Sergio Lenci
l'opera architettonica 1950-2000Curatore/Curator: Ruggero Lenci
Ruggero Lenci
Nel curare questa raccolta di architetture progettate in un arco di mezzo secolo la scelta è stata quella di esporre i progetti e le realizzazioni in senso cronologico per far assumere alla compilazione il significato di una documentazione temporale. A conclusione dell’attività redazionale intrapresa mi sono accorto con chiarezza che le risposte progettuali fornite sono tutte state formulate intorno a cruciali tematiche compositive. Tra queste emerge quella del rapporto organico e al contempo neoplastico che il progetto instaura tra lo spazio interno ed esterno dell’edificio. Se la “corte” verrà dall’autore combattuta nelle opere e negli scritti a favore di una composizione più articolata di quella del blocco che genera la rue corridor, il suo posto sarà occupato dall’incessante ricerca di una cavità spaziale tutta interna al volume.
Questo tema, già affrontato nel Centro Sociale di Rimini (1958), affida a uno spazio a doppia altezza la conformazione del progetto che trova attuazione procedendo in senso centrifugo. Ciò diventa pienamente compiuto nel progetto per la sede della ITER (ex Rescoop) a Lugo di Romagna (1974) dove, intorno a una tripla altezza centrale, viene realizzata una composizione di masse ora ortogonali ora impostate sulla linea obliqua. Nel primo progetto per il Centro Sociale “Garofano Rosso” (1978) lo spazio centrale non è solo una doppia altezza connettiva, ma assume un ruolo specifico configurandosi come una cavea per 800 persone totalmente aperta al resto dell’edificio, così da formare un’architettura “fluida”.
Altro grande tema è rappresentato dall’articolazione dei volumi visti come oggetti metafisici: masse monolitiche che, come grandi dolmen, compongono l’architettura. Il progetto del Palazzo di Giustizia di Brindisi (1957) è eseguito su questi principi, non differentemente da quello della Tête Défense (1983) nel quale, in aggiunta, vi è la perdita dell’ortogonalità planimetrica e della compattezza volumetrica a favore di una dilatazione centrifuga che corrisponde alle esigenze urbanistiche e rappresentative del sito.
Il tema della ricerca di una struttura binata che spesso dà luogo a setti di ordine gigante, è ricorrente nei progetti del Palazzo di Giustizia di Lecce (1961), di Brescia (1964), di Napoli (1971), nonché nel progetto per l’autorimessa dell’isola del Tronchetto a Venezia (1983).
La composizione articolata su un insieme architettonico unico come incontro tra un volume ad andamento orizzontale di forma triangolare o curva dal quale si innalza una torre sfaccettata con tagli più o meno profondi a 45°, caratterizza la ricerca portata avanti nel progetto degli edifici di ingresso per le Case Circondariali di Spoleto (1970) e di Livorno (1974).
La ricerca di una plasticità scultorea di tipo sottrattivo, operata su un volume inizialmente puro che viene scavato alla base come avverrebbe se questo fosse una roccia corrosa dal fluire delle acque, trova una felicissima realizzazione nel progetto dell’unità abitativa nel Rione Guasco S. Pietro ad Ancona.
Si può poi notare la ricorrenza di uno studio svolto sul tema della volta a botte in vetro, che, nel progetto di concorso per l’Opera de La Bastille (1983) dà luogo a continue “cascate” contenute tra le maglie di un “pettine” di ordine gigante, in quello per il completamento del museo Guggenheim Ca’ Venier dei Leoni a Venezia (1985) crea nuove coperture formate da due porzioni di volta a botte che entrano in sintonia con la curvatura della cupola della vicina Chiesa della Salute del Longhena.?Questo tema si esprime pienamente nella realizzazione della pensilina di accesso all’autorimessa interrata di piazza Matteotti ad Assisi (1993).
Vi è poi una ricerca trasversale, quella della rotazione e dei tagli a 45°, che appartiene a diversi progetti: al Palazzo di Giustizia di Brescia, al quartiere Zen a Palermo, ancora alla sede della ITER (ex Rescoop) a Lugo di Romagna e al centro culturale Garofano Rosso, al complesso per infrastrutture portuali a Ravenna (1978), all’area Scientifico-Tecnologica di Trieste (1982), alla nuova sede della CMC a Ravenna (1985), alle strutture di accoglienza e uffici per l’Ospedale S. Carlo di Potenza (1999). Un’altra costante trasversale è costituita dalla ricerca del modulo, elemento prediletto di una metrica sempre chiaramente espressa.
La complessità nell’unitarietà dell’opera architettonica, qualità che a mio avviso emerge dai progetti contenuti in questo volume, potrà essere pienamente colta nelle pagine che seguono e venire di volta in volta verificata da un riscontro con i tre saggi introduttivi e con queste brevi note.
I testi relativi alle illustrazioni dei singoli progetti sono sintetizzati nelle traduzioni in lingua inglese e pertanto sono stati volti alla terza persona singolare.
Ruggero Lenci
The choice that was made in editing this collection of designs and built projects, carried out over fifty years, was to allow the architecture to speak for itself in a chronological and not thematic sense.
Only at the end of the work did I fully realize that all the planning responses have been formulated with regard to particular compositional themes. Among these, in my view, there stands out the organic neo-plastic relationship that the project creates between the internal and external space of the building.
Whilst the courtyard building was fought against by the author in his works and articles in favour of an articulated composition, its place was taken up by an incessant search for a central space which was however never to become a yard.
This problem is tackled in the project for the Social Centre in Rimini (1958), where the volumes are structured centrifugally around a double level of the space. This is carried even further in the project for the ITER building (ex Rescoop) at Lugo di Romagna (1974) where a composition of orthogonal and prismatic volumes is created around triple central levels. In the first project for the ‘Garofano Rosso’ Social Centre (1978) the central space did not simply consist of two interconnecting levels, but took on a specific function in the form of a cavea for 800 people, completely open to the rest of the building, so as to form a fluid overall design.
Another important subject is the articulation of volumes seen as metaphysical objects: monolithic masses which form the building like huge dolmens. The project for the Law Courts in Brindisi (1957) is built on these principles, not unlike the Tête Défense (1983) in which planimetric orthogonality and volumetric compactness are sacrificed in the interest of a centrifugal expansion of the whole construction, to harmonize with the surrounding buildings.
The concern for a twin structure, often with enormous partitions, is a recurrent feature in the projects for the Law Courts in Lecce (1961), Brescia (1964) and Naples (1971), as well as in the project for the car-park on the island of Tronchetto in Venice (1983).
The entrance buildings for the District Penitentiary of Spoleto (1970) and Leghorn (1974) are notable for their articulated composition of a single architectural whole, through a meeting between a volume of triangular or curved horizontal extension, from which a many-sided tower rises with 45° angles of varying profundity.
In the project for a residential building in the Guasco S. Pietro district of Ancona there is a plastic effect, as if the architect were a sculptor chipping away at the stone, reducing the original monolithic volume like a rock worn away by water.
