino Sud and the Laurentino 38, in both of which he made use of the above-mentioned French tunnels and on-site methods of pre-fabrication, which were key works of the “damned” seventies. In the first of the two projects he was also construction manager, with a total commitment in the building yard and the role of coordinator for the French holder of the patent of the tunnels. If good building means finding the best methods that make possible the transition from project to finished work, planning a feasible building means having the capacity and natural inclination to plan it with the building method in mind, giving life to an organism in which the distribution of space, the structure, the fixtures, volumes, windows, materials, etc., are integrated from the start in a complex system of choices, all of them present from the start on the architect’s drawing board. As an example, see the plans for the rows of buildings in Tiburtino Sud and those for the towers of the Laurentino 38.
Urban architecture and organization
But none of this is enough to produce suitable parts of cities if the political system in control is unable to build them appropriately and, above all, to organize them. In Rome this incapacity culminated in perhaps the worst errors that were ever committed in Italy, due first of all to the absurd conflicts between the City Council and the IACP, the public independent body for social housing. As a result, many districts were left to their fate, like the Laurentino 38. They never really took off through an incapacity to operate socially useful choices that were equal to the great ideal of urban architecture on which Barucci had gambled, hoping for a happy community life for the inhabitants of those neighborhood units, the insulae, which were the district’s backbone or modules of growth.
In the last analysis, the degradation of the district was a result of the city council’s decision to transfer a hundred or so families there who had been squatting in the Hotel Continental, which had become a gangland center. This set off a battle for control of the territory by petty criminals. Indifferent to the fact that it is not only architectural form that is responsible for the success or decline of a housing area, but the political-social choices (right, wrong, or inexistent), since the late 1970s Italian schools of architecture have encouraged the denigration of the great “modern” works (Corviale and Laurentino 38 in Rome, Rozzol Melara in Trieste, Forte Quezzi in Genoa, Zen-Cardillo in Palermo, etc). This denigration helped open the doors to post-modernity and its resurgence, whose sterile and false results have been much worse than what they sought to rectify. The city-crib was, and for some still is, the panacea for all those who peddled themselves as healers of the suburbs’ ills – a model that, by opting for a less abstract and more amenable architecture, would have narcotized the aspirations of the less affluent and more conservative classes, keeping them as long as possible uncultured and subservient.
In this framework of total confusion the Merloni laws clumsily sought to reduce the costs of public works by trying to declassify the architect from his traditionally recognized role as a free intellectual, part artist and part scientist, to the level of a bureaucrat. This attempt, incidentally, was only partly successful, but one should never drop one’s guard.
The projects
Let us look now at some projects that, viewed chronologically, reveal an extraordinary coherence and the forge on which Barucci’s architectural personality was formed. For all the others, and for a more detailed and exhaustive description of them, the reader is referred to the illustrated descriptions that follow.
After 1947 the newly graduated Barucci drew up around six projects, two of which are particularly significant. The first was his participation in the Competition for the ICP district of San Basilio in Rome, a project that recalls a computer card, with the terraced houses like so many memory-banks and microprocessors ante litteram – an interesting case of anticipating an “electronic” architecture. The other was the finished building of palazzina “Orione” in Via dei Monti Parioli, where the loggias are a Cartesian pursuit of the idea of alternating volumes and spaces.
In the 1950s Barucci drew up around twenty projects, five of them of notable interest, all of them developed from 1958 onwards. The first was the INA CASA Coteto district in Livorno, whose exemplary plan experiments with the definition of the empty space between the volumes, more than with the morphology of the buildings themselves, with a visual multiplication of the similar units. The second, also in Livorno, was the added storey to the neo-classical building that houses the city’s Technical Institute to house lecture-rooms. The demolition of the existing tympanum and cornice limited the semantic excesses and at the same time left space free for a glazed attic storey. The third project was his submission for the international competition for the new City Hall of Toronto, which deploys an interesting articulation of similar volumes with a fractal matrix, starting from a central open courtyard. This was followed by the competition project for the Vittorio Emanuele II National Library of Rome at Castro Pretorio, which came joint second, and whose handling of the buildings and the plan recalls some projects for the E42, particularly F. Albini’s for the Palazzo della Civiltà Romana, and G. Terragni, C. Cattaneo and P. Lingeri’s for the Palazzo dei Ricevimenti e delle Feste.
The decade ended with the project submitted for the Competition for a new district at the Sandbanks of S. Giuliano at Mestre, its rows of buildings creating largely open courtyards, building systems in constant search of spatial correspondences.
