Evoluzione e Architettura tra Scienza e Progetto, Prospettive, Roma 2008
Evolution and Architecture between Science and Design, Prospettive, Rome 2008

Autore / Author: Ruggero Lenci



 

Abstract

La parola evoluzione se attribuita ad altre specie rispetto a quella umana non desta preoccupazioni, viceversa turba i neocreazionisti e induce taluni a essere sospettosi per comprendere se chi la usa intenda operare pericolose discriminazioni razziali (gli scienziati e gli uomini di cultura in genere hanno sempre smontato tutte le folli sciocchezze dei razzisti sulle razze umane pure e superiori. Secondo Levi-Strauss il razzismo è la convinzione sbagliata che le differenze osservate tra le popolazioni siano dovute a fattori genetici. All’opposto gli scienziati hanno messo in evidenza i caratteri genetici comuni a tutte le popolazioni e guardato con sospetto le sperimentazioni eugenetiche). Pertanto, in antropologia, si è spesso restii a usarla nel trattare temi quali l’evoluzione della cultura, del linguaggio, delle idee. Eppure l’uomo si evolve sia geneticamente, sia con la cultura, il linguaggio e le idee, anche se non sempre si può parlare di evoluzione, talvolta di involuzione.
E per quanto riguarda in modo specifico l’evoluzione delle idee in architettura? L’avanzamento tecnologico che ne sostiene e alimenta l’attività progettuale è una realtà in forte accelerazione in ogni settore, tanto da far pensare a un costante processo evolutivo in atto. Ma in generale c’e da chiedersi: il cosiddetto‘progresso’ come risposta alle crescenti esigenze dell’uomo, è una realtà stabile oppure una bolla sempre sul punto di esplodere? Va rappresentato con un grafico che, con accelerazioni e decelerazioni, è pur tuttavia tendente verso un’unica direzione, oppure potrebbe assumere una forma simile al diagramma di rottura dell’acciaio, che dopo una fortissima resistenza si snerva e cede?
Se per evoluzione si intende la capacita di mettere in atto procedure e attività che garantiscono le più alte probabilità di sopravvivenza di una specie, non si può dare per scontato che l’uomo appartenga a quella più evoluta, nonostante la scienza medica faccia registrare continui successi nel prolungare la vita media dell’uomo, talvolta in condizioni di malattia cronica e in stato di anzianità non autosufficiente, ma in questo caso senza aumentare le probabilità di sopravvivenza della sua specie. Apparteniamo a quella che più si è espansa sul pianeta occupando vastissimi spazi. Come per i dinosauri, estinti perche di mole non più compatibile con il sopraggiungere delle nuove condizioni ambientali, la stessa sorte potrebbe presto essere quella di molti spazi antropici, in particolare di quelle città oggi meno sostenibili perche dilatate oltremodo e che ora rischiano il collasso. Le città, convulse, trame di imponenti strutture in acciaio ed edifici in calcestruzzo armato, orditi di impianti meccanico-idraulici, ponti e strade, potrebbero presto risultare non più manutenibili. Preda di un’irrefrenabile ossidazione da parte dell’ossigeno libero nell’atmosfera, in poche migliaia di anni potrebbero trasformarsi in curiose collinette ricche di minerali, piante, e batteri di vario tipo. Inoltre altre specie viventi, più resistenti e preparate della nostra per le sfide evolutive che si prospettano, meno dipendenti da innumerevoli apparati e accessori, stanno già certamente mettendo in atto vari tentativi per sopravvivere ed evolversi nel prossimo ciclo evolutivo della terra, la cui trasformazione è ora principalmente dovuta all’intervento dell’uomo, della sua cultura, delle sue idee. Forse tutto ciò sta già avvenendo soprattutto in prossimità dei reattori nucleari e delle industrie chimiche e farmaceutiche (si pensi, ad esempio, alla sempre maggior resistenza dei batteri agli antibiotici e alla crescente virulenza dei virus) che, come sottoprodotto delle proprie attività, involontariamente ma non sempre (fughe in atmosfera o in falda di materiale tossico), alimentano nuove naturali, talvolta inquietanti, sperimentazioni di biodiversità.
 

Un conflitto incontenibile tra scienza e progetto

In occasione del bicentenario della nascita di Charles Robert Darwin (1809-82) da più parti sono in atto riflessioni sull’opera del celebre naturalista inglese che ha formulato la teoria de l’Origine delle specie – per effetto della selezione natu-rale, che interviene sulle variazioni. Se da un lato si è continuato a riflettere con il metodo scientifico sul nocciolo teorico a-finalistico darwiniano – alla luce delle successive scoperte, prima tra tutte quella delle leggi dell’ereditarietà di Gregor Mendel, poi con il neo-evoluzionismo e la scoperta della forma a doppia elica del DNA di James Watson e Francis Crick, e ora con la decodificazione del genoma di Craig Wenter – dall’altro lo si è fatto con teorie creazioniste, neocreazioniste, finalistiche, orientate, a disegno intelligente, nelle quali sono spesso presenti vitalismi e animismi. Le discipline dell’architettura e dell’urbanistica9 – che si pongono tra scienza e umanesimo, tra natura e arte, tra progetto e ricerca, caricandosi del compito di prefigurare e realizzare gli spazi antropici – sono fortemente condizionate da concetti scientifici quali la selezione, l’evoluzione, l’origine, che sottendono una trasformazione libera da finalismi e dall’idea di disegno intelligente che, se in esse assente, renderebbe vana l’idea stessa di progetto. Le scelte dell’uomo si depositano come macigni su tali discipline quasi sempre come prodotto di un conflitto incontenibile, in modo più o meno sostenibile, nel tentativo di adattare l’ambiente ai propri bisogni di habitat: di casa, città, territorio. Alcune riflessioni particolarmente orientate sono giunte da quanti hanno svolto studi sulla città, sul paesaggio e sul tipo edilizio. Si pensi in Italia alle ricerche legate al tipo di base e specialistico, ai percorsi matrice, di impianto edilizio e di collegamento che danno luogo al tessuto urbano, portate avanti da Gianfranco Caniggia; a quelle sulla morfogenesi urbana di Elio Piroddi; a quelle sul comporre e sul fondamento tipologico di Franco Purini e Marcello Rebecchini; a quelle ancora sull’analisi dell’architettura spontanea formulate recentemente da Roberto De Rubertis nel libro dal titolo “La città mutante – Indizi di evoluzionismo in architettura”10.  Le ipotesi sulle quali verte questo riferimento, ultimo in ordine di tempo, è che in architettura e urbanistica, così come nell’evoluzione delle specie, vi sia “l’assoluta mancanza di finalità d’ogni atto e quindi l’assoluta casualità del divenire”. Secondo l’autore non sempre le cause delle mutazioni si manifestano con immediata chiarezza e vanno pertanto interpretate attraverso un’attenta analisi, essendo dovute a “processi di adattamento di ogni evento passato agli eventi futuri.”11 Pertanto la spaccatura, se così si può chiamare, ha luogo tra un approccio scientifico di tipo evoluzionistico basato sulle leggi del caso e della necessità12 – i detrattori direbbero da contabile della natura – e uno progettuale, denso di ragioni mirate dell’azione umana, con un fine ontologico operante a favore del divenire di motivazioni prefigurate, se non euristiche, nelle quali “l’invarianza è protetta, l’ontogenesi guidata, l’evoluzione orientata”,13 che quelli di sponda opposta chiamerebbero finalistiche. Ne deriverebbe che il destino dell’uomo di cultura sarebbe quello di essere scienziato o progettista, contabile della natura, sia pur raffinatissimo, o finalista, in alcuni casi anche pervaso da tendenze animiste. Oppure è possibile prefigurare un’alleanza intelligente al di fuori di questo rigido dualismo hegeliano? Su questi temi il genetista, professore emerito all’Università di Stanford Luigi Luca Cavalli Sforza avverte la presenza di un pregiudizio da parte di alcuni esponenti di ambienti non solo scientifici che li induce a concludere troppo frettolosamente che nella teoria dell’evoluzione manchi una finalità della vita. E, in modo del tutto equilibrato, scrive “Anche questo è un errore: la selezione naturale ha permesso l’origine della vita e ne garantisce il successo, molto probabilmente realizzando il massimo ottenibile con l’adattamento alle condizioni ambientali e alle lotte con gli altri organismi viventi che essa può sviluppare. Non c’è bisogno di cercare un ‘progetto intelligente’ diverso dalla selezione naturale…”.14 Se è vero che le mutazioni genetiche sono casuali, non è però tacciabile di pensiero finalistico il sostenere che esse avvengono sperimentando plurime condizioni di micro-biodiversità, tra le quali, eventualmente, la selezione naturale selezionerà quelle di maggior successo in termini di prestazioni vitali, verso una più ampia ramificazione biologica e una maggiore fecondità. L’evoluzione, ci ricorda Telmo Pievani, professore di Filosofia delle Scienze a Milano-Bicocca, “...si ciba di variazioni – le mutazioni – che sorgono nei singoli organismi indipendentemente dal loro eventuale utilizzo adattativo, ecco perché le chiamiamo casuali o contingenti...”.  Il salto ontologico nel quale credono coloro i quali si sono battuti contro l’insegnamento del neodarwinismo nelle scuole italiane, consisterebbe nel miracoloso intervento divino che avrebbe assegnato all’evoluzione dell’essere umano una corsia preferenziale del tutto separata rispetto a quella degli altri animali. Negli Stati Uniti la battaglia storica dei creazionisti biblici e dei neocreazionisti dell’Intelligent Design non è mai stata quella di abolire l’insegnamento scolastico della teoria darwiniana, ma di affiancare ad essa, nel tipico schema anglosassone delle pari opportunità, un insegnamento di orientamento differente messo sullo stesso piano. L’operazione fu respinta dal Giudice Federale John E. Jones III, di Harrisburg, Pennsylvania, (sentenza del dicembre 2005) ritenendo che il creazionismo sia un’espressione religiosa, non scientifica,?‘una forma di cristianesimo’. E in virtu del Primo Emendamento dichiarava incostituzionale l’insegnamento della dottrina del Disegno Intelligente nelle ore di scienze.15 Se da quella sponda dell’oceano si è registrato un secco no al creazionismo scientifico, in Italia il fisico Antonio Zichichi, tra gli altri, si è schierato a favore della spinta neocreazionista e specista (a favore della specie umana sulle altre), sostenendo che la teoria di Darwin è “...affascinante ma non è scienza perché manca di due requisiti essenziali: l’esistenza di una struttura matematica e la riproducibilità sperimentale.”16 E il genoma umano, con i suoi 3,2 miliardi di basi sequenziate? Bisogna immaginare che, in virtù di questa struttura anche matematica, entro breve tempo ogni essere umano potrà disporre di un DVD con la sequenza completa del proprio DNA, ovvero con le proprie specifiche tecniche. Con tale DVD, attraverso appositi programmi che saranno sempre più oggetto di scrittura, sperimentazione e perfezionamento, potranno essere diagnosticate, e ove presenti curate, nel singolo individuo malattie più o meno rare. Anche nel mondo delle idee e delle sperimentazioni vi è spesso un alto grado di casualità, di tentatività – in particolare in architettura, disciplina nella quale è noto il metodo tentativo – attività anche qui poste al servizio di una maggiore ramificazione e fecondità, non più biologica ma intellettuale. Uno dei postulati degli evoluzionisti è che il processo di ex-aptation (termine che meglio di adattamento spiega il concetto di derivazione a partire da un precedente) sia alla base dei processi trasformativi della vita. Ed è proprio su questo concetto e sui suoi derivati che si potrebbe innestare un’alleanza di pensiero appartenente tanto alla scienza quanto al progetto, anche se tutto fa pensare che ancora ci si trovi di fronte agli opposti schieramenti di quel conflitto incontenibile al quale prima si accennava. Gli scienziati potrebbero al massimo tollerare il possibile riconoscimento di un’attitudine strategica vincente presente in alcuni organismi, ovvero una sorta di perspicacia o una propensione per, ma non andrebbero oltre, pena il rischio di trasformare i processi evolutivi in mutazioni indirizzate al compimento di scopi finalistici, facendoli ripiombare negli indottrinamenti degli anni bui che precedettero Galileo e Cartesio o nelle patologiche derive razziali sviluppatesi in particolar modo nel secolo scorso. Dal canto loro i progettisti non accetterebbero il fatto che un progetto debba essere incatenato, come Prometeo sulle rocce del Caucaso, da un sistema di regole preesistente e rigido, la famosa realtà dei fatti, che lo dovrebbe condizionare e guidare totalmente portandolo per mano. Realtà che i progettisti pensano invece debba essere aggredita dall’esterno, anche con una certa virulenza, per essere parzialmente ma significativamente trasformata, mutata, secondo una visione-guida, l’idea illuminata di un occhio intelligente. Il limite e il rischio del desiderio di protagonismo insito nell’approccio del progettista rispetto a quello a-personale, oggettivo, distaccato dello scienziato risiederebbe nel fatto che in tale trasformazione non è mai garantito, anzi è rarissimo, un apporto in senso evolutivo dell’ambiente dell’uomo, facendo troppe volte scivolare il progetto costruito verso un tentativo insostenibile, involutivo, che produce un aumento di entropia, perché miope e ricco di deficienze, come peraltro si desume da frequenti devastazioni ambientali, alcune delle quali rendicontate da Franco La Cecla nel suo libro Contro l’architettura.17  Senza nulla togliere al grande impegno scientifico che l’attività di ricerca comporta, va detto che alcuni studiosi considerano prudente fermarsi al livello descrittivo della realtà perché il coraggio di formulare ipotesi, ancor più se progettuali, implica maggior rischio di errore e, talvolta, fraintendimenti. Il progetto è una scelta non solo teorica che nasce dalla volontà di voler percepire l’aspetto fisico delle idee, realizzandole per poterne ricavare alcuni vantaggi. Ma se un progetto porta più svantaggi che vantaggi allora è necessario avere il coraggio di riconoscerlo come sbagliato e non va realizzato.  Stante quindi il fatto che l’essere umano è un organismo dotato di progetto, che prevede e talvolta intenzionalmente perturba per sondare anche casualmente nuove frontiere evolutive, la domanda è: fino a che punto ci si può spingere attingendo a concetti provenienti dalle discipline scientifiche che per loro natura sono oggettive e a-progettuali, per interpretare un fenomeno squisitamente umano quale quello della produzione di idee e cultura? Secondo Franco Purini la dimensione della storia fa sì che le città si comportino come individui, ovvero come entità aventi un progetto di esistenza che ha qualcosa da affermare sul concerto dei valori umani. Egli sostiene che le città tendono a uno scopo, a realizzare un proprio disegno più o meno nascosto. Le città sono sistemi pluri-evolventi nei quali non è eliminabile il paradigma della finalità. Roma avrebbe almeno tre processi evolutivi in atto, anche in conflitto tra loro. Le città sono rette da un ordine gerarchico che non risponde a un criterio biologico ma in primo luogo alla dimensione della bellezza, ed è questo che ne costituisce il plusvalore. I progetti di architettura, sempre secondo Purini, sono anti evoluzionisti volendo costituire per statuto una barriera contro il tempo e pertanto si oppongono al suo fluire.18 In generale traspare nel pensiero di alcuni teorici dell’architettura l’avversione a riconoscere analogie tra la propria disciplina e la selezione naturale come motore dell’evoluzione degli ambienti antropici. Ciò per il fatto che il progettista si sente investito dal compito di voler e dover dare una risposta precisa, orientata e finalizzata alla soluzione di uno specifico tema, così come si presenta in un dato contesto spazio-temporale: il chirurgo opera, il progettista progetta.  In architettura le risposte a uno stesso programma date da singoli autori sono in realtà diversissime per i contenuti e i linguaggi usati. Si potrebbe iniziare a considerare le singole risposte progettuali o le tendenze di un determinato periodo come altrettante variazioni sulle quali la selezione (culturale, tecnologica, linguistica) si rende possibile ed evidente. La selezione (mettiamo una commissione giudicatrice) dovrebbe valutare le prestazioni teleonomiche19 dell’opera, per la definitiva accettazione o meno di un’architettura o di un autore in un contesto in un dato periodo. Sarebbe pertanto opportuno considerare l’architettura, così come si esprime nel tempo, una specie o una sottospecie soggetta alle medesime pressioni selettive della vita, con le sue leggi evolutive, riconoscendone nel corso della storia un’evoluzione selettiva in senso darwiniano: ad esempio per Purini l’high tech rappresenta l’ultima anamorfosi temporale del gotico. Avere più opzioni tra le quali scegliere costituisce una strategia vincente tanto nella selezione darwiniana quanto in architettura. L’opzione è parte integrante inseparabile dall’idea di progetto. Il concorso di idee, ad esempio, raduna un elevatissimo numero di opzioni sotto forma di figurazioni progettuali elaborate su uno stesso programma per attuare il futuro mediante intuizioni e visioni che costituiscono “la capacità utopica di concepire la convivenza umana come una dialettica tra identità e luoghi”.20 Anche l’evoluzione culturale può sembrare, secondo Cavalli Sforza, un progetto più intelligente dell’evoluzione biologica. Un progetto che comporta certamente più pericoli, ma che comunque rimane sotto il controllo della casualità della selezione naturale, a garanzia che nessuna specie sia favorita dalla mutazione. Se il progetto culturale umano, per qualche sua ineliminabile imperfezione alla lunga si rivelerà insostenibile, non c’è pericolo, vi saranno altre specie in grado di perpetrare la vita sulla terra in base a leggi e tempi cosmici, quella vita possibile grazie all’ossigeno libero nella nostra atmosfera (tema così fondativo da meritare una trattazione specifica: fonte di vita, l’ossigeno gestisce anche la morte allorquando un organismo non è più in grado di organizzare appieno lo straordinario potenziale di questo poderoso flusso atomico che penetra il suo corpo e che, dopo avergli permesso la vita, lo ossiderà mineralizzandolo con i processi di decomposizione-ossidazione. L’ossigeno è quindi un’evidente manifestazione di jing e jang: due forze contrapposte, simmetriche, della stessa essenza, intuite da tempo dalle filosofie orientali).
 