One can observe a recurrent interest also in the subject of glass-worked barrel vaults.
In the competition project for La Bastille Opera House (1983) the result was a series of cascades contained between the teeth of a gigantic ‘comb’. In the one for the completion of the Guggenheim Ca’ Venier dei Leoni Museum in Venice (1985) a new roof was created consisting of two half-barrel vaults which harmonized with the curve of the dome of Longhena’s Chiesa della Salute nearby. It achieved fullest expression in the creation of the arched shelter-roof of the access to the underground car-park in Piazza Matteotti, Assisi (1993).
There is also a constant interest in transversal effects through rotation and 45° angles. This can be seen in various projects, including: the Law Courts of Brescia, the Zen low income housing development in Palermo, ITER (ex-Rescoop) building at Lugo di Romagna, the ‘Garofano Rosso’ cultural centre, the complex for the port infrastructures in Ravenna (1985), Trieste’s Scientific and Technological area (1982), the new CMC building in Ravenna (1985), and the reception buildings and offices of the San Carlo Hospital in Potenza (1999). Another constant feature of these transverses is the use of modules, always clearly visible to give syntactic emphasis to the structural progression of the projects.
The complexity-in-unity of the architectural works edited in this volume are evident in the following pages and can be verified by matching them up with the three introductory essays and with these brief notes.
The English translation of the texts relating to the projects is a summary of the principal architectural features that can be found in them. For this reason it has been written in the third person singular.
Lucio Valerio Barbera
All’inizio del nuovo secolo un’intera generazione di architetti italiani si congeda. È la generazione degli architetti della Ricostruzione (la maiuscola era un obbligo di retorica patria negli anni del secondo dopoguerra) cui la precedente generazione di professionisti e di docenti biograficamente, se non ideologicamente, intrinseci al periodo fascista, cedette il passo senza troppa resistenza, con quel misto di opportunismo e lucidità che ha permesso finora al nostro paese, sempre sull’orlo di una annunciata dissoluzione, di sopravvivere in una sostanziale continuità delle proprie classi dirigenti.
A chi, come me, si iscrisse alla Facoltà di architettura di Roma a metà degli anni cinquanta del secolo scorso, cioè dieci anni dopo la fine della guerra, il passaggio generazionale era rappresentato con chiarezza plastica, quasi sorprendente, dalla struttura del corpo docente: i professori ordinari – pochissimi, sette o otto – appartenevano tutti alla generazione che aveva vissuto, con maggiore o minore onore architettonico (e morale, si diceva allora) l’era del duce. Ma gli assistenti, i loro stessi assistenti, costituivano la schiera vivace, agguerrita, modernista, ideologicamente impegnata che rappresentava il paese nuovo, democratico, percorso da una diffusa fiducia nei valori del socialismo (nella vastissima gamma che andava da quello cristiano a quello staliniano) e da una ottimistica, volontaristica aspirazione all’integrazione con una civiltà internazionale, fosse essa quella dell’Ovest o quella dell’Est.
Fuori della nostra facoltà tre o quattro personaggi appena più anziani, di cui imparai presto a conoscere il peso culturale, costituivano la vera cerniera tra le due generazioni: Quaroni, Ridolfi, Samonà, Zevi erano i veri maieuti della giovane schiera. Con il loro diverso, ma egualmente deciso antirazionalismo, con la loro conoscenza critica delle regole accademiche nelle quali erano stati formati durante il passato regime, con la loro attenzione, comunque professata, per i valori formali, simbolici, espressivi, popolari dell’architettura, con il loro spiccato individualismo, malgré eux mêmes e malgrado le feroci polemiche con la generazione precedente, sembravano invece, a noi giovanissimi, quasi delegati da quella generazione alla formazione dei nuovi architetti e all’assoluzione, nei fatti e nel tempo – i frutti si videro negli anni settanta – delle posizioni antirazionaliste degli architetti del Regime.
Sergio Lenci spiccava nell’élite della schiera modernista, giovane assistente del Corso di Elementi di Composizione, già professionista di una certa importanza, certamente uno dei modelli emergenti di nuovo architetto colto e impegnato che la facoltà ci proponeva, certamente più solo degli altri; il più razionalista, si diceva tra noi studenti quando, all’inizio dell’anno accademico, ci scambiavamo informazioni sugli assistenti. E volevamo forse dire: il più rigoroso, il più difficile, quello che non si fa incantare da una piccola delizia formale (alcuni di noi già ne erano capaci: Pierluisi, Anselmi…) e che, soprattutto, non accetta progetti à la manière de. Questo era il punto; non progettare à la manière de per noi studenti era la cosa più difficile. Allora, come adesso, al terzo anno si era già eletto un Grande o uno Stile come modello generale (ai miei tempi il Neorealismo era già tramontato; Aalto fu la palestra iniziatica di tutti. Poi Anselmi, in un memorabile progetto di palazzina romana, trasse in campo il Le Corbusier scultoreo di Chandigarh che si stemperò, nei meno bravi, nell’adesione al brutalismo anglosassone. Kahn venne un po’ più tardi (ero ormai quasi laureato). Con Sergio Lenci – lo si capiva al volo – si doveva giocare senza appigli, pressati alla realtà dei contenuti del progetto, nel tirocinio di una faticosa, disperante ricerca della nostra capacità, della autenticità del tema, della nostra stessa autenticità.
In questo – lo capii dopo – il meno quaroniano degli architetti romani, Sergio Lenci, appunto, applicava autonomamente ai suoi allievi il terribile metodo quaroniano, che faceva dell’esperienza progettuale la decisiva esperienza di sé, l’iniziazione attraverso l’abbandono di ogni certezza esteriore, la riduzione della nostra realtà alla sua essenza critica, la scoperta, infine, del potere creativo di quella essenza o la rivelazione della nostra ineludibile sterilità. Ma in Quaroni un grande gioco di tentazioni corteggiava la linea portante del pensiero architettonico; egli forniva ai suoi allievi, e a se stesso, assieme alle durezze del metodo maieutico il piacere di una irrequietezza intellettuale irrefrenabile, di una curiosità avida e creativa, di una ansiosa duttilità stilistica, di una apparente disponibilità ideologica. In Lenci nessun gioco accattivante corteggia il suo metodo progettuale; e la sua vita.