The 1960s were a very busy decade for him, the period in which he designed the two central nuclei of the “Caravaggio” and the projects in Tunisia and Ethiopia in the studios at Sousse and Addis Ababa (BDS). Barucci’s many projects in this period are difficult to number if we include all those for schools (competitions and completed works) and for the two locations in Africa. There at least thirteen, single works or groups. The first is the vast group of projects for Tunisia, which included the planning of the residential centers of the Arrondissement of Sousse (El Djem, M’Saken, the Médina of Sousse, Kairouan, Moknine et Ksar-Ellal, Hammam-Sousse, Teboulba, Ksour-Essaf and Akouda), as well as drawing up a list of building typologies to use in the expanding areas of the town plans studied. There followed the project presented in Belgium at the International Competition for a European House, which, thanks to its innovative systems, won the Prize for Technological Research. He also won the national competition to build the Fish Market of Livorno, with a roof in soft double cord, suggesting fishing-nets. The fourth project too, which won first prize in the competition of the Istituto Tecnico Industriale at Pietralata, Rome, took account of international recommendations on the distribution of space in school buildings. He also took part in the Competition for the mixed-use development of Turin which developed the theme of lamellate buildings (see above), for which he received an honorable mention. The sixth project, begun with Adalberto Libera, led to the building of the ENPAM Offices in Via Torino, conceived, unusually for the center of Rome, with a visible metallic structure and external panels in red marble grit. Then it was the turn for the majestic mixed-use development at Piazzale Caravaggio in which Barucci, as mentioned above, synthesized his personal style in the sliding effect of various lamellate buildings. The eighth group of projects includes the four schools built by Tecnosider, won in a design-built competition: two Middle Schools at Ostia Lido and Comacchio, and two Technical Industrial Institutes at Velletri and Tivoli. Other projects for schools presented for various competitions also belong to this group: in Rome on the Circonvallazione Ostiense and at la Serpentara (1 and 2), Frascati, Sassari, Pistoia, Foggia and Turin. Then it was the turn of the group of projects of Urban Planning and Socio-Economic Study of 17 Ethiopian cities, drawn up after he won an International Competition published by the Imperial Government of that country (Asbe Teferi, Asella, Axum, Bati, Bedesa, Combolcha, Dabat, Dangla, Debre Markos, Debre Tabor, Dera, Dessie, Dire Dawa, Gondar, Harar, Jijiga, Maichew and Tensea Berhan). The tenth project is that presented at the ISES National Competition of Naples-Secondigliano (won by the Gorio group), which was one of the ten selected, and was further developed for the Luxembourg CECA competition. This led to commissions for the huge ISES Complex of 412 flats at Spinaceto, and for 80 INCIS flats in Turin. The thirteenth group of projects was for two elegantly conceived designs for holiday homes at Argentario. The work at Spinaceto made Barucci feel at ease with large-scale housing projects, which were to be the theme of his major plans in the following years.
In the 1970s there were fewer projects, no more than nine, but their dimensions were unchanged. It is worth mentioning three, all of them housing projects, all of them imposing. The first was an experimental project for 500 flats in the district of Tiburtino Sud, which Barucci followed step by step in the building to oversee the new tunnel system. The second was the Laurentino 38: here, as with the “Caravaggio”, he achieved every architect’s dream of building on an urban scale, with building and city blending into a single, stratified conception of space. The aim was to create a citadel independent of Rome in the form of a ring made up by the main street axis, 4.4 m lower than the portico level of the residences. The buildings are at street level, arranged as insulae, as described above. The combination of bridge-building and sunken street, with access to the garages, makes possible a dual level of circulation, one for vehicles and one for pedestrians, something architecture has sought since the time of Leonardo da Vinci. There is a park at the center of the ring. It was conceived for more than 30,000 inhabitants, and its most significant feature is the eleven insulae with the famous bridges connecting the two sides of the road axis, set on an inter-axis of 118.80 m, the façade of each block reversing the elements in its neighbor’s. They are well spaced from each other, with room for parkland between them, and infant schools and crèches, sports and recreation facilities.
As already mentioned, the project derives from Bakema and Van den Broek’s Pampus Plan for the expansion of Amsterdam, the plan of which resembled a magnificent erect “cobra”. For reasons of space at the Laurentino 38 the cobra was put back in its “basket” (the area, which here is compact in form), transforming Bakema’s axis into a ring. The third group of projects that concluded the 1970s consisted of the typological study for Law 513/1977, which led to the housing estate of Torrevecchia.
The eighties were characterized by three imposing projects, as well as a series of participations in competitions and other designs on various scales. The first was the trilogy for Tor Bella Monaca, which deployed seven towers, three of them interconnected, and a huge building à redant. Then it was the turn of the three huge projects of the Extraordinary Plan for Housing in Naples, PSER, for a total of more than 1,800 flats, including the areas of Taverna del Ferro, the old Casale di Barra, and Pazzigno, where a parish church was also designed and built. It was a work commitment that was to last twelve years, central to both the eighties and the nineties. A peculiarity is that the two imposing housing projects of Taverna del Ferro and Pazzigno are perfectly aligned with each other. The first of them 240 meters long, and the other 120, they develop along the same section, the idea being to underline the unity and importance of the reconstruction, so that one could see from the sea a virtual volume outlined by the two buildings, which were about 900 meters apart and were to overlook the vast district of San Giovanni – an ideal bar that would sew together the whole district, as if protecting and strengthening it. The ideal urban sign went down so well with the Commission under Vezio De Lucia, who warmed to it as to a slogan, that, when the poor quality of the terrain of the building of Pazzigno led to insurmountable difficulties of construction, they would not give it up, even at the cost of having to use a metallic structure that significantly changed its architectural characteristics.