Adattamento, ex-aptation, vestigialità

Entrando nello specifico, sembra che nei fenomeni che danno luogo all’adattamento, quindi al rapporto con entità preesistenti, sia contenuto un elemento teleologico.21 Ciò in quanto ci si adatta a qualcosa che pre-esiste, ovvero a una realtà a priori, facendo ritenere che vi sia un’entità che guida il processo secondo un programma orientato, che acconsente alla realizzazione del processo di adattamento dell’organismo cooptato: un programma non statico ma che può variare nel tempo, mantenendo, rafforzando o facendo venire meno le condizioni di partenza. La “adaptation” o “ex-aptation” designa il carattere positivo di un organismo favorito dalla selezione naturale che aumenta il vigore del suo possessore, ovvero dell’entità presso la quale si è adattato. La condizione di adattamento si determina in senso cronologico, con successivi adattamenti nella nicchia ecologica trovata libera e disponibile la quale, però, può mutare nel tempo. Ciò può portare l’adattamento a essere ridondante o anche di ostacolo, a causa delle possibili trasformazioni del carattere positivo dell’ospite e/o della disponibilità dell’ospitante a mantenere tale stato in presenza di un ospite non più competitivo nel migliorarsi e quindi nel contribuire efficacemente rispetto ad altri ospiti a mantenere elevato il vigore dell’ospitante. Alcuni adattamenti tollerati, quando da un lato non degenerano in conclamati disadattamenti e dall’altro non sviluppano nuovi usi consolidati nel tempo, sono chiamati vestigiali.22 La vestigialità, in biologia, descrive parti di organi o caratteri che, attraverso l’evoluzione, hanno ridotto o perso la capacità di esplicare la loro funzione originaria. Ciò può manifestarsi sotto varie forme: strutture anatomiche, comportamenti, percorsi biochimici (ad esempio si pensi nell’uomo all’appendice intestinale, alle vertebre terminali, al bacino inclinato in avanti; in architettura alla Torre di Pisa, al Colosseo, ai Fori, ecc.). Nella nostra e in altre discipline a forte contenuto umanistico la vestigialità apre alla sua storia, mirabilmente carica di vestigia che, sia pur superate sul piano strettamente tecnologico-prestazionale, mantengono fondamentali valenze su quello linguistico-ermeneutico-conoscitivo. Sebbene in biologia le strutture vestigiali siano largamente o interamente prive di funzioni prestazionali, esse, all’occorrenza, possono svilupparne di minori, così da essere classificabili come marginalmente utili, neutre o negative. Alcune possono essere di una limitata utilità per l’organismo, utilità che si può ridurre nel tempo facendo degenerare il rapporto di adattamento. Ciò fino al punto da contribuire negativamente al suo protrarsi nel tempo, con mutazioni causate da un aumentato tasso di entropia piuttosto che rendendo disponibili evidenti vantaggi.  Data l’imprevedibilità del futuro, non è facile in biologia stabilire quando un carattere vestigiale diventi solo di detrimento per l’organismo, in quanto ciò che non è in uso oggi può riattivarsi diventando utile domani. Ma negli studi umanistici, in quelli sui fenomeni urbani e in architettura e  le cose sono molto diverse per il peso fondativo che la cultura assegna a tali caratteri. Basti pensare ai centri storici di molte città nei quali sono presenti in larga misura edifici antichi con funzioni diverse da quelle originarie, con specifici utilizzi che potremmo definire vestigiali, appunto, rispetto all’espletamento di una massima funzionalità in termini prestazionali. Molte costruzioni e parti di città trovano oggi proprio nel fatto di essere vestigia del passato il loro carattere post-prestazionale primario. Pensiamo ai monumenti antichi, alle Piramidi, al Foro Romano, al Colosseo che, ad esempio, quest’ultimo nel XVII secolo ha svolto un ruolo secondario rispetto a quello iniziale di anfiteatro, quando i Barberini se ne servirono come giacimento-cava di materiali lapidei per realizzare i propri palazzi. Ma più in generale pensiamo a tutti i monumenti e siti archeologici inseriti nei percorsi turistici di massa come a importanti vestigia. Se tale parola è appropriata per designare i caratteri degli esempi archeologici più eclatanti, quando ci si riferisce al progressivo e incipiente riuso delle preesistenze, siano esse palazzi storici o archeologia industriale, è più indicato usare il termine adattamento nell’accezione anglosassone di “ex-aptation”, ovvero di utilizzazione a partire da una condizione precedente, piuttosto che di utilizzazione per un fine unico e ideale. Oggi il miglior utilizzo del Foro Romano, ad esempio, coincide con il massimo potenziamento della sua funzionalità turistica nella città di Roma, e questo uso eguaglia se non addirittura supera – secondo certi parametri valutativi – quello per il quale era anticamente sorto, facendo pensare a un carattere di utilizzo dei fori non unico e ideale resistente nel tempo, ma adattativo. A maggior ragione, anche nel caso degli edifici antichi ancora in uso presenti nei centri storici non si intravede alcuna finalizzazione univoca e rigida, pensandoli invece come architetture da ex-aptare con una certa duttilità a utilizzi idonei e ottimali nel contesto urbanistico e nel periodo di volta in volta considerato.  Gettare ponti sottili23 di questo o di altro tipo tra discipline, ovvero utilizzare tali strumenti anche metaforici – nel caso particolare tra la biologia molecolare e l’architettura-urbanistica – può risultare di beneficio per entrambe le discipline a patto che vengano evitate forzature. La natura infatti non sempre realizza, anzi quasi mai, le proprie opere come un ingegnere, lo fa piuttosto come un bricoleur, nel senso che lo sviluppo di un organo segue percorsi il più delle volte inattesi, spesso anche contraddittori.24 L’evoluzione selettiva, proprio per la presenza della sua traccia filogenetica,25 rimane inoltre sempre un po’ al di sotto della condizione ottimale, ovvero di ciò che il migliore ingegnere sarebbe portato a fare. Un’evidenza efficace è quella del sorgere di strutture spontanee, auto organizzate, di istanze che vengono reclutate in modo specifico per dar luogo allo sviluppo evolutivo in assenza di un disegno complessivo o di un progetto finalizzato per uno scopo, conservando i caratteri di un sistema flessibile, adattabile, momento per momento, alle necessità del caso. Ciò può talvolta avere luogo, grazie alla predisposizione al riuso come fattore insito nella vita, riconvertendo quelle parti presenti in modo residuale in organi vestigiali a disposizione; così come a intendere che “l’evoluzione insegna nuovi trucchi a vecchi geni”.26 La selezione non fa sprechi, ha insita una fortissima economia della natura, e quando dei geni possono essere perduti o mutati senza danno, di solito lo sono, come nel caso della cecità e dello sviluppo di altri organi da parte di quegli animali che vivono al buio nelle caverne. O come nel caso del gene della falcemia (anemia, talassemia) che si sviluppa in ambienti malarici dando alla popolazione possibilità di sopravvivenza del 9% superiori rispetto alla sua assenza.27  Parafrasando gli evoluzionisti, le mutazioni nei progetti di architettura garantiscono una sorgente permanente di variabilità che rende possibile la ex-aptation dei caratteri migliori, rappresentati dalle acquisizioni che si consolidano in un dato periodo e che si stratificano nella storia. In architettura, le riviste e le esposizioni sono i luoghi nei quali avviene in maniera privilegiata questa “cross-fertilization”, questo scambio di materiale genetico, ormai privo di deriva geografica, di “drift”, attività basata su sempre nuove teorie e progetti – si potrebbe osservare, a detrimento di persistenze regionalistiche utili e necessarie almeno da un punto di vista di conservamento energetico degli edifici alle varie latitudini, quindi di conservazione di specifici caratteri di DNA – che immette nella disciplina sorgenti permanenti di variabilità. L’architettura ha un senso se diffonde la qualità dell’ambiente, mantenendo e allo stesso tempo accrescendo il rigore di un metodo compositivo aperto alla cultura del progettare e dello sperimentare un certo grado di cambiamento morfologico nel rispetto degli ecotipi (architetture adatte a particolari tipi di habitat). Le Corbusier aveva acutamente intuito (nei suoi scritti apparsi sull’Esprit Nouveau, raccolti in Vers une Architecture) che ciò non deve portare al “r-e-g-i-o-n-a-l-i-s-m-o” vernacolare, ma permettere all’architetto di sviluppare una “... concordanza con le cose del luogo.”
 