Sergio Lenci, come molti architetti della sua generazione, ha costruito, sin dall’inizio e finché è durata la lunga spinta della Ricostruzione, molto di ciò che ha progettato. Era ciò a cui egli e i suoi coetanei erano stati preparati per mezzo di una formazione attenta all’essenza costruttiva dell’architettura, realisticamente ancorata alle condizioni della produzione edilizia nel nostro paese che, nel dopoguerra, non era certo l’ultima in Europa. Tuttavia in Lenci la visione concreta del progetto non è soltanto naturale adesione alla implicita morale della realizzabilità che accomuna tutti, o quasi, gli architetti suoi coetanei; essa è concezione integrale dell’architettura, capace di attrarre in sé tutti i termini del processo di progettazione, dallo studio del contesto all’ideazione spaziale e linguistica. Quando egli scrive o parla dei suoi progetti tutto si fa piano, naturale, semplicemente funzionale ad un obiettivo; le scelte morfologiche sono sempre frutto di riflessione sulle esigenze degli abitanti; le scelte geometriche, anche le più complesse ed estroverse, sono il risultato di considerazioni sulla percezione dello spazio interno ed esterno; la forma di un quartiere è sempre dettata da idee di percorribilità, di vivibilità, di varietà tipologica. La tipologia stessa, strumento ordinatore fondamentale dell’architettura italiana contemporanea, per Sergio Lenci torna a far parte del novero degli strumenti concreti, catalogo di soluzioni possibili e non certo legge costituitiva del progetto. Il suo modo di pensare l’architettura non si fa teoria, ma comportamento – spogliato di ogni barbaglio ideologico – profondamente consapevole delle responsabilità del progettista. Senza dubbio, nel nostro paese, specie negli ultimi decenni, si è formata, quasi come autonoma attività degli architetti, un’estetica dell’ideologia architettonica, ricca di grazie intellettuali; Sergio Lenci sembra sempre impegnato, nei suoi progetti, nella sua didattica, a rivelare, invece, la natura a-ideologica, prammatica, ardua, del fare architettura. In questo senso, per adoperare un termine caro a Manfredo Tafuri, anche di lui può dirsi che è un antigrazioso, dunque un moralista.
Non è per caso o per comodità letteraria, quindi, che l’opera architettonica di Sergio Lenci sia presentata come un racconto autobiografico; è il racconto di una vita complessa, come quella di tutti, con un nocciolo drammatico come quello di nessuno. Un nocciolo, mai direttamente espresso, rispetto al quale, senza dubbio, Sergio Lenci ha misurato e misura ogni giorno le sue scelte, i suoi comportamenti, la sua morale; dunque, la sua architettura.
Egli ci dice, nell’introduzione, di non poter valutare se la sua produzione sarà considerata "significativa rispetto ai grandi temi del nostro secolo": è una confessione e una domanda, che riguarda soltanto apparentemente la sua architettura, ma che coinvolge la sua intera vita. Il lettore, il giovane architetto, il critico daranno ciascuno la propria risposta, il tempo le livellerà; per quello che mi riguarda mi commuove imparare da lui a fare poesia senza parlarne mai, ma rendendola palese con ritegno e intensità come nei tagli quasi espressionisti del progetto a Lugo di Romagna o nella piccola casa di Majolo, nel Montefeltro. Ma soprattutto sono certo che nessuno come Sergio Lenci abbia dimostrato, nel nostro tempo, la necessità di una visione unitaria e forte e alta e laica della nostra vita e della nostra professione, di architetti e di docenti, fino in fondo. Non per sopravvivere, ma per vivere, per vivere davvero.
Lucio Valerio Barbera
At the start of a new century a whole generation of Italian architects takes its leave, the generation of the post-war Reconstruction period, the capital letter being de rigueur for the mood of rhetorical patriotism at that time. The previous generation of professionals and university teachers had been bound up with the Fascist period, biographically if not ideologically, and now they made way for their successors without too much resistance. Our country seems forever on the verge of dissolution, and if it has managed to survive, maintaining some sort of continuity in its ruling class, it is due to precisely this mixture of opportunism and lucidity.
To those like me who enrolled in the Faculty of Architecture at Rome in the mid-fifties, ten years after the end of the war, this transition from one generation to another was almost surprisingly clear in the hierarchy of the lecturers. The full professors, no more than seven or eight, all belonged to the generation who had lived through the era of Mussolini, with greater or lesser architectural (and, some would add, moral) honour. But the assistants, their own assistants, lively, well-trained, modernist and committed, represented what was new and democratic in the country, where there was a widespread faith in the values of socialism (in all its infinite varieties ranging from Christian to Stalinist), and an optimistic, single-minded aspiration towards integration in an international community, whether of East or West.
Outside our faculty, three or four slightly older men, whose cultural weight I soon recognized, were the real point of contact between the two generations: Quaroni, Ridolfi, Samonà and Zevi were the real widwives of this group. With their different but equally decided anti-rationalism, with their critical sense of the academic rules which had formed them during the Regime, with their professed interest in the formal, symbolic, expressive and popular values of architecture, and with their marked individualism, despite themselves and despite their furious controversies with the preceding generation, they seemed to those of us who were just starting as if they had been delegated by that generation for the formation of new architects and for the absolution of the anti-rationalist positions of the architects of the Regime. The fruits of this became apparent, with the passage of time, in the seventies.
Sergio Lenci stood out in the élite of the modernist group. He was a young assistant in the course on Elements of Composition, and was already a professional of some importance, certainly one of the emerging models of cultivated and committed architects that the faculty offered, and certainly more solitary than the others. We students regarded him as the most rationalist of them when we exchanged information on the assistants at the beginning of the academic year. And perhaps we meant, the most rigorous, the most difficult, the one who did not allow himself to fall under the spell of some delightful form (some of us did already: Pierluisi, Anselmi...) and who, above all, did not accept designs in the style of... This was the point; not designing in the style of was the hardest thing of all for us students. Then as now, in the third year a Great Man or a Style had already been chosen as one’s general model (in my day Neorealism had already had its day; Aalto was the initiatory gymnasium for everybody. Then Anselmi, in a memorable design for a palazzina in Rome, made use of Le Corbusier’s sculptural style for Chandigarh, which in less skilful hands, became diluted in loyalty to Anglo-Saxon brutalism. Kahn came a little later, I had almost graduated by that time). It was immediately clear that with Sergio Lenci there was no clinging to pre-existing models in this way; the only reality which demanded our loyalty was the contents of the design, in an exhausting apprenticeship of desperate searching for our ability, for the authenticity of the subject and for our own authenticity.
In this respect, as I realised later, it was Sergio Lenci, the least Quaronian of the Roman architects, who applied in his own way the terrible Quaronian method to his pupils, making of the design stage a way of coming to terms with oneself, an act of initiation which meant abandoning all external certainties, reducing oneself to one’s critical essence, discovering either the creative power of that essence or one’s inescapable sterility. But in Quaroni the main line of his architectural thought was courted by all manner of other temptations. Together with the severity of his maieutic method, he gave his pupils, and himself, the pleasure of an irresistible intellectual restlessness, an avid and creative curiosity, an anxious stylistic suppleness, and an apparent ideological open-mindedness. In Lenci no winning charms court his design method, or his life.