The third project was another Roman plan for the area of Quartaccio, for around 750 flats of the 2nd PEEP, conceived on a smaller scale than the other large housing projects. Then there are the three housing projects Cosper in Catania, which came to nothing, and his involvement in the competition to reorganize Piazza Matteotti in Vicenza and the large villa in the Roman countryside, projects that mark a pause for reflection in Barucci’s work, as has already been mentioned.
Apart from the works in Naples that were ongoing through until 1994, he also took part in competitions in the nineties, including the one for the new IUAV architectural university in Venice.
With the third millennium Pietro Barucci retired, but in 2009 he took part, along with myself, in the international competition for a 170-meter tower-symbol in Dubai. A total of 4,651 architects in 2,967 teams, from 108 countries took part. In this way, as well as the pleasure of writing a monograph on him, I have also had that of contributing to the last project contained in it.
The Harvard Experience
Perhaps partly to put the Neapolitan experience behind him, in December 1994 Barucci accepted an invitation from Peter Rowe, Professor of Architecture and Urban Design and Dean of the Faculty of Architecture at Harvard, to give a course to final-year students in the Graduate School of Design (GSA). The syllabus included comparative study of post-war social housing in Italy and the United States; there were to be separate course by Barucci and Rowe, but with a joint final session, comparing the two experiences and deciding on the thesis subjects that the students would follow. The response was very positive and produced long texts from the students, which Barucci commented on in detail and which Rowe revised and evaluated.
Barucci had left for America at the end of August 1995 after eight months of uninterrupted work preparing the seminar, that began at the end of September, and, with one lesson a week and tutorials on the other days, ended at Christmas, after the final session comparing the two courses. The conclusions were particularly interesting, and brought out the profound differences between the Italian experience, financed and run by the State, and the American one, based mainly on private enterprise, but not without important social content and public money. There also emerged the different sense of the two operations from a cultural point of view, particularly as regards architecture and the different role of architects. The work of reading and commenting on the theses took up the early months of 1996.
Closing his studio
An additional note is necessary on this subject. In the 1980s the personal computer burst upon us, its virtual world and the ease with which it both constructed and deconstructed space ratifying the certainty of the future’s uncertainty. Given his age, Barucci was only indirectly affected by it, even though, with his untiring vitality, in 2009 he uses a state-of-the-art computer to writer, work, handle images, send emails, and surf the net. It is more difficult for him, as it is for those who are 30 years younger, to use those fantastic programs that make possible a use of spatial geometry that is also daring, generating every imaginable intersection between solids and complex surfaces.
In this moment of clear historical transition, the wind of the Angelus Novus of the computer revolution has replaced the ammonia smell of the old blueprints in the architectural studio with the smell of the cooling fans of the silicon microprocessors of the computers and the ink-jets of the plotters and printers. It is as if the very act of setting down a project has undergone a process of alkalinization, passing from the medieval fumes of ammonium acids to the filtered and controlled odors of the incipient electronic contemporary world: from the ventilator to air conditioning, with the built-in risk of chronic bronchitis; from sweat to deodorants, often with smells more unpleasant than those they are supposed to be combating.
Barucci himself admits that this wind of change has radically changed the scale of values: “even the fundamental laws of nature, gravity, statics are seen in a different light, as challenges, with a sense of something transitory, liberating, ironically slovenly: the casual style has moved from clothing to architecture… a disturbing aspect of the shifting and evanescent contemporary world”.
Anyway, with the new millennium, faced with a scene that was now radically changed, Pietro Barucci decided to close his studio. Though not painless, the choice was clear, one of those carefully planned and put into effect constantly, calmly, certainly, without second thoughts, so that everything was in place. In short, it was not his style to leave the profession, with, so to speak, a cardboard box of personal effects under his arm, an image so dear to Hollywood when someone retires. The preparation had a very important role, requiring months, perhaps years. Then, on the last day, with great elegance, he left the stage with his hands free, without a single sheet of paper. In 2008 he gave his bulky archives to the official archivist of the Region of Lazio, and they are kept in the State Archives of Rome-EUR.
This has done nothing to stop him working, writing, taking part in debates, accepting the frequent invitations to courses at the faculties of Architecture and Engineering, participating in competitions, but above all, with the help of Cosimo Distante, ordering and organizing in six folders the files of his many finished works and the projects that are the subject of this book.