L’ontogenesi ricapitola la filogenesi nell’architettura e nella città

La città, una volta formatasi, in primo luogo a seguito dell’invenzione dell’agricoltura, – e si potrebbe dire che una città ha radici, le fondazioni degli edifici che la compongono, perché risponde a un modo di vita stanziale che prevede la semina e il raccolto di piantagioni coltivate dall’uomo, che hanno radici – si espande e cresce su se stessa con modalità nelle quali sono ricostruibili e spesso visibili, sia nei tessuti che nei tipi, i processi morfogenetici di trasformazione. Nella città e nel paesaggio sono inscritte le trasformazioni che si rendono leggibili sotto forma di tracce costituite da indizi fisici e modelli storici. Ognuno di essi è il risultato delle strutturazioni precedenti e diventa matrice delle seguenti.28 Gianfranco Caniggia nei suoi studi su alcune città italiane quali Como, Genova, Venezia, ha messo in rilievo come i processi di trasformazione morfogenetica dei centri storici derivino dai precedenti tessuti urbani. Così come in biologia, anche in architettura tutto sembra confluire nella celebre affermazione di Ernst Haeckel29 secondo cui l’ontogenesi ricapitola la filogenesi.30 Se per il grande zoologo, ecologo e filosofo tedesco il riferimento era all’embrione, quindi all’evoluzione biologica della vita, per gli architetti e gli urbanisti, estendendo tale concetto al processo trasformativo dell’habitat umano, il riferimento è alla città. In questa successione Haeckel ha intravisto, con l’evoluzione degli organi, implicitamente quella dei loro possessori. Formulando la sua legge biogenetica fondamentale, ovvero che l’ontogenesi è una breve ricapitolazione della filogenesi, egli ha opposto l’idea evolutiva delle forme viventi a quella creazionista della fissità linneiana delle specie. Oggi esprimiamo più precisamente la legge di Haeckel con: gli stadi dell’ontogenesi di un organo sono una ricapitolazione degli stadi percorsi da quest’organo nelle serie evolutive, senza per questo voler togliere nulla alla sua intuizione generale. Un ponte sottile può essere costituito anche dall’idea di sviluppo epigenetico31 urbano: un pezzo di città non esaurisce il proprio compito di sviluppo e trasformazione nell’atto della sua realizzazione, ma questo si estende nel tempo, inducendo per stadi fenomeni di maturazione del contesto, per i quali intervengono fattori esterni in grado di attivare potenzialità specifiche non preformate.32 Così come un’entità vivente è, in generale, il risultato “dell’interazione fra geni e ambiente, perché vi sono effetti dei geni sull’ambiente e dell’ambiente sui geni”,33 l’architettura è il risultato dell’interazione tra progetto e ambiente, in quanto vi sono degli effetti del primo sul secondo e viceversa. Sostituendo la frase morfogenesi del progetto alla parola ontogenesi, e storia dell’architettura alla parola filogenesi si ottiene che la morfogenesi del progetto ricapitola la storia dell’architettura. Pur tuttavia, anche senza operare la sostituzione dei termini haeckeliani con quelli architettonici il riferimento a un’architettura ontologica,34 ovvero di un progetto che progetta, resta chiaro. Per allontanare ogni dubbio, quando si parla di filogenesi, ovvero un di legame con la storia, giammai lo si fa con l’idea di seguire modelli architettonici tradizionali, per dar vita a tipi e tessuti, plagiati dall’idea di un facile consumismo privo di astrazione e concettualità tanto nelle morfologie quanto nelle genie, ma per riaffermare il principio che non è possibile in nessun caso recidere i legami con la storia. Nella formazione di un progettista di architetture dovrebbe sempre essere presente la consapevolezza di una forte responsabilità ricapitolativa in senso storico-umanistico-tecnologico, non priva di slanci anche notevoli verso inedite ipotesi configurative della realtà e nelle quali il legame con un passato non affiorante sia presente. Franco Purini35 ricapitola la presenza e il tipo di segni antropici in area italica sostenendo che l’architettura del nord peninsulare è particolarmente attenta alla pianta a causa di una forte presenza della centuriazione romana su quel territorio; nel centro Italia l’interesse prevalente è per la sezione, dovuto alla presenza diffusa di imponenti ruderi sezionati, si pensi a Villa Adriana; al sud è il paesaggio a indirizzare i progetti nei quali è negata “…la centralità e forse l’esistenza stessa della tipologia.”36 Secondo lo stesso autore i caratteri dell’architettura italiana sono permeati da una congenita equivalenza tra architettura, urbanistica e paesaggio che si risolve in un rapporto aperto ed equilibrato tra l’architettura e il suo passato dando luogo a una dimensione sociale del progetto che ne costituisce l’essenza collettiva in un forte atto di autodeterminazione della città, in cui è presente in modo chiaro il senso di una misura media, propensa a rappresentare un simulacro idealizzato.37 Purtroppo però in molte città italiane, una per tutte Roma, sorgono quartieri sempre più privi di qualsiasi qualità e identità, nei quali non si avverte alcuna sensibilità da parte del progettista e/o del costruttore a un’idea di misura o di filogenesi. Per arginare tale drammatica realtà – i cui frutti potrebbero peraltro iniziare a rendersi visibili solo tra qualche decennio – si propone di porre in essere l’istituto della “post evaluation” dei nuovi quartieri, ovvero la loro valutazione da parte degli stessi abitanti, degli specialisti e degli uomini di cultura. Solo a fronte di un esito positivo un costruttore otterrebbe il lasciapassare necessario a realizzare un altro intervento di grandi dimensioni. In tal modo sarebbe presente uno straordinario incentivo a produrre qualità urbana. L’ontogenesi38 è l’insieme dei processi attraverso i quali si attua l’evoluzione biologica dell’embrione della singola entità vivente sulla base del codice genetico che lo caratterizza e dell’ambiente biologico nel quale il processo si svolge. In architettura spesso parliamo della genesi del progetto ogni qual volta desideriamo esprimere con un insieme sintetico di segni grafici le fasi fondative dello sviluppo concettuale dell’idea. Ebbene, il progetto è l’ente (dal greco: on, ente, genit. óntos, dell’ente), ovvero l’entità oggetto delle nostre attenzioni. Pertanto i significati di ontogenesi e di genesi del progetto coincidono. La filogenesi39 è lo studio sistematico dell’evoluzione della vita. Si occupa di ricostruire le relazioni di parentela evolutiva, di gruppi tassonomici di organismi a qualunque livello sistematico.40 E’ l’insieme dei processi attraverso i quali si attua l’evoluzione non più della singola entità ma della specie, nel nostro caso non del singolo progetto ubicato nello spazio, ma dello specifico disciplinare: l’architettura nello spazio-tempo. Pertanto la filogenesi indaga la storia in ogni settore della vita e per fare ciò si serve degli strumenti interpretativi propri del settore di volta in volta considerato, di un’ermeneutica mirata. L’ermeneutica dell’architettura, come si desume tra l’altro da uno scritto di Mario Luca Rosario Lente41 potenzia il metodo dell’interpretazione del passato e delle sue tracce producendo una “rimemorazione che non è solo ricordo, che non è certamente revival stilistico, ma reinterpretazione continua del materiale mnemonico individuale e collettivo.” Pertanto non deve mai essere revival stilistico ma costituire una continua riepilogazione che, spingendosi oltre la superficie morfologico-stereospecifica del riconoscimento di forme complementari, si addentri negli aspetti sistematici, ramificati, della filogenesi dell’architettura. Allora in questo caso non sbaglia chi, da storico, sostiene che allontanandosi dalla storia si perde “l’origine naturale dell’architettura: l’architettura nasce dall’architettura. Si può fingere di non sapere nulla, di fare il buon selvaggio che inventa tutto, ma se si studia un po’ di psicologia, di filosofia, si capisce prima di tutto che l’uomo ha una sua natura e in secondo luogo che l’ambiente ha un’importanza decisiva.”42 Allontanarsi dalla storia può significare anche sviluppare quell’atteggiamento di impazienza tipico di chi vorrebbe completare l’evoluzione una volta per tutte nell’arco della propria esistenza. In tal modo si resta confinati in un limbo senza tempo, fatto di solo spazio, che ha perduto la dimensione della profondità temporale delle cose, della comprensione dei fenomeni, dell’esigenza di coltivare un’ermeneutica idonea a rintracciare quel filo rosso che lega i tipi edilizi alle morfologie urbane.43 Se alla ricerca paziente portata avanti nella contemporaneità dal metodo lecorbusieriano si sostituisse quella dell’estemporaneità delle forme, come peraltro purtroppo sta accadendo nelle grandi metropoli sempre più inquinate e chiassose, si rischierebbe di recidere irreparabilmente i nessi architettonici di un’ontogenesi riepilogativa della filogenesi. Si pensi alla dilagante simmetria dell’ignoranza presente da un lato nella distruzione del tessuto popolare delle città cinesi, dall’altro nel disboscamento della foresta amazzonica. Pensando agli effetti della globalizzazione sull’architettura delle città, il fenomeno delle colonizzazioni culturali è il sintomo di un disagio diffuso nel quale diverse genie non hanno avuto né il tempo né i mezzi per portare a maturazione e far sbocciare una propria via alla modernità. La ricostruzione logica dei processi formativi della strutturazione antropica ha portato alcuni noti esponenti della Scuola romana, si pensi al già citato Gianfranco Caniggia e al suo maestro Saverio Muratori, a ricercare pazientemente le regole della lenta e progressiva conformazione della città quale era, resistendo alla tentazione futurista di rifare la città. Ciò al fine di svelarne il genoma, il codice replicativo nascosto – attraverso un metodo fenetico-cladistico, con un’ermeneutica che si avvale della morfologia e della logica conformatrice dei tessuti – dapprima come pura scienza urbana, in seguito per progettare le nuove quantità con un metodo-guida. In realtà, in questo percorso analitico-progettuale sarebbe auspicabile procedere non solo per analogie ma anche per omologie, non solo per fenotipi ma anche per genotipi. Ciò in quanto i primi possono rivelarsi ingannevoli e superficiali non testimoniando una storia del presente ma solo quella del passato, mentre i secondi sono induttori di un gradiente più attualizzato, rigenerato e ricapitolativo. Le migliori ricerche di una città della resistenza, sia pur con tutti i limiti ben noti, non a caso vengono rivalutate nei framptoniani regionalismi critici in un’era nella quale la globalizzazione non dà la sensazione, anzi il contrario, di essere in grado di produrre un modello di sviluppo sostenibile. Global City non ha trovato, nonostante l’impegno dei metabolisti e degli utopisti, un insieme di insegnamenti utili a fare città. O meglio, questi sono stati cercati e talvolta anche trovati, ma il più delle volte sono risultati cedevoli di fronte agli interessi del capitale e della politica peggiore, in realtà territoriali così diverse come quelle di Mosca, Roma, Milano, New York, San Paolo, Shanghai. La famosa frase dal cucchiaio alla città, presente, tra gli altri, nelle idee di Gropius, Le Corbusier, Loos alla luce del genoma e dell’auto-similarità frattale, può essere rivista in questi termini: da un insetto a un elefante il codice genetico differisce molto poco, un’evidenza del fatto che la vita sulla terra ha una complessa autosimilarità, che va attentamente sostenuta. In sintesi, ontogenesi e filogenesi in architettura stanno a significare che il progetto, ovvero l’ontogenesi, esprime, sia pur con aspetti molto difformi per linguaggio, tecnologia e funzione, invarianze che nel tempo sono soggette a mutazioni (utili, dannose o neutre). Queste dovranno successivamente passare al vaglio della selezione prima di entrare a far parte delle invarianze fondamentali della filogenesi architettonica. Nel lungo periodo, attraverso alcune opere, emergono gli indirizzi evolutivi in trasformazione, mostrando, a posteriori, un disegno non determinato a priori.
 

Evoluzione culturale e architettura

L’architettura influenza i comportamenti dell’uomo, così come i comportamenti influenzano la biologia.44 Pertanto essa deve essere pensata compatibile e a misura d’uomo, di volta in volta nella regione e nel paesaggio specifico, affinché risulti utile e positiva in senso lato. Le città e l’architettura, a prescindere dal dato dimensionale, rappresentano per i genetisti – interessati soprattutto a sequenziare il DNA, ovvero a scoprire verità estreme e assolute – delle nicchie ecologiche. In realtà esse sono fenomeni antropici stabili nei quali si depositano visibilmente i segni dell’evoluzione culturale dell’uomo, anche se per quegli ammirevoli ricercatori tutto ciò che non porta a significative mutazioni nelle serie nucleotidiche della doppia elica è confinato in un settore di nicchia. Ma l’evoluzione non è solo genetica, è anche culturale e, secondo le più accreditate ricerche, quest’ultima interagisce sulla prima. Si può dire che l’evoluzione culturale segua il modello lamarkiano piuttosto che quello darwiniano. E’ interessante cogliere nel pensiero del primo la presenza dell’idea in natura di una volontà di evolvere, che può essere intesa come forza agente, come movimento che induce delle trasformazioni al di là di qualsiasi finalità prefissata, per il semplice fatto che la vita è movimento. “Vi è un… fatto che collega l’evoluzione culturale al modello di Lamark: egli insisteva sulla ‘volontà di evolvere’. La mutazione culturale, cioè l’invenzione, a differenza di quella biologica, non è un fenomeno indipendente dalla nostra volontà, non è un fenomeno che si possa considerare ‘casuale’, ma ha quasi sempre lo scopo di risolvere un problema pratico particolare. Questa è una grossa differenza tra l’evoluzione culturale e quella genetica, in cui le mutazioni sono invece casuali e non dirette a risolvere problemi del momento… Quindi vi sono differenze fondamentali fra l’evoluzione biologica e quella culturale e i due meccanismi vanno tenuti perfettamente distanti. Tuttavia essi possono influenzarsi reciprocamente e, per questa ragione, si parla di coevoluzione biologico-culturale.”45  Ora, in architettura, la questione omologa che si presenta è: in che misura si dovrebbe arginare oggi il campo dell’azione progettuale per avvicinarsi ai “polimorfismi genetici classici”46 di una certa area (mettiamo il caso Italia), per rintracciare un suo presunto DNA così da pervenire a una “misura italiana”47 del progetto, e quanto invece tale campo debba essere lasciato libero per consentire lo sviluppo e l’evolversi di inattese sperimentazioni? Il rituale dell’architettura, ovvero il disegno di un edificio o di uno spazio urbano riconoscibile come tale, è un fenomeno molto efficace per rinforzare il senso di appartenenza. Si appartiene a un luogo quando se ne riconoscono e apprezzano gli elementi che lo compongono. Un’architettura, un luogo, una città, conquistano una propria identità grazie alla presenza di un rituale composto da caratteri unitari. Come vanno ricercati allora in architettura tali rituali regionali? Inoltre, in che misura queste ritualità sono aperte ad accogliere le necessarie revisioni, ovvero quei graduali e freschi aggiornamenti giovanili di un sistema di regole, senza però distruggerne i fondamenti?  L’architettura può essere letta come la scienza e insieme l’arte, di riprodurre gli edifici che compongono i tessuti delle città partendo dalla comprensione del loro codice genetico, dal loro DNA.48 Le trasmissioni genetiche e culturali – quindi anche architettoniche – possono essere più o meno conservatrici, e in generale, quando si è in presenza di una matrice fortemente coesa, resistente e caratterizzante, il sistema opta per apportare ad essa mutazioni, aggiornamenti e revisioni, piuttosto che operare rivoluzionari rimescolamenti. Quando, per mancati processi di revisione in relazione alle mutate condizioni esterne, la forza della matrice si stempera, allora possono farsi strada vigorose e talvolta sconvolgenti novità. Ciò può dare la sensazione che l’evoluzione culturale sia dotata di un progetto più intelligente dell’evoluzione biologica, “ma in realtà esso comporta pericoli di cui cominciamo ad accorgerci, ed è rassicurante che esso rimanga, come effettivamente rimane, sotto il controllo della selezione naturale.”49 Le Corbusier, darwiniano convinto, aveva ben chiaro il concetto di selezione che è alla base dell’evoluzione della cultura, della tecnologia e dell’architettura. Parlando dell’aeroplano egli afferma che questo “...è, sicuramente, nell’industria moderna uno dei prodotti più altamente selezionati... ha mobilitato la capacità inventiva, l’intelligenza e l’ardimento... Lo stesso spirito ha costruito il Partenone.” In architettura L.C. si pone nello stato d’animo del suo inventore, e scrive?“La cultura è lo sbocco di uno sforzo di selezione. Selezionare vuol dire scartare, sfrondare, ripulire, far risaltare nudo e limpido l’essenziale... Si può parlare di Dorico quando l’uomo, per la nobiltà del suo modo di vedere e il sacrificio completo dell’accidentale, ha raggiunto la ragione superiore dello spirito: l’austerità.” (op. cit.).
 