Sergio Lenci, like many architects of his generation, from the beginning and for as long as the Reconstruction maintained its impetus, built much of what he designed. He and his contemporaries had been prepared for this by a training which had focused on the constructive essence of architecture, realistically anchored in its conditions in our country, and which in the postwar period was certainly not last in Europe. Nevertheless, in Lenci his concrete vision of a project is more than a natural fidelity to the implicit morality of the feasible which unites almost all the architects of his generation; it is an integrated concept of architecture, able to attract to itself all the terms of the design process, from study of the context to the spacial and linguistic conception. When he writes or talks about his projects, everything seems calm, natural and simply functional to an objective; the stylistic choices are always the result of reflection on the needs of the inhabitants; even the most complex and extrovert geometric choices are the result of reflection on how we perceive internal and external space; the form of a housing urban district is always dictated by questions of whether it is practical, liveable, and varied in its typologies. Even typology, which is a fundamental organizing principle of contemporary Italian architecture, in the hands of Sergio Lenci is just one of the concrete instruments available, a source of possible solutions, but certainly not an ultimate law for the project. His understanding of architecture is a matter of behaviour rather than theory, behaviour stripped of any ideological glitter, and profoundly aware of the responsibility of the designer. It is clear that in the last decades there has developed an extremely attractive aesthetic of architectural ideology, which has become almost an autonomous activity in its own right for architects. By contrast, Sergio Lenci always seems, both in his projects and in his teaching, to be interested in revealing the unideological, pragmatic and arduous nature of the practical activity of the architect. In this sense, to adopt a term dear to Manfredo Tafuri, it can be said of him too that he is anti-charm, and thus a moralist.
It is neither chance nor literary convenience, then, that makes the work of Sergio Lenci seem like a piece of autobiography. It is the account of a complex life, like everybody’s, with a drama at its core like nobody else’s. This core is never directly expressed, but without a doubt it has conditioned the choices he has made every day, his behaviour, his morality, and thus his architecture. In his introduction he says that he is unable to ‘evaluate any possible importance [his work] may have in relation to the main subjects for architecture in our century’: it is a confession and a question, which only apparently concerns his architecture, but which involves his whole life. The reader, the young architect and the critic, each will give his own answer, and time will level them down. As far as I am concerned what moves me in his work is the lesson it gives us of how to create poetry without ever talking about it, but making it evident with restraint and intensity, as in the almost expressionist angles of the design at Lugo in Romagna, or in the little house at Majolo near Montefeltro. But above all I am certain that no one else in our time has shown right through to the end like Sergio Lenci the need for a unified, strong, lofty and secular vision of our life and our profession, as architects and teachers. Not just so as to survive, but to live, in the fullest and truest sense of the term.
Marcello Rebecchini
Le mie preferenze letterarie sono andate da sempre a quegli scrittori che, più che pensare ai risultati stilistici e formali delle loro opere, si propongono di svelare se stessi agli altri, di esternare senza reticenze quei sentimenti profondi formatisi nel tempo, nello studio, nella meditazione e fondamentalmente nella natura intima del proprio io. Senza filtri eccessivi e senza apparire quel che non sono, nel bene e nel male.
Quando Rousseau inizia le sue “Confessioni” con l’impegno divenuto famoso: “Voglio mostrare ai miei simili un uomo nella nuda verità della sua natura; e quest’uomo sarò io.” non ha intendimenti letterari, non si preoccupa dello stile, non ha altra preoccupazione che quella di dire la verità.
Nei “Ricordi di egotismo” Stendhal compie un’operazione analoga, nel convincimento che solo dal profondo del proprio io possa emergere, senza infingimenti o ricerca di effetti, ciò che vale la pena trasmettere ad altri.
Tali e simili considerazioni mi vengono alla mente per associazione di idee sfogliando questa bella ed esauriente raccolta delle opere di Sergio Lenci, da cui traggo subito la netta sensazione che l’autore con il suo lavoro di architetto metta a nudo le sue idee, il suo modo di pensare, in una parola, la sua persona. Senza finzioni, con naturalezza.
Ciò non è usuale nel panorama dell’architettura contemporanea. Vi sono architetti famosi che come “persone” risultano indecifrabili, pur raggiungendo risultati formali di prima grandezza. Si nascondono, appunto, dietro una “cifra” che maschera il proprio io, lo rende come l’autore vuole che sia, lo cristallizza in un canone riproposto a forza nei temi e nei luoghi più disparati, facendogli perdere la possibilità di aderire alle cose, in pratica falsificandolo.
Mettersi a nudo non è cosa facile, né tanto meno foriera di successi in un panorama come quello attuale dell’architettura, dominato dall’immagine e dalla riconoscibilità della firma. Mentre esibirsi con la maschera mette al sicuro dal rischio di calarsi troppo addentro nella realtà, di immedesimarsi troppo nelle cose, e quindi di mostrare lo sforzo che un coinvolgimento profondo immancabilmente comporta. I nostri divi dell’architettura lo sanno bene e preferiscono recitare in maschera.
Il giudizio che mi sento di esprimere di primo acchito sull’opera di Sergio Lenci è quello di una assenza completa di finzione, di espedienti formali, di adeguamento alle mode, di uso di filtri di omogeneizzazione del proprio linguaggio. Tutto ciò è, in sintesi, rifiuto di ogni formalismo di maniera.
Per procedere nel giudizio critico mi sembra opportuno soffermarmi subito su un altro aspetto. Vorrei puntare il dito su quel coacervo disparato di elementi e condizionamenti che sinteticamente Lenci chiama “contenuto” e che oggi suona per molti come vecchio e stantio. Contenuto si contrappone a forma, ma non esiste senza una forma, anche se può esistere una forma senza contenuto.
Nello scritto introduttivo Lenci afferma una cosa che da sola spiega l’origine del suo progettare: “Prima di tutto cercavo risposte autentiche ai problemi. Una sorta di verità celata nel tema che all’architetto è richiesto di svelare”. Non vuole inventare forme dal nulla o riproporre incessantemente quelle che ha adottato o sperimentato in precedenza, ma cerca di trarle dalle cose, senza scorciatoie di comodo, con pazienza da certosino, tirando un filo alla volta per districare la matassa ingrovigliata della realtà.
Il lavoro sui contenuti, badate bene, non implica disinteresse alla forma, tutt’altro; significa solo priorità temporale degli uni sull’altra; significa far emergere la forma dall’essenza e dalla natura dei contenuti, senza forzature o, peggio ancora, violenza; nel convincimento che l’architetto non ha bisogno di imporre la sua presenza digrignando i denti e battendo i pugni sul tavolo, ma solo favorendo con i mezzi a sua disposizione, espressivi e tecnici, il lento processo di formazione, con disponibilità, con naturalezza.
La cosa strana, e per certi aspetti incomprensibile, è che quanto più l‘architetto sembra farsi da parte, sembra relegare il suo ruolo a quello di semplice mediatore di un processo che mostra – ma non è così – di svolgersi spontaneamente, tanto più trapela nella forma conclusa la sua presenza, la sua “forma”, quella più vera e recondita: non la sua “cifra”, ma la sua personalità più autentica.
Mi sia concesso ancora, per restare in considerazioni generali, esprimere un terzo carattere dell’opera di Lenci – oltre quelli della sincerità espressiva e dell’aderenza ai contenuti – che completa i primi due e ne costituisce una naturale conclusione. Ed è il carattere della comunicabilità. Lenci vuole comunicare agli altri – ovviamente prima di tutto agli utenti – le sue idee ed i suoi convincimenti senza imporli con la forza, tenendo nel massimo conto il gradimento di coloro che delle sue opere faranno esperienza, direttamente come fruitori o come semplici e casuali osservatori. Non vuol meravigliare, vuole solo convincere e per far ciò usa i mezzi più propri dell’architettura, quelli spaziali.
“Le forme sviluppate nei miei progetti – afferma l’autore – hanno seguito sempre l’idea del complesso e del composito e sono state pensate per invitare a girare attorno ad esse. Per questo è presente l’uso frequente di tagli volumetrici a 45°, il distacco tra le componenti dell’edificio, la rotazione dei corpi di fabbrica attorno ad un centro che organizza uno spazio interno basato sulle variazioni delle altezze e sull’illuminazione naturale degli ambienti”. Lenci non ama le quinte che sanno di scenografia e di spettacolo, non indulge ad operazioni intellettuali di scissione di piani e superfici, conserva il volume come valore primario dell’architettura, ma anche come simbolo tradizionale di protezione e sicurezza, gradito ai suoi utenti e ben radicato nelle loro aspettative.
Ma andiamo per ordine e, lasciando considerazioni di carattere generale, inoltriamoci nello specifico che questa pubblicazione ci presenta.
È fuor di dubbio che l’esperienza del Tiburtino ha lasciato un’impronta indelebile nell’architetto poco più che ventenne. Il giovane disegnatore – così si definisce con eccessiva modestia – assorbe, a contatto con i suoi maestri Ridolfi e Quaroni, quell’atmosfera intimistica ed antirazionalistica che pervade il progetto del nuovo quartiere. È atmosfera postbellica che rifiuta le grandi idee provenienti dal nord per trovare sicurezza nel “piccolo è bello” di marca italica. Lenci di questa esperienza parla senza enfasi, coglie l’intento apprezzabile di creare un luogo gradito ai suoi utenti, non troppo diverso da quello delle loro origini, ma non può fare a meno – come fece lo stesso Quaroni – di percepire un vago sentore di finzione, il senso di un ripiegamento su se stessi, di rifiuto ad affrontare la realtà nuova.
Da questa esperienza ne esce, a mio avviso, con due convincimenti: quello che il fine vero dell’architettura è di far vivere nel miglior modo possibile la gente e quello che comunque il puro razionalismo non è idoneo a raggiungere questo scopo. Guarda verso altri lidi, verso la Scandinavia, ove un sano empirismo evita atteggiamenti perentori e, più che altro, sofferma l’attenzione sul rispetto civile di persone e luoghi.
Nasce un modo di fare empirico e pluralistico che caratterizzerà sempre le sue architetture ed in particolare quelle di edilizia popolare, da S. Giovanni a Teduccio a Spine Bianche di Matera, da Secondigliano ad Agrigento.
Il neo-realismo del Tiburtino diviene maturo, abbandona il folclore per un’architettura più controllata che non dimentica il suo fine primario, ma usa altri mezzi per raggiungerlo. A Matera entra in contrasto con i compagni dell’esperienza del Tiburtino. Non si lascia convincere dall’immagine romantica ed ammiccante dei Sassi, visita le abitazioni, mette la mano incredulo nelle fessure della roccia che grondano acqua, inorridisce di fronte a tanta umidità e a tanta miseria. Pensa ad una architettura civile che usi materiali e tipi del luogo, ma, sopra ogni cosa, rifiuti ideologie, forme non controllate dall’uso, snobismi formali da imporre alla povera gente che chiede solo funzionalità e durata.
Un’altra esperienza importante fu per Lenci il progetto del carcere di Rebibbia. Di fronte ad un tema così arduo lo spirito non muta, è ancora quello solido e contenutistico dell’edilizia popolare, con maggiori ostacoli da superare, rappresentati da una tradizione tipologica dell’edilizia penitenziaria triste e repressiva. Lenci si batte per una vita più umana all’interno del carcere e raggiunge lo scopo con l’adozione di una tipologia di stampo alberghiero, con camere servite da un corridoio centrale, e con la frantumazione dei corpi di fabbrica. Ne verrà ricompensato, per dirlo brutalmente, con una pallottola nella nuca: perché migliori condizioni carcerarie – fu la motivazione dell’attentato – allontanano la rivoluzione, secondo l’aberrante visione di una ideologia perversa.
Con pazienza ed amore Lenci persegue il suo scopo in un tema così difficile e vincolato come quello penitenziario, senza la pretesa di imporre un suo linguaggio, di lasciare la sua firma. Anzi con sorprendente modestia ricerca tra i grandi modelli quelli che più si confanno al tema: “Parlando della scelta di linguaggio che allora feci per Rebibbia ricordo che cercai di coniugare tre metodi di disegnare architettura, uno era quello semplice dell’architettura danese (ero stato in quegli anni in Danimarca), un altro era quello di Alvar Aalto ed il terzo quello di Le Corbusier”. In realtà, forse a sua insaputa, quell’architettura mostra di essere tutta e sola di Lenci, a conferma di quanto dicevo all’inizio del mio scritto. Quanta differenza con i divi attuali dell’architettura!
Nei primi anni sessanta particolarmente interessante mi sembra l’esperienza del Palazzo di Giustizia di Lecce, che Lenci eseguì con Caniggia, Ligini e Barletti. Esperienza che dimostra ancora una volta il metodo empirico e sperimentale dell’autore, messo a dura prova dalle opposte “scuole” di appartenenza e “credo” culturali di Caniggia e Ligini.
Il contrasto ideologico che sorge tra la proposta di architettura muratoriana avanzata da Caniggia e quella fondata sul purismo razionalista propugnato da Ligini viene brillantemente superato dalla proposta di Lenci che rifiuta ambedue le matrici, per ripartire dai contenuti e trarre da questi un linguaggio quanto mai schietto e moderno, lontano sia da nostalgiche reminiscenze del passato sia da esaltate formule di stampo modernista. Ne verrà fuori un bell’edificio in cui si sperimenta l’uso generalizzato del cemento a faccia vista e le sue tecniche di prefabbricazione.
Gli anni ‘60 segnano un periodo di intensa sperimentazione, sia a carattere linguistico che tipologico e strutturale. Ne sono prova i progetti di due ospedali, il S. Carlo di Potenza iniziato nel 1967 ed il Nuovo Ospedale di Pietralata del 1968.
L’esigenza fortemente sentita di frammentare i corpi di degenza per renderli più umani e graditi ai fruitori suggerisce nel primo uno schema a padiglioni a corona circolare disposti lungo un pendio e nel secondo uno schema a sviluppo orizzontale, sulla scia dell’esperienza lecorbuseriana di Venezia. Lenci, quando può, evita di usare tipi predeterminati, perché vuole essere libero di percorrere tutto intero il percorso inventivo a partire dal tema, dalla configurazione dei luoghi, dai suggerimenti del contesto, per approdare ad una forma autentica, non ripetitiva, non filtrata dall’indeterminatezza del tipo.