Il progetto come propensione a sperimentare nuovi cicli

Per comprendere il significato di progetto è utile analizzare, nel rispetto della scienza, l’idea di Karl Popper dell’interpretazione della probabilità come propensione.50 Per quanto riguarda il progetto creativo, è interessante notare quanto egli sostiene nella sua teoria: “Esattamente come un composto chimico neosintetizzato crea a sua volta possibilità di sintesi di composti nuovi, così tutte le nuove propensioni creano nuove possibilità. E le nuove possibilità tendono a realizzarsi allo scopo di creare nuove possibilità. Il nostro universo di propensioni è intrinsecamente creativo. Queste tendenze e propensioni hanno portato alla comparsa della vita.”51 Una propensione umana può essere mossa da principi più o meno elevati. Nel caso migliore è ispirata il più direttamente possibile al generoso e altruistico perseguimento dell’evoluzione allargata della vita, in altri casi alla pervicace affermazione di interessi ristretti. La propensione è dunque una questione progettuale, di scelta, di etica e, come tale, esprime se stessa in un ambito contenuto tra le due sponde kantiane della conoscenza, a priori e a posteriori. Con le strumentazioni in evoluzione disponibili dell’ a priori (organi sensoriali, strumenti di vario tipo, consolidate acquisizioni, ecc.) e i dati fallibili (procedure e regole in evoluzione) si edificherà un quadro generale di riferimento;52 con l’esperienza e l’elaborazione delle idee dell’ a posteriori si potranno progettare le modificazioni dell’ambiente, nonché teorizzare e, gradatamente, attuare modalità migliorative della conoscenza a priori. A riguardo è stato notato che i naturali processi di evoluzione biologica, pur non finalizzati, sono però fortemente auto-progettuali in senso ontologico, essendo propensi, guidati, orientati a migliorare le capacità prestazionali degli organi in ogni specie. La biosfera è pertanto un’immensa fucina progettuale costantemente impegnata in un lavoro sperimentale che avviene all’interno degli organismi. E nella comunità antropica ciò ha luogo anche al suo esterno in gran parte per mezzo dell’architettura, dell’urbanistica e della cura ambientale, oltre che dell’agricoltura da cui esse derivano.  Tra i primordiali fini evolutivi, di cui l’uomo comune ha ormai perso traccia, vi sono quelli di escogitare modalità sempre più complesse e articolate di assimilazione del nutrimento energetico proveniente, a più stadi, dal sole. Un progetto ontologico è pertanto tale se riesce a migliorare se stesso secondo un principio di autopoiesi:53 “Un sistema autopoietico è organizzato come una rete di processi di produzione di componenti le quali, attraverso interazioni e trasformazioni, rigenerano continuamente e implementano la rete, costituendola come unità concreta nello spazio ove esse esistono, specificandone inoltre il dominio topologico”54 Nella prova con la vita le questioni risolte e quelli irrisolte da ogni entità vivente si diffondono alle altre, con grande e naturale generosità, senza brevetti, entrando a far parte delle acquisizioni della biosfera. Uno dei più straordinari progetti evolutivi nel quale il livello di autopoiesi è massimo consiste nell’evoluzione dell’organo sensoriale della vista, tema di grande interesse per gli architetti e pertanto degno di un approfondimento particolare in questa sede. Come è noto, esso deriva da un metodo elettrochimico rivoluzionario, finalizzato alla trasformazione della luce del sole in energia chimica, messo a punto da alcuni primordiali microorganismi unicellulari, forse un batterio, al fine di nutrirsi di essa. Il fatto è che anche l’essere umano (e gli animali in genere) si nutre, indirettamente, della luce del sole, ma lo fa attraverso sorprendenti mutazioni estremamente complesse che è stato calcolato abbiano impiegato, dai batteri primitivi, circa tre miliardi e mezzo di anni per attuarsi. Si nutre non più del contenuto energetico della luce bensì di quello informativo. E’ interessante ripercorrere brevemente le tappe di questo incessante progetto biologico partendo da quando le strumentazioni organiche, ovvero le condizioni a priori, erano minime. Tali microorganismi unicellulari degli abissi marini hanno optato – sono stati propensi – a sviluppare nel tempo e con modalità autopoietiche una sensibilità ad avvicinarsi ai raggi del sole perché ne erano attratti in quanto da essi potevano essere meglio nutriti chimicamente rispetto a modalità nutritive precedenti.55 Questi esseri unicellulari56 dotati di organelli specializzati, con materiale genetico residuale – segno che prima di fungere da organelli erano probabilmente batteri indipendenti, poi assorbiti, cooptati, in una struttura più complessa – hanno dato vita a una sinergia tra specializzazioni diverse tenute insieme da una cellula con un nucleo ben distinto da una membrana. Nel tempo ogni organello ha svolto il ruolo migliore per se stesso e per la cellula attuando molteplici tentativi funzionali migliorativi. Da qui il concetto che così riassumo: ogni organo deve possedere una capacità autroprogettante, ovvero essere in grado di progettare la propria crescita evolutiva, proficua per sé e per l’intero organismo di cui è parte. Tali microorganismi, probabilmente i cianobatteri, si sono quindi avvicinati alla superficie degli oceani evolvendosi nei milioni di anni in alghe e da lì sono passati alla terra continuando in questo lavoro progettuale di specializzazione di un occhio primordiale, ovvero di un organello particolarmente dotato nel fungere da ricettore dei raggi solari. Alcuni di questi organismi avventurosi si sono quindi spinti fino alla superficie del mare e quello con l’attrezzatura chimica adatta a non venir distrutto dai raggi ultravioletti del sole sopravvisse, trasformando così, con ineguagliabile generosità, il “… mare nella più grande riserva di cibo per la sua discendenza; e la sua discendenza liberava le immense quantità di ossigeno che trasformarono l’atmosfera.”57 Essi hanno quindi messo a punto la tecnologia necessaria alla loro sopravvivenza evolutiva nella biosfera specializzando i cloroplasti, organuli entro cui si compie la sintesi dell’acqua con l’anidride carbonica in presenza di energia sotto forma di luce58 con produzione di glucosio ed emissione di ossigeno libero. Vengono così poste le basi per il sorgere e l’espandersi sul nostro pianeta del regno vegetale (alghe e piante) che necessita di questo occhio primordiale per poter attuare la fotosintesi clorofilliana.59  A seguito dello sviluppo del progetto del regno vegetale che, come risultato chimico, ha introdotto l’ossigeno libero prima nell’acqua del mare, poi nell’atmosfera, è stato possibile per altri batteri perseverare nella propria opera di auto-progettazione portando avanti il progetto evolutivo di quegli organi primordiali, primi tra tutti l’occhio, in un ambiente che ora, sempre attraverso i raggi del sole, era ricco di altri cibi più sofisticati: l’ossigeno e i cibi vegetali. La vita ha quindi sintetizzato un sistema di base, il regno vegetale, che fa uso di un organo visivo primordiale, i cloroplasti, creando così le condizioni per poter procedere a un’ulteriore fase progettuale, a un nuovo ciclo,60 quello animale, inattivabile in assenza dell’ossigeno libero prodotto dal ciclo precedente. La vita animale si è quindi successivamente specializzata mettendo a punto un occhio che vede perfettamente. A differenza di una forma di vita primordiale, ancorché specializzata che si nutre direttamente dei raggi del sole, l’occhio, insieme agli altri organi, rende possibile all’organismo animale di attivare sinergie atte in primo luogo a procurarsi gli alimenti per la sua sopravvivenza. “Le enormi fasi che separano le prime grandi transizioni dell’evoluzione hanno reso possibile la costruzione dei meccanismi basilari della vita: la trasmissione genetica e la sintesi delle proteine, la fotosintesi, la respirazione, il sesso, lo sviluppo, il differenziamento cellulare. Finché la quantità di ossigeno nell’atmosfera fu bassa, la vita in assenza di ossigeno poté essere solo marina, per garantirsi una protezione dai raggi ultravioletti in assenza di ozono. Il rilascio di ossigeno con la fotosintesi cambiò drammaticamente le regole del gioco e si creò una forte selezione naturale a favore della vita aerobica… la vita ha una dimensione anche cosmologica, perché trasforma i pianeti che la ospitano.”61  Andare così indietro nel tempo è necessario per comprendere i fondamenti evolutivi che nell’ultimo stadio portano alla creazione dello spazio antropico, per capire quanto sia biologicamente giovane l’homo sapiens sapiens62 e quanto sia contratta in un brevissimo periodo la sua storia umanistica, tecnologica, scientifica, architettonica. Solo poco più di duemila anni fa, ad esempio, gli architetti Ictino e Callicrate ma soprattutto lo scultore Fidia, dotato secondo Le Corbusier di un occhio assoluto, hanno realizzato il Partenone e, “Non esiste niente di equivalente nell’architettura di ogni luogo e di ogni tempo. E’ il momento più acuto in cui un uomo, agitato dai più nobili pensieri, li ha cristallizzati in una plastica di luce e di ombra. La modanatura del Partenone è infallibile, implacabile. Il suo rigore va oltre le nostre abitudini e le possibilità normali di un uomo. Qui è fissata la più pura testimonianza della fisiologia delle sensazioni e della speculazione matematica che può ricollegarvisi” (op.cit.). Testo lecorbusieriano illuminante, che chiarisce come nelle più elevate attività umane si fissino ancestrali sapienze legate all’organo della vista.
 

Il caso e la necessità

Il meccanismo a priori secondo cui l’invarianza è protetta, l’ontogenesi guidata, l’evoluzione orientata da un principio teleonomico iniziale63 non convince né gli architetti più oggettivi e meno animisti, così come non convinceva il premio Nobel per la medicina nel 1965 Jacques Monod. Secondo quest’ultimo, però, il progetto dell’apparato teleonomico è quello di conservare e riprodurre la norma strutturale,64 e pertanto anche chi è contrario a riconoscere un principio orientativo aprioristico si confronta con una contraddizione epistemologica. La scienza prevede un postulato di oggettività che rifiuta per gli esseri viventi l’idea stessa di progetto, di un disegno preordinato, divino o animistico, che sia più ampio del principio teleonomico di conservazione e riproduzione della norma strutturale. In tale apparente contraddizione risiede l’accettazione del fatto che nell’universo esista un progetto che rispetta l’invarianza termodinamica, ma che per poter resistere nel tempo esso deve confrontarsi in modo aperto con circostanze mutevoli quindi aggiornarsi costantemente, trasformandosi ed evolvendosi per rispondere agli improvvisi attacchi provenienti dall’esterno. Dato che esiste un’altra contraddizione, ancor più cogente della prima, ovvero che la riproduzione e la moltiplicazione di strutture dotate di un ordine elevato è una realtà incompatibile con il secondo principio della termodinamica che stabilisce che ogni sistema macroscopico si evolve solo in un senso ovvero in quello della degradazione dell’ordine che lo caratterizza, si potrebbe concludere che l’unica modalità utile a scongiurare l’entropia è progettare il cambiamento, accettare e programmare la trasformazione, talvolta operando una vera e propria ristrutturazione cognitiva.  Per dirla con Monod, qualunque progetto particolare ha senso solo in quanto parte di un progetto più generale. Tutti gli artefatti dell’uomo e gli adattamenti degli esseri viventi, quindi anche l’architettura, vanno considerati come frammenti dell’unico progetto primitivo teleonomico della conservazione e moltiplicazione della specie attraverso la trasmissione da una generazione all’altra del proprio contenuto di invarianza. Se la quantità dell’informazione teleonomica trasmessa è sufficiente affinché una determinata prestazione strutturale si compia, allora il progetto della sopravvivenza della specie è realizzato. Se è troppa, contraddittoria, confusa, imprecisa, allora è da considerarsi insufficiente. Questa realtà non è limitata solo a questioni biologiche, riproduttive o chimiche, ma anche ambientali, di stimolo e crescita culturale, linguistiche. In architettura, ad esempio, è sempre presente il rischio di cadere in una pericolosa immobilità, che può essere scongiurata mediante l’innesto di mutamenti “...nella radice delle permanenze… all’interno di ricorrenti metamorfosi, utilizzando il caso per perturbare e contraddire le ricorsività di situazioni e di modalità della ricerca.”65 Stante il fatto che il meccanismo della traduzione è irreversibile, ovvero che non si è mai constatato un trasferimento d’informazione in senso inverso dalla proteina al DNA, ne consegue che le uniche modificazioni trasmissibili deriverebbero da un’alterazione della fedeltà della traduzione delle istruzioni contenute in un segmento della sequenza genetica.  Per meglio comprendere il tema dell’errore o modificazione facciamo un breve confronto tra il DNA e il computer. A differenza del primo, il secondo utilizza, allo stato attuale, il sistema binario perché il quaternario ne innalzerebbe troppo la possibilità di errore. Infatti se uno sbalzo di tensione o un componente elettronico difettoso possono indurre un sistema binario a fornire una risposta errata (una mutazione, iniziativa nel computer indesiderata) solo se viene superata la soglia del 50%, in un sistema quaternario tale soglia si abbassa al 25%. Se la soglia del 50% è molto elevata e in grado di dar luogo a calcolatori virtualmente privi di errore, in biologia tale infallibilità non è desiderabile in quanto incapace di dar luogo alla vasta complessità dell’evoluzione della vita, dotata di efficaci meccanismi di mutazione e selezione naturale, per innestare i quali si rende necessaria la produzione di molti amminoacidi (venti nell’uomo) e di un’elevata varietà di casualità. Ecco perché un DNA evoluto è composto da quattro basi azotate, ACGT (U nell’RNA), e non da due o tre, ovvero costituisce un sistema quaternario, e non binario. Ciò anche se all’inizio della vita, in assenza di enzimi, “I primi geni erano probabilmente ricchi di basi G e C e poveri di A ed U”. Costituivano cioè un sistema prevalentemente binario che – con l’evoluzione enzimatica in grado di gestire una crescente complessità – ha teso sempre più verso lo sviluppo di uno quaternario. Nell’evoluzione della vita “Ci sono ragioni valide per sostenere che GGC e GCC (corrispondenti ai due amminoacidi, glicina e alanina, formati in maggior quantità) siano state le prime due triplette del genoma e GAC e GUC le due successive.”66  Prima di arrivare all’architettura – il guscio dell’uomo – il percorso è ancora  lungo ma fruttuoso. Si pensi, ad esempio, che alcuni scienziati, probabilmente a ragione, conferiscono più valore ai geni piuttosto che agli organismi. Samuel Butler ha coniato la famosa frase che una gallina è solo il mezzo attraverso il quale un uovo produce un altro uovo. Richard Dawkins nel libro Il gene egoista sostiene che gli organismi viventi siano macchine ideate dai geni per assicurarsi la propria sopravvivenza e replicazione in modo sempre più complesso e aggiornato nella competizione per la selezione naturale. Il DNA costituisce quindi un sistema totalmente introverso, conservatore, sicuro di sé, scientifico e cartesiano, e non dialettico ed hegeliano, ed è in virtù di questa cripticità monodirezionale che molte specie viventi hanno potuto riprodursi indisturbate per centinaia di milioni di anni67 senza che le loro scelte, talvolta incoscienti, abbiano turbato negativamente l’informazione genetica di base. Ciò almeno fino all’avvento dell’era dell’energia atomica e delle manipolazioni biochimiche. Emerge che l’evoluzione non è una proprietà solo endogena ma anche fortemente esogena nel basarsi sul caso, sull’aggressione, sull’imperfezione. Le sole mutazioni accettabili sono quelle che non riducono la coerenza dell’apparato teleonomico ma piuttosto lo rafforzano arricchendolo di nuove possibilità.68 E queste sono di numero così elevato che la stabilità delle forme nella biosfera sembra essere più difficilmente spiegabile rispetto alla loro trasformazione.69  Nell’uomo, dotato di linguaggi ancor più parlati rispetto a quelli degli altri animali, la pressione selettiva della cultura, delle idee, della conoscenza apre le porte a un’evoluzione diversa da quella biologica, con la quale intesse una straordinaria rincorsa, ormai superandola. L’innovazione linguistica avendo in tempi remoti impegnato l’avvenire della specie umana creando una nuova pressione selettiva, ha favorito rispetto alle altre la prestazione del linguaggio e, con essa, lo sviluppo dell’organo che è al suo servizio: il cervello.70 Ciò porta a dire che il linguaggio articolato ha consentito non solo l’evoluzione culturale dell’uomo ma ha anche contribuito in modo decisivo a orientare la pressione selettiva che induce le trasformazioni fisiche. Le idee avrebbero conservato, in senso evoluzionistico, certe proprietà degli organismi, per cui sembra ormai lecito parlare in senso darwiniano di evoluzione delle idee, dei progetti e ora anche dei software che ne rappresentano una potente forma di sedimentazione (un algoritmo in un software che ne gestisce vari, può essere paragonato a un organo all’interno di un organismo). Come gli organismi, le idee perpetuano e moltiplicano la propria struttura, si fondono, si ricombinano, segregano il loro contenuto, si evolvono in senso selettivo tanto da lasciar pensare a una teoria sull’evoluzione selettiva delle idee. Le idee possono avere più o meno valore, così come possono trovare realizzazione parziale, totale o nulla. Da questi fattori dipende se rimarranno, o meno, confinate nella mente del suo ideatore e/o in quella di pochi altri. Nel caso dell’architettura le idee vengono trasformate in un progetto che, se di qualità, è dotato di un forte potere di penetrazione producendo una positiva trasformazione dell’ambiente.
 