Del decennio ‘70-’80 vorrei segnalare due edifici: la Casa Circondariale di Livorno, 1974-77 e l’edificio residenziale nel rione Guasco S. Pietro ad Ancona, 1975. Ambedue molto diversi per destinazione e tipologia, edifici complessi, fortemente plastici, caratterizzati da aggetti potenti e da arretramenti altrettanto sentiti, con segni forti che dialogano con il contesto all’intorno. Il volume non è mai statico, rinascimentale. Tende a frammentarsi in superfici, ma ritrova unitarietà in inviluppi geometricamente precisi, come quelli della grande curva in pianta e della torre in elevazione nella Casa Circondariale e dell’involucro a copertura inclinata nell’edificio residenziale. Nell’architettura di Lenci spesso ricorre una vena espressionista appena percettibile, intesa a ridare vitalità ed impulso ad una architettura che non vuole ricadere nei canoni statici e monumentalistici delle tendenze di moda al momento.
Le architetture dell’ultimo periodo, anni ‘80 e ‘90, sono caratterizzate da una grande varietà dei temi affrontati e da una loro maggiore dimensione, molto spesso di livello urbano o territoriale. Mentre la produzione del primo periodo è destinata prevalentemente a temi sociali come l’ospedale, il carcere, la scuola, quella del secondo sembra concentrarsi sui nodi infrastrutturali, con rilevanti implicazioni urbanistiche.
Sicuramente di grande interesse è l’enorme parcheggio del Tronchetto a Venezia. Il tema è di quelli, per ubicazione e dimensioni, da “far tremare le vene e i polsi”.
Lenci lo risolve con maestria e, direi, con modestia. Si rende pienamente conto della delicatezza del luogo e non intende raggiungere “effetti speciali” in un contesto carico di immagini e di storia. Ricorre, più del solito, a formalizzare con semplicità ed immediatezza i contenuti che derivano dal tema, funzionali, strutturali e tecnologici. Rinuncia questa volta al volume e si affida al ritmo della sequenza strutturale, con una scelta in tono con l’architettura gotica veneziana, valorizzando con sobrietà le occasioni offerte dal condizionamento delle grandi luci e dall’uso dei materiali.
Non abbiamo finora parlato dell’uso che Lenci fa della tecnica, o meglio della tecnologia. Forse perché in questa rassegna delle sue opere si sorvola sull’argomento, si dà per scontato e non vi si punta il dito. Ma tutto ciò non è casuale. Nelle opere di Lenci la tecnica non è mai esibita, si intravede e come, ma non si mostra e spesso si nasconde per riaffermare il suo ruolo di strumento e non di fine. In una sintesi felicemente raggiunta non c’è alcun bisogno di mostrare esplicitamente i componenti e le loro connessioni, come nell’arte culinaria più raffinata il palato non deve distinguere il sapore dei singoli ingredienti ma essere appagato dal gusto dell’insieme.
A conclusione di questa breve rassegna forse è d’obbligo, e nel tempo stesso quanto mai indicativo, un confronto tra l’architettura di Sergio Lenci e quella emergente della “postmodernità”. E penso alle tendenze decostruttiviste, spettacolari, scenografiche e pubblicitarie dell’architettura contemporanea.
Il confronto è in questo caso facile e riconducibile a poche parole: l’una è, a mio avviso, l’opposto dell’altra. Non so se e quanto questo giudizio, così perentorio, sia lusinghiero per l’autore o possa essere considerato tale dai lettori del mio scritto. Tant’è. Le due architetture – se mi è permesso confrontare un’architettura concreta e ben definita di un singolo autore con una tendenza variegata, non perfettamente definibile, di molti autori – poggiano su premesse diametralmente opposte. Come Lenci ricerca la verità nelle situazioni da affrontare, la soluzione dei problemi più idonea ed aderente alla realtà ed infine gli strumenti espressivi e linguistici più chiari per comunicare ciò che pensa, così la “postmodernità” nega che esista una verità, propone soluzioni dettate da finalità solo esteriori o di immagine, rifiuta di comunicare alcunché negando ogni significato all’architettura.
Siamo su due fronti diversi, di completa incomprensione reciproca. Vorrei solo azzardare un pronostico sul futuro, dettato dall’esperienza del passato. Ho assistito, purtroppo per solo merito dell’età, al nascere e morire di mode e tendenze diverse, al fascino di alcune non sono stato insensibile. Ma con pragmatismo ingegneresco e con una punta di malignità ho voluto poi toccare con mano la sorte che il tempo riservava ai prodotti concreti delle tendenze più applaudite ed osannate. Mi sono accorto che la forma resiste al tempo solo se sorretta dai suoi contenuti; anche se, e questo potrà sembrare strano, i contenuti sono quelli di allora, oggi spesso superati e non più validi. Non importa. L’architettura resiste come se la sintesi tra forma e vita una volta raggiunta non tema cedimenti e, dirò di più, sia disponibile ad intraprendere nuovi cicli funzionali.
Penso a quanto sia falsa l’obiezione di coloro che, per sostenere la priorità della forma sui contenuti ed il suo valore in sé, portano a riprova la sua disponibilità a più contenuti, senza accorgersi di dire una cosa vera per dimostrare un assunto falso.
Su un fronte, quello che Lenci ben rappresenta, troviamo una sintesi faticosa e sofferta, ove la forma si è piegata alle intime esigenze dei contenuti senza rinunciare alle sue connotazioni caratteristiche, ma anche senza indulgere ad astrazioni o formalismi; sull’altro, quello di molte tendenze della contemporaneità, una volontà di forma – in molti casi di puro informale, ma il discorso è identico – che giudica inutile o troppo faticoso o poco gratificante tener conto dei contenuti per assorbirli e soddisfarli. Li lascia fuori con sufficienza.
Nel primo caso espressione di vita, nel secondo simulacro di architettura.
Marcello Rebecchini
I have always had a particular fondness for those writers who are less interested in formal and stylistic considerations in their work, than in revealing themselves as they are to their readers, for better or worse; who display the most intimate secrets of themselves, their thoughts and feelings, their innermost nature, without filters, and without trying to pretend they are something they aren’t.
When Rousseau begins his Confessions with his famous promise, ‘I want to show my fellow-men a man in all the naked integrity of his nature, and that man shall be myself’, he has no literary impediments, he is not bothered about style, and his only concern is to tell the truth.
Stendhal does something similar in his Souvenirs d’egotisme. There is no pretence or attempt to impress; just the conviction that only from the depths of one’s self can there emerge something worth passing on to one’s fellow-men.
Thoughts of this kind come to mind as I turn the pages of this excellent and exhaustive collection of the works of Sergio Lenci. They give the strong impression that in his work as an architect the author sets before us, clearly and completely, his ideas, his way of thinking, in a word, himself. Without pretence and with absolute naturalness.