Verso un’etica della conoscenza

Le leggi e le norme, talvolta infrante ma difficilmente rinnegate, organizzano e assicurano la coesione umana contribuendo all’evoluzione delle categorie del cervello. Se negli insetti il comportamento sociale è innato, il prezzo che l’uomo deve pagare in quanto animale sociale senza piegarsi a meri automatismi è quello dell’invenzione della filosofia, dei miti, delle religioni che, ad esempio in quella cattolica, trova nel supporto genetico del Cristo un’ontogenia portentosa per spiegare l’umanità fenomenologica delle esigenze spirituali.71 La rottura dell’antica alleanza animistica compiuta dalla conoscenza oggettiva della scienza che propone spiegazioni fredde e impone rinunce ascetiche a qualsiasi cibo spirituale, non ha alleviato, ha invece esasperato l’angoscia innata di gran parte della società. L’etica della conoscenza nel definire “un valore trascendente, la conoscenza vera, propone all’uomo di non servirsene ma ormai di servirla con una scelta deliberata e cosciente… L’etica della conoscenza è anche, in un certo senso, conoscenza dell’etica, delle pulsioni, delle passioni, delle esigenze e dei limiti dell’essere biologico. Nell’uomo essa sa riconoscere l’animale, non assurdo ma strano, prezioso per la sua stessa stranezza, essere che, appartenendo contemporaneamente a due regni – la biosfera e il regno delle idee – è al tempo stesso torturato e arricchito da questo dualismo lacerante che si esprime nell’arte, nella poesia e nell’amore umano. I sistemi animistici, invece, hanno tutti più o meno voluto ignorare, avvilire o reprimere l’uomo biologico, provocare in lui orrore e terrore di alcuni aspetti relativi alla sua condizione animale. L’etica della conoscenza, al contrario, incoraggia l’uomo a rispettare e ad accettare questo retaggio pur riuscendo, quando è il caso, a dominarlo. Riguardo le più elevate qualità umane – il coraggio, l’altruismo, la generosità, l’ambizione creatrice – essa, pur riconoscendone l’origine sociobiologica, ne afferma anche il valore trascendente al servizio dell’idea che definisce.”72  Questa sublime sintesi di Monod induce a far pensare che, tanto in natura e scienza, quanto in arte e architettura, l’unità nella diversità sia la via preferenziale per lo sviluppo di mutazioni evolutive. Se il ciclo dei batteri primordiali ha innescato quello del regno vegetale e questo quello del regno animale contenente il sottociclo dell’uomo, la cultura umana con l’era atomica e biochimica sta forse ponendo le basi per l’avvento di una nuova fase. Megalopoli sempre più estese, inquinamenti di vario tipo, nubi tossiche, buco dell’ozono, sono segnali di un ecosistema che in virtu di varie etichette, cultura, modernità, sviluppo, crescita, PIL, sta in realtà purtroppo intaccando quelle qualità di base che tanto preoccupano i più sensibili osservatori. E non sembra che l’incipiente cultura della globalizzazione sia in grado nel breve periodo di formulare solide ipotesi di sviluppo alle quali tutti i paesi dovrebbero adeguarsi. Bisognerebbe innanzi tutto iniziare ad abolire la dicitura fuorviante di crescita zero, che in realtà designa un livello di produttività elevatissimo, semplicemente non superato di anno in anno. Da più parti si avverte ormai l’esigenza di interrompere le sempre più frequenti devastazioni del pianeta, talvolta perpetrate anche sotto etichette del tipo valutazione di impatto ambientale, strumenti urbanistici. L’urbanistica vista non come un vaccino preventivo ma come un disegno intelligente avente la finalità di urbanizzare tutto il globo, lasciando solo qualche terreno agricolo e qualche parco qua e là, produce una visione onnipotente e fuorviante della realtà. Oggi bisogna iniziare a parlare di questi temi con maggiore responsabilità e consapevolezza rispetto a quando i problemi erano prevalentemente quelli di dar casa ai contadini inurbati.73
 

L’invecchiamento dell’architettura moderna

Alcuni slogan diffusi in ambito architettonico quali “Il moderno è invecchiato” oppure “Si è raggiunta una progressiva e radicata indifferenza per tutto ciò che di organico e di unitario deriva dall’architettura del passato” o ancora “Il movimento Moderno non è uno stile, è un insieme di diffuse esigenze, di sintomi e di speranze tese alla riconquista di una rinnovata unità dell’organismo architettonico”, sono altrettanti sintomi del disagio derivante dalla difficoltà a mantenere unite e senza strappi, ancorché prive di rigurgiti, le sponde del passato e del futuro dell’architettura. L’invecchiamento del moderno non è solo nelle forme, ormai oggetto di continui revival, ma anche nelle sue profonde viscere. Ad esempio molte città, pensiamo a New York, sono invecchiate sull’addensarsi di quelle stratificazioni futuriste divenute ormai permanenti, tradendo l’idea originaria di quel codice, secondo la quale ogni generazione deve rifabbricarsi la propria città.  “La notte, dormendo in un vecchio loft sulla Quinta Strada mi svegliano i rumori delle tubature, ‘yelling, screaming pipes’, non capisco di cosa si tratta ma è come se l’intero palazzo si stesse lamentando nelle sue ossa, accusandone i reumatismi. Rumori lancinanti di leve, di chiavi inglesi che straziano piombo e latta. In realtà, mi spiegano l’indomani, che si tratta dei vecchi tubi di riscaldamento che si dilatano, si restringono, si allargano, si sfibrano, si scompongono in segmenti cigolanti. New York è vecchissima come può esserlo solo la modernità…”74 Ma alcuni fenomeni urbani presenti in quelle aree denominate archeologia industriale, dismesse, degradate, ‘left over’, rappresentano, proprio in quanto abbandonate dal potere e dalla politica, il luogo emblematico di un’epoca che genera la sua propria estetica “…e come molte estetiche anche questa conteneva un’etica, una visione del mondo con un mandato su come agire, su come vivere… Le città sono costruite da uomini ma decadono per natura, per terremoti e uragani, in un processo di disgregazione, erosione, ruggine, di attacco dei microbi al cemento, alla pietra, al legno e al mattone… Le rovine diventano l’inconscio di una città, la sua memoria, lo sconosciuto, il buio, la terra desolata. Con le rovine la città si libera dai suoi piani per passare verso uno stato intricato come la vita… è una morte fertile come un cadavere che nutre dei fiori. Una rovina urbana è un posto che è caduto al di fuori della vita economica della città, e in qualche modo è una casa ideale per l’arte, che si dà al di fuori della produzione ordinaria e dal consumo della città.”75  Traspare nella generosità delle giovani generazioni di vivere il degrado, il dismesso, il residuale, un significato sociologico di risarcimento. E’ come se i giovani avvertissero geneticamente il compito di assistere con affetto i luoghi malati delle città – rischiando di infettarsi come il medico nel reparto dei lebbrosi – ciononostante non desistendo dallo svolgere il ruolo di riammagliatori dei lembi di queste lacerazioni urbane con il fermento creativo e dinamico della propria sperimentalità. I giovani sono i primi ad avvertire che questi luoghi abbandonati hanno il potenziale di risorgere come fenici dalle ceneri sulle ali della propria fierezza e, in una sorta di riscatto collettivo, attuano il proprio contributo con un rituale curativo e assistenziale alla parte di città malata. Lo fanno a base di concerti rock, rap, di danze psichedeliche, celebrazioni nelle quali si riconosce la volontà di partecipare a questo nuovo misticismo collettivo della modernità, una coinvolgente opera di presenza, di compagnia al frammento urbano dismesso e agonizzante.
 

La deriva delle mode

Rem Koolhaas tratta con una vena di distacco i fenomeni di trasformazione urbana, ammettendo la propria impotenza contro vari geniocidi di parti di città che stanno avvenendo, ad esempio, con la distruzione del tessuto popolare in quasi tutte le metropoli cinesi. Tra il non essere e l’essere cinico Koolhaas opta per il secondo approccio, senza alcuno scrupolo per quanti pensano che: “Il nazismo è la trasformazione della politica in estetica e io come artista mi rifiuto di usare la miseria del mondo per i miei fini.”76 L’architettura modaiola si sta gonfiando oltre misura caricandosi di drappeggi e altre effigi dell’arte sartoriale, o di lacerazioni e dermatiti da Pronto Soccorso, il più delle volte assolutamente inutili se non addirittura dannose, come lo può diventare una forma di esistenza che ha trovato spazio, protezione e riparo in una nicchia ecologica in modo parassitario. Ciò ha comportato il fatto che l’architettura, grazie soprattutto alle grandi case di moda che fomentano questa tendenza, stia divenendo fenomeno principalmente pubblicitario, come un abito per una sfilata. Poco importa al progettista di fama internazionale se poi gli spazi interni, celati dai drappeggi in lamiera o in calcestruzzo armato, verranno sotto utilizzati rispetto alla prestazione promessa. Questo è il prezzo dell’arte, di un’arte che non si limita alla dimensione scultorea ma che si dilata, immanente nella città, richiedendo consumi energetici ormai insostenibili e creando i Mammuth di un cimitero globale prossimo venturo. Questo fenomeno della grande abbuffata non avviene solo nel settore della moda, il cui magazzino è un armadio privato – o in quello medicale anatomico dell’obitorio, che dopo l’uso del bisturi affida il cadavere alla discrezione del loculo – ma anche nelle opere pubbliche che hanno luogo nella Città visibile,77 nei territori, nei siti archeologici, molte delle quali sono oggi finanziate dall’Unione Europea secondo un meccanismo, spesso perverso, che richiede di spendere tutto e subito, pena lo scadere del finanziamento. Ciò induce a eseguire idee cosiddette innovative talvolta confuse e del tutto inutili, se non addirittura dannose per l’ambiente e costose da demolire una volta che si decide di recuperare quegli spazi irresponsabilmente perduti.  Nelle culture in rapida crescita alla ricerca di un equilibrio stabile, si registra la tendenza a essere attratti da ogni novità, prima ancora di conoscerle in termini di qualità e di reale possibilità di utilizzo. Un fenomeno in esse sempre presente è quello delle pulsioni ritualizzanti tese a produrre un senso di identità di gruppo anche fortemente transitorio, e a operare mutamenti attraverso nuove sperimentazioni culturali di vario segno. Solo talvolta ciò induce i settori della progettazione e quelli della produzione a soddisfare tali pulsioni in modo razionale e sensato. E, c’è da chiedersi, la scienza rimane immune al fenomeno delle mode? Per definizione essa dovrebbe. Pur tuttavia in molti settori assistiamo ad almeno due metodi, due approcci, due scuole di pensiero contrapposte per affrontare il medesimo aspetto di una questione sia dal punto di vista conoscitivo che operativo. Talvolta, andando a scavare, potrebbe sorprendentemente emergere che la propensione di uno scienziato per l’uno o per l’altro approccio sia dettata più dal desiderio di identificarsi con un gruppo piuttosto che da consolidate acquisizioni disciplinari.
 

Dalla genetica, alla scultura, all’architettura

Entrando nel merito di questioni creative, legate a una scala d’intervento misurata qual è quella della scultura –  che in questa fase appare particolarmente idonea, intervenendo su cavie da laboratorio prive di Associazioni che operano in loro difesa, sulle quali effettuare plurime vivisezioni morfologico-spaziali – quando il progetto è di eccellenza, possono essere raggiunti elevati risultati di sintesi ideativa senza trasgredire il rigore del metodo scientifico. Tra scultura, architettura, tecnologia e scienza è possibile stabilire dei legami, reali e/o figurati, atti a generare opere dense di significato, come è emerso nel corso delle ricerche che hanno prodotto la serie di sculture dal titolo Dinamiche Architettoniche che indaga sul tema della reversibile decostruzione della materia,78 nonché progetti e realizzazioni di unità abitative e di altre tipologie edilizie. Una di queste verte sul concetto di densità della materia nello spazio, presente tanto nella scultura quanto nell’architettura. L’immediatezza dei risultati e lo sviluppo della conoscenza del mondo delle tre dimensioni che la scultura è in grado di offrire, in molti casi giustifica la maggiore fatica, rispetto alla virtualità del progetto architettonico, di un’attività nella quale convivono razionalità ed emozione. Una scultura – e in alcuni casi anche un’architettura tecnologicamente evoluta lì dove, come ad esempio nelle opere di Santiago Calatrava, vengono affrontate composizioni dinamiche a geometria variabile – dà luogo alla variazione della dimensione topologica79 del volume iniziale e degli elementi che lo compongono. Nelle sperimentazioni effettuate da chi scrive ciò avviene nel passaggio da una condizione primigenia di azzeramento semantico, il monolito, a sistemi pluri-significanti che si sdoppiano come per mitosi secondo modalità morfologicamente complesse.  In una lettera dell’inverno del 1999 indirizzata a Bruno Zevi ponevo una domanda: “Chiar.mo Prof. Bruno Zevi, per capire l’architettura è necessario passare per la scultura e dotarla di uno spazio interno. Che ne pensa? Cordiali saluti, Ruggero Lenci.” Lo stesso giorno Zevi rispondeva: “Ho sentito dire (da Giedion) che doveva passare per la pittura moderna. E un motivo c’era. Passare attraverso la scultura, dopo averla dotata di uno spazio interno, mi sembra, a dir poco, faticoso. Lo spazio architettonico ha ben poco in comune con lo spazio ‘scavato’. In ogni modo: le sculture sono belle. Cordialmente, Bruno Zevi.” L’architettura non opera scavi? In alcuni casi li opera ma in misura ridotta rispetto a modalità che si basano sull’assemblaggio di elementi spaziali con caratteristiche definite, organizzati in un sistema dotato di concinnitas,80 funzionalmente ed esteticamente valido. Non sarebbe oggi facilmente ipotizzabile realizzare opere architettoniche per sottrazione, come è stato per le catacombe, per Petra, per gli ipogei della Cappadocia, per i Sassi di Matera, per San Jorge a Labilela in Abissinia e per tante altre ancora, tutte geneticamente vicine alla scultura. Quando nella contemporaneità si pensa a uno scavo, un’immagine ricorrente è quella delle gallerie stradali o ferroviarie, delle cave, delle miniere, delle fondazioni basamentali degli edifici. Cavità nelle quali risuona una forza espressiva solenne, dovuta ai mutati rapporti di peso e di massa che le ingenti sottrazioni di materia hanno posto in essere, in alcuni casi con ferite inferte al suolo mai del tutto risarcibili. Per gli architetti, come abbiamo visto, passare attraverso la scultura può essere realmente faticoso, ed è certamente questo il motivo prioritario per il quale se ne allontanano. Più facile passare per la pittura, per il disegno, per la grafica, quindi per la rappresentazione sul piano bidimensionale. Ancora Zevi in un’altra occasione ha invece affermato che i momenti più belli di un progetto sono quelli dell’elaborazione dell’idea, quando si fatica, e non della sua presentazione, quando il vorticoso fermento ideativo si è ormai concluso. Pertanto al fiorire di idee di intersezioni volumetriche e di spazi verificabili appieno esclusivamente nella materia solida – e non altrettanto compiutamente nel mondo virtuale o nella dimensione grafica del disegno dal quale comunque hanno origine – è legittimo in architettura intraprendere una parallela ricerca scultorea che, nel corso del tempo, tenda con naturalezza a riunificarsi con la prima, in un legame ancor più solido e ampio di prima. Non per un impellente bisogno di formalismi espressivi, ma per la volontà di intercettare con essenzialità e in modo assoluto alcune tra le più significative intersezioni nella materia.  La riflessione sul tema Dinamiche Architettoniche ha quindi prodotto una serie di ipotesi progettuali nelle quali l’articolazione delle masse investe aspetti appartenenti tanto alla scultura quanto all’architettura. Tali modelli sono costituiti da volumi puri sezionati secondo linee di taglio intersecanti tra loro che producono pluralità di significati: architettonici, materici, naturalistici, cibernetici. Per loro tramite si intende investigare temi che vanno oltre la dimensione statica dell’opera, non più vista solo come oggetto, ma anche come realtà spaziale disarticolabile, che da un’originaria condizione monolitica acconsente a generare plurime configurazioni morfologiche attraverso l’estrazione di sue parti. Questa dinamicità, questo assetto variabile, dà luogo alla variazione della dimensione topologica del volume iniziale, degli elementi che lo compongono, della somma delle superfici, della sua complessità, indagando il tema della densità spaziale della materia, nonché quello del passaggio da una condizione primigenia, di azzeramento segnico, alle singole ecceità pluri-significanti nelle quali ogni inizio si scompone e riconfigura. Vi è la volontà di interpretare in senso artistico le continue e ripetute condizioni di equilibrio di un sistema dinamico attivo nel processo di traduzione di un codice, che trova rappresentazione in alcune significative intersezioni spaziali tracciabili in un solido. Gettando ponti sottili tra la biogenetica e la scultura, tali oggetti dinamici traggono ispirazione concettuale dal processo di traduzione del codice genetico che si esprime attraverso la sequenza delle basi azotate A, T, G, C di un polinucleotide di DNA. Poche significative sezioni operate su un monolito primordiale, così come poche sono le basi azotate del DNA, riescono a esprimere una vastissima complessità e complementarietà di superfici e membrane a somiglianza dei legami molecolari non covalenti e stereospecifici che rendono possibili vasta parte delle trasformazioni biologiche. In modo atipico rispetto alle modalità tradizionali, questo approccio orbita intorno alla scultura, all’architettura e all’ingegneria prefiggendosi l’obiettivo di fonderne insieme alcuni principi nella materia grezza. Alla scultura per quanto riguarda la modellazione, la scissione in parti, la violazione dello stato originario della materia; all’architettura per il tentativo di ampliare i confini teorici del progetto con l’estrazione dalla materia di configurazioni morfologiche primigenie, di famiglie di morfemi archetipi, di fenotipi articolabili nello spazio; all’ingegneria per l’utilizzo dell’informatica e di metodologie a controllo numerico per la realizzazione dell’opera con strumentazioni meccaniche di alta precisione. Inesplorate modalità di intendere il progetto aprono alla lettura delle invisibili tensioni e forze geometriche presenti nella struttura intima dei solidi, che si scindono in parti essenziali organizzando e articolando il tutto secondo sistemi di faglie derivanti da una mitosi topologica concettualmente guidata da famiglie di attrattori81 morfogenetici. Tali modalità solo talvolta potranno trovare reale campo di applicazione, anche parziale, in un progetto di architettura eseguibile. Negli altri casi rimarranno confinate nell’ambito di apporti teorici alla disciplina, producendo una migliore conoscenza delle proprietà geometriche dei volumi nello spazio, più approfondita rispetto a quella raggiungibile con il solo disegno architettonico tradizionale (manuale o virtuale). Il riferimento non è alla maquette di un progetto edilizio, realtà troppo poco duttile in senso suprematista in quanto rispondente a plurime esigenze funzionali dell’architettura, bensì a stadi di indagine precedenti, a ricerche concettuali su volumi ancora svincolati da specifici compiti prestazionali, nei quali sono ancora del tutto assenti esigenze a priori. Tali studi sono utili a concepire e comprendere le peculiari articolazioni delle possibili parti che compongono una massa solida, frammentata da invisibili superfici astratte selezionate e rese attive tra quelle ipotizzabili. Si può immaginare che tali superfici di taglio possano agitarsi simultaneamente e in molteplici quantità in una qualsiasi spazialità. Così eteree, ma anche così reali quando vengono trascritte nella materia, esse intendono scindere virtualmente legami molecolari contenuti nel monolito, pilotate da energie concettuali. In tal modo queste superfici possono canalizzare l’intenzionalità creativa attivando reiterati processi di mitosi fino ad allora tenuti in letargo nella massa solida compatta. Metaforicamente si può anche pensare che tali superfici siano costantemente in grado di scindere e rigenerare legami molecolari. Queste sculture, una volta scisse, custodiscono gelosamente l’impronta-matrice della parte mancante, ovvero quell’unicum complementare che può rioccuparne lo spazio descrivendo un’intenzionalità dinamica di sdoppiamento e crescita, di traduzione e trascrizione. Il monolito è lo spazio, ma anche il vuoto, il nulla, ed è al suo interno, in questo infinito e simbolico contenitore di forze, che possono aver luogo i ‘big bang’ creativi che indagano in senso frattale la densità spaziale della materia, restituendo all’arte e all’architettura, quasi per magnetismi ordinati da una regola universale di cui esso è simbolo, la continuità materica del tutto, nella quale gli spazi vuoti esistono come assenza di massa volumetrica. Vuoti e pieni diventano puro spazio in dialogo. Il pieno è presenza strutturante, realtà storica immanente. Il vuoto è presenza di assenza, misura illusoria, etereo incanto, perenne desiderio di libertà.  Anche in architettura questo concetto ha una propria legittimità. Pensiamo ad esempio a come un edificio viene percepito dall’esterno: un grande volume monolitico inserito in un contesto, quando invece a una più attenta osservazione si tratta di un insieme di materie assemblate, i materiali, e di spazi interni vuoti, i vani nei quali si svolgono plurime attività umane. E’ solo una pellicola a separare il dentro dal fuori, a determinare quella superficie di demarcazione tra lo spazio vuoto esterno e gli spazi vuoti dei vani porosi che si trovano al suo interno. Così inteso l’edificio è un sistema spugnoso, un organismo che ha esperito un processo di mitosi, avvolto da una membrana forata dalle finestre. Superando la dimensione statica si ricerca una realtà spaziale disarticolabile secondo un libero comporre e scomporre la materia, senza che il singolo gesto ne riduca il significato e il grado di identificabilità. La sua condizione primigenia, il monolito, rappresenta l’azzeramento nel quale ogni esperienza progettuale dovrebbe naturalmente ritrarsi prima che se ne attivi una successiva. Ciò per garantire in ogni nuovo progetto la ripartenza da un grado zero delle questioni di forma, da una condizione nella quale il futuro della materia non è ancora segnato neanche dal pensiero teleonomico, da intenzioni topologicamente indirizzate rispetto a quelle che ne descrivono la dimensione puramente iniziale. La materia, in questo stato quasi del tutto privo di semantica in cui si trova, è, come il foglio bianco, ancora totalmente libera di assorbire e catalizzare ogni nuova idea e concetto. Essa, per così dire, acconsente alla propria modellazione da parte di entità esterne, contribuendo in tal modo allo sviluppo di una conoscenza che si attua esprimendo nuove identità, svelando ulteriori segreti. Nello specifico, questo tipo di modellazione differisce da quei metodi basati sulla trasformazione morfologica di una materia duttile, essendo tesa a investigare le possibili intersezioni generabili in un corpo solido sottoposto a due o più sezionamenti quasi sempre ortogonali tra loro. Il solido ha la forma di un prisma rettangolare a base quadrata. Le linee di sezionamento – che possono aver luogo sia con andamento ortogonale alle facce del solido, sia angolate rispetto ad esse – derivano da annotazioni e schizzi sviluppati per penetrare alcuni segreti geometrici appartenenti al mondo dei solidi. Le singole peculiarità derivanti dalle multiple intersezioni intuite, immaginate, a volte inaspettate, richiedono successive e rigorose verifiche della loro complessità geometrica nello spazio euclideo onde poterne trasporre il modello virtuale nella materia. In questa fase la modellazione tridimensionale, ancora da investigare in dettaglio, viene sviluppata al computer per comprendere appieno e perfezionare la scomposizione in parti del monolito. Tali parti, generate dalle linee di sezione, vengono calibrate affinché, sia per morfologia, sia per resistenza meccanica, sia per numero, risultino congrue con l’idea di progetto in corso di definizione e perfezionamento, così da produrre il significato voluto. La visione dinamica tridimensionale delle parti del modello solido virtuale, nonché la costruzione e decostruzione del tutto negli elementi significanti di cui esso si compone, completano la verifica semantica e strutturale del progetto che ne autorizza la trasposizione in materia. Questo è il vero momento realizzativo dell’opera nella sua fisicità che, nello specifico, si avvale di tecnologie a controllo numerico. L‘ultima fase riguarda il processo di finitura dei materiali utilizzati: alluminio, acciaio inox, bronzo, ottone, plexiglas. Un significativo apporto teorico alla ricerca deriva dalla geometria dei frattali, dal concetto di auto-similarità, di densità spaziale, di insiemi connessi. La dimensione frattale, o topologica, descrive in che misura una massa riempie lo spazio in cui è contenuta, quantificandone le irregolarità morfologiche osservate a una data distanza che in alcuni casi può essere anche molto ravvicinata. Pertanto il concetto di densità dipende dal tipo di osservazione che, se effettuata con microscopi atomici, mostrerebbe una quasi totale assenza di materia. Tale dimensione contiene alcune informazioni circa le proprietà geometriche dell’oggetto osservato. Pensiamo a un volume tridimensionale, a un monolito, che a occhio nudo non presenta cavità interne in quanto occupa e riempie interamente lo spazio definito dalle facce che lo delimitano. Immaginiamo ora lo stesso monolito composto da una massa spugnosa che, pur occupando il medesimo spazio tridimensionale, non lo riempie interamente. Ebbene, la sua dimensione topologica contiene l’informazione di tale densità variata. Questo ragionamento fa nascere un quesito: qual è la dimensione topologica dell’architettura? Anche qui la risposta dipende dai criteri utilizzati per l’osservazione. Considerando un edificio, da un lato, come un volume pieno delimitato dalle mura esterne, dall’altro come un volume spugnoso composto da superfici che ne delimitano i vani interni, si otterrebbero dimensioni topologiche diverse. Emerge quindi che le piramidi egizie, l’architettura romanica, gotica, razionalista, hi-tech, ecc., hanno dimensioni topologiche diverse tra loro. Lo stesso ragionamento può essere esteso anche alle sculture della serie DNA: quando il monolito è integro e completo di tutte le sue parti esso ha una dimensione topologica originaria, che varia dinamicamente al variare della sua densità morfologica. Va però tenuto presente che nell’atto di separazione di un corpo solido in due, in quattro, ecc., subentra un fattore moltiplicativo dovuto all’aumento delle parti, volgendo tutto al plurale. Dovremmo quindi parlare di dimensioni topologiche. Pertanto la peculiarità di queste sculture consiste nella possibilità di rendere variabili tali dimensioni, qui intese come espressioni di oggetti frattali generati da una ricerca teorica che indaga alcune significative caratteristiche morfogenetiche con cui le masse solide, espandendosi e contraendosi, saturano e desaturano lo spazio.  In che modo la scultura può essere utile alla ricerca della composizione-progettazione architettonica? Essa deve ricercare in profondità i contenuti della propria formatività, scavando oltre la superficie dell’oggetto, del bassorilievo, all’interno della materia compatta per estrarvi, tra i tanti possibili, quei frammenti significativi, sia come presenza assertiva di massa, sia come sua assenza, ovvero come cavità spugnosa, duttile e accogliente. Se l’applicazione di queste procedure può dar luogo allo sviluppo di spazialità volumetriche complesse, trasformare le stesse in questioni strettamente legate ai significati aggregativi e/o tipologici dell’architettura o a tentativi ancor più ampi di coniugare architettura, scultura e tecnologia, apre la via ad attività progettuali ontogenetiche che, parafrasando Haeckel, riepilogano i filogenetici e indelebili segni contenuti nella storia dell’architettura. Si pensi a Le Corbusier che, nelle sue Unità di Abitazione (Marsiglia e altre), ha dato luogo a un insieme tipologicamente innovativo nel quale è presente l’idea riepilogativa di scomposizione-ricomposizione di un volume, il monolito, in parti: le cellule abitative. O a Van Der Broek e Bakema che, con la torre abitativa all’Hansa Viertel di Berlino, verticalizzano un concetto basato su simili derivazioni filogenetiche. Ma poi a Moshe Safdie che, con Habitat ‘67 a Montreal, frantuma il monolito per dar luogo a una scomposizione metabolica, a una casbah di cellule aggregative memore dell’architettura mediterranea. O ancora a Steven Holl che, con il suo edificio abitativo a Fukuoka, realizza un volume a pettine nel quale sono contenuti alloggi duttili che si snodano in modo inedito e sorprendente. E’ fuor di dubbio che tali sperimentazioni morfologico-spaziali siano possibili grazie all’agilità ideativa nel coniugare un’idea astratta, nuova e concettuale di spazio e di volume, con le specificità dell’architettura, in primo luogo con le antiche regole vitruviane dell‘utilitas e della firmitas. Ma in tali specificità è presente anche la ricerca puramente spaziale della definizione delle parti che compongono e completano l’unità volumetrica, nonché quella di rintracciare nuove modalità aggregative svincolate da rigidi schematismi a priori. L’illustrazione di quattro progetti autobiografici può essere utile a fare maggior chiarezza, o a confondere ancor di più le idee del lettore. Il complesso abitativo per 18 alloggi eseguito nel 200182 su un’area per l’edilizia economica e popolare del comune di Venezia (Favaro Veneto) produce una forte interazione tra gli alloggi e gli spazi interni ed esterni dell’edificio, finalizzata a generare un senso di identità e di comunità tra gli abitanti. Lo spazio interno è costituito da un atrio di 13 m. di altezza, illuminato superiormente da un lucernario, dal quale hanno accesso tutti gli alloggi di cui i duplex intendono costituire un’alternativa sostenibile a quelli dell’Unità di Abitazione di Le Corbusier. Le principali mutazioni ontogenetiche apportate al celebre riferimento filogenetico hanno avuto luogo soprattutto nella zona giorno, dove gli alloggi sviluppano dimensioni più ampie.  A Bergamo, nel progetto di concorso del 1997 per nuove tipologie abitative nell’area Valtesse83 l’obiettivo è stato quello di portare alle estreme conseguenze il sistema aggregativo realizzato a Venezia al fine di ottenere una più completa interazione tra spazi pubblici e privati, quindi tra architettura, aree verdi e luoghi urbani. Le caratteristiche del sito e la scala edilizia del settore di città considerato hanno suggerito di articolare il sistema residenziale secondo non più due ma quattro direzioni, così da generare un tessuto abitativo che si basa su rotazioni di 90° degli alloggi superiori rispetto a quelli inferiori. Il costruito nasce pertanto dall’aggregazione articolata di moduli formati da due alloggi duplex incastrati tra loro ai quali sono sovrapposti altri moduli simili ai precedenti, ma ruotati di 90°. Questo sistema produce una morfologia che ricerca, sia nei volumi sia negli spazi vuoti, una gradualità di rapporti dimensionali tra il nuovo insediamento e il contesto. Esso genera un tessuto edilizio con una dimensione topologica a densità medio-alta, dove è presente sia il vicolo che la piazza, luoghi intermedi nei quali interagiscono il semi-pubblico urbano (le piazze tra gli edifici) e il pubblico di gruppo (i vicoli frontistanti gli edifici), il privato di gruppo (gli accessi e i percorsi collocati anche in quota che distribuiscono ai singoli alloggi) e il privato familiare (gli alloggi).  A Roma, nel progetto di concorso per 40 alloggi in un’area situata all’interno della Caserma dei Carabinieri Salvo d’Acquisto su Viale Tor di Quinto,84 vengono proposti due edifici lineari tipologicamente articolati che si aggregano sul modello delle sperimentazioni precedenti.  Infine il progetto di concorso del Padiglione Italia all’EXPO di Shanghai del 201085 nasce da studi volumetrici a carattere scultoreo sviluppati nel corso della ricerca dal titolo città frattale, tendente a rappresentare la possibilità di coniugare architettura, scultura e tecnologia. A livello volumetrico il progetto è costituito da un prisma puro, un monolito di dimensione topologica originaria, che si scompone in quattro oggetti frattali di dimensione topologica complessivamente aumentata, di cui tre vengono traslati sia verticalmente sia lateralmente rispetto al quarto, l’unico che tocca terra. Una struttura a telai spaziali, tra i quali è interposto il vetro, disposti secondo una maglia orizzontale e verticale che risolve con un unico elemento prefabbricato sia i pavimenti, sia le coperture, sia i prospetti, genera gli ampi sbalzi. I telai strutturali sono pensati come moduli cubici in acciaio con spigoli definiti da profili a “L”, controventati nelle diagonali interne in modo da formare degli ipercubi86 da considerarsi essi stessi delle sculture assemblate tra loro. Un tempio tecnologico della modernità che narra l’Italia attraverso un’interpretazione contemporanea della sua storia architettonica, una delle possibili declinazioni di un’ontogenesi che ricapitola la filogenesi in area mediterranea.
 