This is not at all common in the world of contemporary architecture. There are famous architects who remain incomprehensible as people, even though their work is of the greatest importance. That is because they hide themselves behind a stylistic mannerism which masks their identity, making it what they want it to be. The mannerism then crystallizes the identity in canons forcibly imposed on the most disparate themes and places, making it impossible for the self to make contact with the world of things, falsifying itself.
Showing oneself as one is, is not easy. Still less is it the path to success in a field like that of contemporary architecture, dominated by image and the recognizability of a signature. Those who display themselves in a mask, by contrast, are safe from the risk of too close contact with reality, of identifying themselves too much with the world, and thus of showing the effort which serious involvement inevitably brings with it. The big stars of architecture are well aware of this, and prefer to act in a mask.
The work of Sergio Lenci is immediately striking for its complete lack of pretence, formal expedients, bowing to fashion, or filtering his own language through some homogenized surrogate. In a word, it rejects any kind of affected formalism.
I would also dwell on another aspect: that combination of elements and conditionings which Lenci brings under the heading of ‘content’, a term which sounds old and stale to many today. Content is opposed to form, but there is no content without form, though there can be a form without content.
In his introduction Lenci says something which in itself explains how his projects originated: ‘Above all, I was looking for authentic answers to the problems – a kind of truth concealed in the subject, which the architect has to reveal.’ He has no desire to invent forms out of nothing or offer again and again the forms he has already adopted or tried out, but tries to draw them out of the world, without any convenient short-cuts, and with infinite patience, pulling out one thread at a time, trying to unravel the tangled knot of reality.
Working on content does not – repeat not – mean having no interest in form. On the contrary. It simply means giving the one a temporal precedence over the other. It means making the form emerge from the essential nature of the content, without forcing or violence. His underlying conviction is that the architect has no need to impose his presence by grinding his teeth or banging his fist on the table, but needs only be willing to assist the slow but natural process by which content takes on form by the expressive and technical means he has to hand.
The strange, and in a way incomprehensible, thing is that the more the architect seems to stand to one side and become a simple mediator of a process that seems to happen spontaneously (though it is never that, really), the more his presence seeps through into the finished form, his own ‘form’, which is both more real and more inaccessible, because it is not his ‘style’, but his personality at its most authentic.
To remain at this level of generalization, I would add a third characteristic of Lenci’s work, apart from its sincerity and its devotion to content, one which completes and complements these. It is that of communicability. Lenci wants to communicate his ideas and convictions to others without imposing them by force, always bearing in mind the pleasure of those who will experience his work, most of all those who will use it, but also simple observers and passers-by. He has no wish to astonish, but simply to convince, and, to do that, he uses architecture’s most characteristic means: space.
‘The forms developed in the following projects have always followed the idea of an integrated whole of divergent elements, and were conceived as places which invited the spectator to walk around them. That is why there is a frequent use of 45° angles in volumetric definitions, a separation of the various components of the building, and a rotation of its main elements around a centre which organizes an inner space based on variations of height and the natural illumination of the environment.’ Lenci does not like buildings to look like theatrical sets, but wants a result which can be looked at from various perspectives. He does not indulge in intellectual operations of split levels and surfaces. He preserves volume as the primary value of architecture, but also as a traditional symbol of protection and security, welcome to those who use the buildings, and deeply rooted in their expectations.
Let us take these aspects one at a time, leaving general considerations, and looking at the particular works that this volume presents.
There is no doubt at all that his Tiburtino experience left an indelible impression on the architect, who was hardly out of his twenties at the time. The young draughtsman (as he modestly describes himself) absorbed from his masters, Ridolfi and Quaroni, that intimist, anti-rationalist atmosphere that pervaded the project of the new residential area. It was a post-war mood that rejected the large-scale ideas from the North, to find a sense of security in an Italian style of ‘small is beautiful’. Lenci does not exaggerate the importance of this experience. He is aware of the laudable intention to create a place which would give the reassuring pleasure of familiarity to its inhabitants. Nevertheless, like Quaroni, he cannot help registering a vague sense of there being something unreal in it, as if they had withdrawn into themselves and were refusing to face what was new in the world around them.
This experience, I believe, left him convinced of two things: that the purpose of architecture was to enable people to live as well as possible, and that pure rationalism was not suitable for this end. He looked in other directions: towards Scandinavia, where a healthy empiricism eschewed categorical imperatives, and, above all, insisted on a civilized respect for people and places.
Thus was born an empirical and pluralistic working method which was to characterize all his work, in particular the council-house estates, from San Giovanni a Teduccio to Spine Bianche at Matera, from Secondigliano to Agrigento.
The neo-realism of Tiburtino came of age, leaving behind the picturesque for a more restrained style. Its primary objective was not forgotten, but other means were used to reach it. At Matera he came into conflict with his partners in the Tiburtino project. He refused to be won over by the romantic lure of Sassi, given the state of the dwellings. Incredulously, he put his hand in the cracks in the rocks, dripping with water, horrified at the sight of such humidity and poverty. His thoughts turned to a civilized form of architecture, using materials and forms of the place, but which also, above all, rejected any kind of ideology, forms not authenticated by use, or snobbishly imposed on ordinary people who wanted only something that would function and last.
Another important experience for Lenci was the project of the prison of Rebibbia. It was an arduous task, but he faced it in the same spirit, with the same loyalty to content he had shown in the council estates. The obstacles to overcome were greater: the traditional prison structure was grim and repressive. Lenci fought for a more humane form of existence inside prison, and achieved this by adopting the lay-out of a hotel, with rooms served by a central corridor and the main elements of the building split up. Not to put too fine a point on it, his reward for this was a bullet in the back of the neck. Better prison conditions set back the revolution, that, at any rate, was how the doctrinaire ideologues justifed the attempt on his life.
Lenci pursued his objective patiently and lovingly, in spite of the fact that prison architecture is difficult and gives little scope for individual expression. He made no claim to impose his own language on the subject, or leave his signature on it. On the contrary, with surprising modesty he sought for suitable models among the great masters: ‘As for the choice of language that I made for Rebibbia, I remember trying to combine three design methods. One was the simple one of Danish architecture (I had been in Denmark in that period), another was that of Alvar Aalto, and the third was that of Le Corbusier.’ And yet, perhaps without his realising it, that building reflects wholly and solely the personality of Lenci, which only goes to confirm what I said at the outset of this preface. How different from our present-day architectural prima donnas!
In the early sixties the Law Courts at Lecce seemed to me particularly interesting. Lenci carried out the project with Caniggia, Ligini and Barletti. This experience bore out once again Lenci’s empirical and experimental method, which was severely tested by the opposing ‘schools’ and cultural ‘creeds’ of Caniggia and Ligini.
This ideological conflict between Caniggia’s Muratori-inspired project and Ligini’s rationalist purism was brilliantly resolved by Lenci, who rejected both matrixes. Starting from the content, he arrived at a language both plain and modern, equally distant from nostalgia for the past and modernist fanaticism. The result was a fine building which experimented with the generalized use of exposed concrete and its prefabrication techniques.