Conclusioni

Oggi in architettura, a seguito di meccanismi che favoriscono l’ibridazione funzionale, il termine tipologia – peraltro per alcuni casi sostituibile con speciazione – ha perso gran parte del suo significato originario. In biologia, se una popolazione permane in una condizione di isolamento nello spazio per un periodo abbastanza lungo nel tempo, questa evolverà in una direzione diversa fino a non riconoscersi più e a non incrociarsi con quella con la quale una volta era unita, dando luogo a due specie distinte. Tale fenomeno, di speciazione appunto, si presenta con particolari modalità anche in architettura generando gli ordini, gli stili, le avanguardie, le correnti, i codici. Ma, a differenza delle specie, le idee, i progetti possono essere incrociati tra loro, combinati insieme come ad esempio accade tra il dorico lo ionico e il corinzio (nel Colosseo, ad esempio.), in quanto non vi è una limitazione dettata dalla fertilità biologica, ma solo una questione – peraltro non di poco conto – di pudore intellettuale, sperando che non venga in mente di incrociare il corinzio con il decostruttivismo. Sarebbe come dar luogo a una nuova forma di vita nella quale un organo non sviluppandosi appieno rimane vestigiale: un’ontogenesi arrestata nel compimento del suo processo di ricapitolazione della filogenesi.87  Se in biologia la presenza o meno della fertilità dirige l’evoluzione delle specie – ed è su questo terreno che dovrebbero incontrarsi e discutere teologi e scienziati, quindi non per trattare il solo caso dell’essere umano – in architettura questa condizione è mancante, ed è proprio la critica architettonica, oggi poco presente, che dovrebbe farsi carico di supplire a tale compito, indirizzando i progettisti verso accostamenti fertili e stroncando quelli improponibili. La vita deve preservare e far evolvere la regola (il genoma) e sviluppare la massa (l’organismo). Questi due aspetti (norma e forma, regola e morfologia, contenuto ed espressione, ecc.) sono ambedue necessari, in quanto la norma si deve preoccupare anche della sua propria forma affinché l’insieme possa rimanere connesso. Si pensi al fenotipo del DNA caratterizzato da un filamento a doppia elica, con la matrice informativa costituita dalle quattro basi azotate che, unendo le due eliche, generano un insieme connesso. La forma filamentosa fatta di spire è la migliore per generare la bidimensionalità (tessuto), o la tridimensionalità (massa) avvolgendosi su se stessa in modo complesso e a prima vista casuale.  La straordinaria ricchezza informativa del DNA consente a una molecola di tRNA (con il suo anticodone e grazie agli enzimi) di dar luogo a catene di amminoacidi (nell’essere umano in numero di 20 su 64 combinazioni possibili) corrispondenti alla sequenza delle 3,2 miliardi di basi del codice genetico, lette a triplette. Tale sequenza, stadio per stadio nello sviluppo del feto, dà luogo alla massa proteica specializzata (avvolta su se stessa in modo complesso e anch’esso a prima vista casuale), massa che genera l’organismo e nella quale norma e forma si corrispondono. Questa autosimilarità tra il filamento aggrovigliato del DNA e quello degli amminoacidi fa pensare che nella vita, insieme a fenomeni elettrici, meccanici, a reazioni chimiche e di sviluppo per diffusione (gradiente, morfogenesi di A. Turing, ecc.), sia presente anche un ordine ricorsivo di tipo matematico-frattale, che interagisce, stadio per stadio, con tutti gli altri fenomeni, mettendo in campo una maestosa complessità. Tale algoritmo, che qui si ipotizza essere contenuto nel DNA, può indurre una cellula in un suo determinato stadio di sviluppo a generare dei picchi di concentrazione di composti chimici dando luogo a un gradiente mediante sintesi di una sostanza in un punto e sua diluizione in un altro.88 La geometria dei frattali – che, con Gaston Julia prima e Benoit Mandelbrot89 dopo, si occupa della distribuzione dell’informazione sulla superficie così come della distribuzione della massa nello spazio – ha dato rilevanza matematico-geometrica ai concetti di attrattori e di insiemi connessi, fenomeni che grazie a Mandelbrot dal 1978 sono visibili sui monitor dei computer. Ebbene, un organismo vivente è un insieme morfologicamente costituito da molteplici attrattori tra loro connessi: gli organi, gli arti, i tessuti epiteliali, nervosi, ecc. Pertanto si potrebbe ipotizzare che il DNA contenga anche una regola matematica composta da algoritmi ricorsivi che, stadio per stadio, interagiscono con i fenomeni elettrici, meccanici, chimici e di sviluppo diffusivo compresenti nella vita. E’ ipotizzabile che nel DNA sia inscritta la norma di tutto ciò che l’uomo può arrivare a capire, quindi anche molta matematica. Quest’ipotesi non sarebbe in contrasto con la grande quantità di geni, 3,2 miliardi, contenuta nel genoma umano, da taluni ritenuta eccessiva e ridondante in ragione di circa 2/3.90 Da quanto sopra esposto, un algoritmo derivante dalla geometria dei frattali fissato nel DNA informerebbe la cellula, stadio per stadio, circa l’architettura dell’organismo, ovvero la distribuzione qualitativa e quantitativa della massa, secondo dei picchi, o attrattori, generati per fenomeni di induzione, dando luogo a gradienti attivati da fenomeni energetici e chimici. Ne consegue che almeno la metà91 della sequenza del DNA potrebbe descrivere la morfologia dell’organismo. Pertanto il flusso ereditario – che secondo August Weismann92 non è di materia ma di informazione – potrebbe essere responsabile dell’attivazione del processo di divisione del corpo in una serie di porzioni simili, o metameria, secondo logiche anche frattali.  Quanto sopra esposto investe tanto la scienza quanto il progetto, ambedue interessate alla distribuzione e alla specificazione dei pieni e dei vuoti nellospazio, e sono alla base della stesura del presente testo. Parafrasando, con un ponte sottile, le parole di John Maynard Smith93 esistono due modalità di considerare l’architettura: 1. come una struttura funzionale dissipativa; 2. come un’entità capace di trasmettere l’informazione ereditaria. La prima catabolica, mirante a trasformare e consumare l’energia necessaria al sistema, in altre parole a produrre e ospitare funzioni prestazionali; la seconda anabolica, solidamente legata ai temi chiave della costruzione di un progetto nel quale viene fissato un codice informativo – una sorta di DNA geograficamente sostenibile – in grado di sintetizzare una proteina architettonica, concordante con l’ecosistema di cui è parte.
 

Note
1- Desidero ringraziare mia madre Maria Pia Casu Lenci, naturalista, per avermi avvicinato
alla biologia e fornito gli strumenti per poter tentare un accostamento tra questa
disciplina e l’architettura. Ringrazio anche mio figlio Giancarlo, Ingegnere Energetico,
che ha letto questo testo dandomi preziosi consigli.
2- Gli scienziati e gli uomini di cultura hanno sempre smontato tutte le folli sciocchezze
dei razzisti sulle razze umane pure e superiori. Secondo Levi-Strauss il razzismo e
la convinzione sbagliata che le differenze osservate tra le popolazioni siano dovute a
fattori genetici. All’opposto gli scienziati hanno messo in evidenza i caratteri genetici
comuni a tutte le popolazioni e guardato con sospetto le sperimentazioni eugenetiche.
3- La societa linguistica di Parigi approvo intorno al 1863 un editto che proibiva le
interpretazioni evolutive delle lingue, e il tabù di Parigi ha ancora effetti sui linguisti
che tendono a evitare l’argomento.
4- C’e da auspicarsi che non fiorisca mai una visione razzista dell’architettura.
5- Il linguaggio parlato e, ad esempio, un interessantissimo tentativo evolutivo per l’essere
umano. Ma possiamo essere certi a priori che sia piu idoneo alla sua sopravvivenza
rispetto alle modalita di comunicazione usate da altre forme di vita se, per l’elevata
quantita di attivita conflittuali a livello locale e globale che l’uomo sta sperimentando,
potrebbe condurlo a estinguersi?
6- I dinosauri per aumento della massa fisica, l’uomo per crescita ed espansione
delle citta.
7- Si pensi, ad esempio, alla sempre maggior resistenza dei batteri agli antibiotici, alla
sempre maggior virulenza dei virus.
8- Un conflitto incontenibile tra due entita mette in scena la registrazione e l’accettazione
di un dramma che non puo essere contenuto senza la grave perdita di vitalita di
uno dei due nuclei teorici pensanti. Il termine e del sottoscritto che lo ha coniato nel
giugno 2007.
9- Il testo di architettura e urbanistica si presta a diventare una tela sulla quale trattare
molteplici argomenti, anche esterni alla disciplina.
10- De Rubertis, R., La città mutante - Indizi di evoluzionismo in architettura, Franco
Angeli, Milano 2008. Il libro e stato presentato il 13 giugno 2008 alla Facolta di
Architettura Valle Giulia da Benedetto Todaro, Telmo Pievani, Franco Purini, con un
intervento del sottoscritto.
11- De Rubertis, R., op. cit., p. 8.
12- Sostantivi contenuti nel titolo di un famoso libro di Jacques Monod, vedi nota
successiva. Le mutazioni si chiamano casuali perche: a) non nascono per l’effetto
che avranno, positivo, negativo o piu spesso neutro; b) non ne conosciamo le cause;
c) per effetto della deriva genetica. Si pensi a una popolazione che si isola e da luogo
a un nuovo gruppo, casuale perche chi lo ha iniziato e un miscuglio casuale di esponenti.
Telmo Pievani, presentazione del gia citato libro di Roberto De Rubertis alla
Facolta di Architettura Valle Giulia di Roma del 13/06/2008.
13- Monod, J., Il caso e la necessità, Oscar Mondadori, Milano 2007, p. 27 (prima
edizione 1970).
14- Cavalli Sforza, L. L., Il caso e la necessità, Di Renzo Ed., Roma 2007, p. 103.
15- Argomentazioni tratte da: Pievani, T., In difesa di Darwin, Bompiani, Milano 2007.
16- Pievani, T., In difesa di Darwin, Bompiani, Milano 2007, p. 55.
17- La Cecla, F., Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
18- Franco Purini, presentazione del libro di Roberto De Rubertis, La città mutante
- Indizi di evoluzionismo in architettura, Facolta di Architettura Valle Giulia,
13/06/2008.
19- Progetto teleonomico: conservare e riprodurre la norma strutturale (Monod, J.,
op. cit., p. 24).
20- La Cecla, F., op. cit., p. 113.
21- La teleologia (dal greco telos, fine o scopo) e la dottrina filosofica del finalismo; e
la credenza che ci sia un progetto, uno scopo, una direttiva, un principio o una finalita
nelle opere e nei processi naturali, unita allo studio filosofico di tale scopo.
22- Le strutture vestigiali sono state notate da tempi remoti e se ne e parlato molto prima
che Darwin ne abbia fornito una spiegazione condivisa.
23- Il termine e di Telmo Pievani.
24- Telmo Pievani, presentazione del libro di Roberto De Rubertis, La città mutante
- Indizi di evoluzionismo in architettura, Facolta di Architettura Valle Giulia,
13/06/2008.
25- Metaforicamente paragonabile all’ancora di un’imbarcazione.
26- Telmo Pievani, presentazione del libro di Roberto De Rubertis, La città mutante
- Indizi di evoluzionismo in architettura, Facolta di Architettura Valle Giulia,
13/06/2008.
27- Cavalli Sforza, L.L., L’evoluzione della cultura, Codice Edizioni, Torino 2008, p. 110.
28- Concetto desunto da: L’analisi storico-morfologica del territorio. L’interazione
analisi-progetto. in: Scritti per Gianfranco Moneta, a cura di Manuela Orazi,
Architettura a Valle Giulia, Roma 2007, p. 106.
29- Ernst Heinrich Haeckel, Potsdam, 16 febbraio 1834 – Jena, 9 agosto 1919.
30- Questa regola progressiva gode oggi di una validita limitata, poiche sappiamo
che l’evoluzione non ha solo aggiunto nuovi stadi di sviluppo a quello finale, ma ha
anche inserito stadi piu precoci o li ha alterati. (Telmo Pievani, op. cit., p. 29).
31- Epigenesi: sviluppo di forme organiche individuali a partire dal non formato.
32- Monod, J., op. cit., p. 125.
33- Cavalli Sforza, L.L., op. cit., p. 49.
34- ipotesi di organizzazione spaziale che contiene in se le regole d’uso dell’architettura
e dell’urbanistica e, in quanto tale, in grado di progettare positivamente la
vita degli abitanti. Sul progetto ontologico dell’architettura vedi le ricerche di Tony
Fry e Anne-Marie Willis dell’Eco Design Foundation.
35- Nel libro La misura italiana dell’architettura, Giuseppe Laterza e figli, Roma-
Bari 2008, ma non solo in quel testo, Franco Purini scrive con un linguaggio ricapitolativo.
36- Purini, F., La misura italiana dell’architettura, Giuseppe Laterza e figli, Roma-
Bari 2008, pp. 65-66.
37- Purini, F., op. cit. pp. 49, 52-53.
38- Dal greco: on, genit. óntos, ente + genesi creazione, sviluppo, nascita, origine.
39- Dal greco ???? classe, specie e ??????? genesi creazione, sviluppo, nascita, origine.
40- Le due metodologie piu comunemente utilizzate per ricostruire un albero filogenetico
sono la fenetica e la cladistica.
41- dal titolo Ermeneutica dell’architettura, In: Scritti per Gianfranco Moneta, a
cura di Manuela Orazi, Architettura a Valle Giulia, Roma 2007, pp. 77-79.
42- Portoghesi, P., Architettura, ambiente e rapporto con la storia in Gianfranco
Moneta. In: Scritti per Gianfranco Moneta, a cura di Manuela Orazi, Architettura a
Valle Giulia, Roma 2007, p. 33.
43- Su questo tema si vada in particolare il libro di Marcello Rebecchini, Il fondamento
tipologico dell’architettura, Bulzoni, Roma 1978; inoltre due testi di Carlo
Aymonino: Il significato delle città; Origini e sviluppo della città moderna.
44- Vedasi due esempi per tutti: gli enzimi del lattosio e la perdita dei peli nell’uomo
a seguito di acquisizioni e comportamenti, Cavalli Sforza, L.L., L’evoluzione
della cultura, Codice Edizioni, Torino 2008, p. 24.
45- Cavalli Sforza, L.L., op. cit., p. 26.
46- Cavalli Sforza, L.L., op. cit. p. 75.
47- Purini, F., La misura italiana dell’architettura, Laterza, Roma-Bari 2008.
48- Acido desossiribonucleico.
49- Cavalli Sforza, L.L., Il caso e la necessità, p. 51.
50- Da lui pubblicata nel 1956 con il titolo, The propensity interpretation of probability,
e ulteriormente sviluppata fino agli anni ’90. Karl R. Popper, Verso una teoria
evoluzionistica della conoscenza, Armando Editore, Roma 1994, pp. 44, 45.
51- Popper, R. K., op. cit., p. 47.
52- Popper, R. K., op. cit., p. 76.
53- Intorno al 1972, Humberto Maturana e Francisco Varela elaborano il concetto di
autopoiesi, termine coniato unendo le parole greche auto (se stesso) e poiesis (creazione,
produzione). Un sistema autopoietico e un sistema che ridefinisce continuamente
se stesso e al proprio interno si sostiene e si riproduce. Maturana e Varela sono
i primi a riconoscere l’autorganizzazione quale discriminante tra vivente e non
vivente.
54- Francisco Varela.
55- Quelle dei solfo batteri e dei metano batteri. Vedi il ciclo biologico dello zolfo o
del metano.
56- Eucarioti. Vedi Telmo Pievani, La teoria dell’evoluzione, Il Mulino, Bologna
2006, pp. 21, 31
57- Popper, R. K., op. cit., p. 75.
58- Altri batteri primordiali, i solfo batteri, hanno imparato a ricavare l’energia
necessaria a compiere i loro processi vitali - l’accrescimento e la riproduzione - dallo
zolfo e cosi continuano a fare ancora oggi.
59- La fotosintesi clorofilliana e l’insieme delle reazioni durante le quali le piante e le
alghe producono sostanze organiche a partire da CO2 e dall’acqua, in presenza di luce.
60- Secondo il biochimico belga Marcel Florkin (1900-1979) l’evoluzione della vita,
o degli organismi, e un’evoluzione di reti di cicli chimici. Egli mise in evidenza che
la rete di cicli chimici di una cellula spesso conserva, come costituente della propria
rete, cicli arcaici risalenti a miliardi di anni or sono e che resero possibili gli innesti
successivi. Cosi i cicli metabolici contemporanei possono rivelare parte della loro
storia evolutiva.
61- Pievani, T., La teoria dell’evoluzione, Il Mulino, Bologna 2006, p. 24.
62- Non piu di 150.000 anni.
63- Monod, J., op. cit., p.27.
64- Monod, J., op. cit., p.24.
65- Purini, F., op. cit., p. 43.
66- Maynard Smith, J., Le nuove frontiere della biologia, Laterza, Roma-Bari 1988,
p. 182.
67- Monod, J., op. cit., p.103.
68- Monod, J., op. cit., pp.109-111.
69- Monod, J., op. cit., p.113.
70- Monod, J., op. cit., p.120.
71- Monod, J., op. cit., p.153.
72- Monod, J., op. cit., p.161.
73- Con riferimento ai quartieri INA Casa in Italia, e in particolare al Tiburtino a
Roma.
74- La Cecla, F., Contro l’architrettura, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 16.
75- Solnit, R., A Field Guide to Getting Lost, Viking, New York 2005, pp. 88-90.
76- Ruggeri, L., in: Franco La Cecla, Contro l’architrettura, Bollati Boringhieri,
Torino 2008, p. 31.
77- Recensite da Elisabetta Nardiello su Progetti Roma n. 7, Gruppo Editoriale Quid,
Pesaro, giugno 2008, pp. 132-137.
78- In matematica, un attrattore e un insieme verso il quale evolve un sistema dinamico
dopo un tempo sufficientemente lungo.
79- Va ricordato che un carattere generale dell’evoluzione e che nuove funzioni vengono
assunte da organi che non sorgono ex novo, ma come modificazione e adattamento
di preesistenti.“I nostri denti sono scaglie modificate, gli ossicini dell’orecchio
sono ossa della mandibola modificate, le nostre braccia sono pinne modificate,
le mammelle sono ghiandole cutanee modificate, e così via.” in: Maynard Smith,
J., Le nuove frontiere della biologia, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 73.
80- Maynard Smith, J., op. cit., pp. 158, 160.
81- Benoit Mandelbrot e stato invitato a Roma il 6 dicembre del 1995 dall’allora
coordinatore del Dottorato di Ricera in composizione architettonica Prof. Lucio
Valerio Barbera e dal Prof. Luciano Pietronero della Facolta di Fisica, per tenere
una conferenza dal titolo La geometria dei Frattali, nell’aula magna della Facolta
di Architettura. L’evento e stato curato da Ruggero Lenci.
82- proporzione che peraltro riflette quella dei 20 amminoacidi su 64 combinazioni
possibili.
83- per mantenere pari opportunità tra questioni di norma e forma.
84- Friedrich Leopold August Weismann (1834-1914) e stato un biologo e botanico
tedesco, considerato per molti aspetti il piu importante evoluzionista dopo Charles
Darwin.
85- Maynard Smith, J., op. cit., p. 183.
 

Bibliografia
Cavalli Sforza, L.L., e Cavalli Sforza F., Perché la scienza, l’avventura di un ricercatore,
Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2005.
Cavalli Sforza, L.L., Il caso e la necessità, Di Renzo Ed., Roma 2007.
Cavalli Sforza, L.L., L’evoluzione della cultura, Codice Edizioni, Torino 2008.
Curtis, H., Sue Barnes N., Invito alla biologia, Zanichelli, Bologna 2000.
De Rubertis, R., La città mutante - Indizi di evoluzionismo in architettura, Franco Angeli,
Milano 2008.
La Cecla, F., Contro l’architrettura, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
Le Corbusier, Vers une Architecture, Edizioni Vincent, Freal & C., Parigi 1958.
Maynard Smith, J., Le nuove frontiere della biologia, Laterza, Roma-Bari 1988.
Monod J., Il caso e la necessità, Oscar Mondadori, Milano 1970, ristampa 2007.
Orazi, M., (a cura di), Scritti per Gianfranco Moneta, Architettura a Valle Giulia, Roma 2007.
Pievani, T., La teoria dell’evoluzione, Il Mulino, Bologna 2006.
Pievani, T., In difesa di Darwin, Bompiani, Milano 2007.
Popper, K.R., Verso una teoria evoluzionistica della conoscenza, Armando Editore, Roma 1994.
Purini, F., La misura italiana dell’architettura, Giuseppe Laterza e figli, Roma-Bari 2008.
Rebecchini, M., Il fondamento tipologico dell’architettura, Bulzoni, Roma 1978.