The sixties were a period of intense experiment in language, typology and structure. Two of his hospital projects bear witness to this: the San Carlo in Potenza, begun in 1967, and the New Hospital at Pietralata in 1968.
There was a strong need felt to break up the various wards to make them more humane and acceptable to the patients. Consequently, the former has a plan of circular corona pavilions arranged on a slope, and the latter a horizontal development, along the lines of Le Corbusier’s hospital project in Venice. Whenever he can, Lenci avoids using pre-determined types, because he does not want to limit in any way his freedom of invention. He begins from the subject, the configuration of the places, whatever the context suggests, to arrive at a form that is authentic, not repetitive, not filtered by the distorting effect of imposing a type on it.
I would like to mention two buildings from the seventies and eighties: the District Penitentiary at Livorno (1974-77) and the residential construction in the Guasco San Pietro district of Ancona (1975). Both are very different as regards use and typology, both are complex buildings, extremely plastic, characterized by powerful projections and setbacks, with strong effects that set up a dialogue with the surrounding context. The volume is never static in the manner of Renaissance architecture. It tends to be broken up in surfaces, but unity is restored in the geometrically exact masses, like those of the large curve in the floor and the tower in the District Penitentiary and in the slanting shell covering the residential building. In Lenci’s architecture there is often a scarcely perceptible expressionist vein whose aim is to give back vitality and drive to architecture and avoid the static monumental canons of present-day fashion.
The architecture of the most recent period, the eighties and nineties, is characterized by great variety of subject, often large-scale works. While the earlier works concentrated on social subjects such as prisons, schools and hospitals, the later work concentrates on infrastructural projects, with significant implications for town-planning.
The enormous car-park of Tronchetto in Venice is certainly of great interest. Its location and dimensions are enough to make one shiver with delight at the challenge involved. Lenci is both masterly and modest in the way he handles it. Fully aware of the delicacy required, and not wishing to create any ‘special effects’ in a context so full of history and the artistic past, with simplicity and immediacy he formalized more than usual the functional, structural and technological content deriving from the subject. He decided to forgo volume this time and entrust the effect to the rhythm of the structural sequence, in keeping with Venetian Gothic architecture, making sober but effective use of the opportunities offered by the conditioning of light and the use of materials.
So far we have said nothing of Lenci’s use of technique and technology, perhaps because in this review of his work, the subject is barely touched on, but taken for granted. But that is no accident. In Lenci’s work there is no display of technique, only a glimpse, real enough, but no more than a glimpse. Often it is hidden, the better to assert its role as a means not an end. In a successful synthesis there is no need to show explicitly all the components and their interconnections, just as in good cooking the palate should not be able to distinguish the flavours of the individual ingredients, but be satisfied by the taste of the whole.
To conclude this brief review, perhaps it is necessary, and at the same time suggestive, to make a comparison between the architecture of Sergio Lenci and that of the emerging ‘post-modern’ movement. And I am thinking of the deconstructionist, spectacular, theatrical and self-advertising tendencies in contemporary architecture. The comparison is simple in this case and needs few words: they are, in my view, at opposite poles from each other. I have no idea if this high-handed judgement is flattering to the Lenci or might be considered so by my readers. Anyway, that is how I see it. The two styles – if it is possible to compare the actual work of one man with a tendency involving many architects, variegated and not all that definable – are based on diametrically opposed premises. Lenci searches for the truth in the situations he deals with, for a solution to the problems which is most suitable and closest to the state of things, and for the clearest forms of language and expression to communicate what he thinks. The ‘post-moderns’, by contrast, deny that truth exists; they propose solutions dictated by image or external considerations, and they refuse to communicate anything, denying any significance to architecture.
Here we have a great divide, on either side of which there are two mutually uncomprehending sides. I would like merely to risk a prediction for the future, dictated by my experience of the past. If only because of the dubious privilege of age, I have been present at the birth and death of various fashions and trends, and to the fascination of some of them I have not been insensible. But with an engineer’s pragmatism, and a touch of malice, I have wanted to verify the fate which time reserved for the concrete results of the most applauded and acclaimed trends. I have realised that form resists the passing of time only when it is supported by content, even if, and this may seem strange, the content is that of a past period, which today is often no longer valid. No matter. Architecture resists because, once a synthesis between form and life has been achieved, there is no danger of it giving way. On the contrary, it is ready to undertake new functional cycles.
Those who sustain form as a value in itself and its priority over content try to justify their view by referring to how form can lend itself to different contents. They do not realise, but they are saying something true to justify a false assumption.
On the one side, of which Lenci is an excellent representative, we find a synthesis achieved with difficulty and effort, where the form has submitted itself to the intimate requirements of content without giving up its characteristic connotations, and without indulging in abstraction or formalism. On the other side, that of many contemporary trends, we have a desire for form – in many cases absolutely in-formal, but it comes to the same thing – which finds it useless, tiring and unrewarding to take content into account, to absorb and satisfy its demands. It is left out with scorn.
The former is an expression of life, the latter the lifeless shell of architecture.
Sergio Lenci
Questa pubblicazione dei progetti, realizzati e non, e dei disegni che ho prodotto durante circa cinquant’anni, a prescindere dal giudizio di qualità che se ne potrà dare, rappresenta la testimonianza di un modo di operare che ha svelato la rispondenza al cambiamento della società e della cultura. La documentazione che segue rispecchia dunque il mio contributo al dibattito e consiste di progetti realizzati, progetti concorsuali o teorici rimasti sulla carta ma non per questo per me meno importanti, riflessioni e commenti.
I temi dominanti sono costituiti dai Quartieri, dagli Edifici Scolastici, dai Palazzi di Giustizia e dagli Edifici Circondariali ed Ospedalieri.
I quartieri, di iniziativa pubblica, costituivano un formidabile sforzo del Governo per migliorare le condizioni abitative e anche la cultura urbana degli insediati, vecchi e nuovi. Questo sforzo creativo non aveva più riferimenti alla modellistica razionalista del periodo tra le due guerre, considerata astratta e non rispondente alle applicazioni che la società richiedeva. L’edilizia residenziale alla quale si faceva riferimento era quella dei paesi del Nord Europa che avevano al proprio attivo la produzione di modelli e di realizzazioni di città-satellite organizzate in modo da costituire ambienti urbani nuovi, ma non distaccati da lontani riflessi della città antica: il neo-empirismo scandinavo, come fu definito.
Giovani architetti, docenti o professionisti, tutti anti-accademici e politicamente orientati, si avviavano verso quelle direzione, ma con un correttivo: il viraggio verso il “neo-realismo”. Per esempio, le città nuove dell’Agro Pontino, e segnatamente Sabaudia, era come se non fossero mai state costruite. L’architettura Razionalista era sospetta di espressione indiretta del capitalismo. Si cercava l’espressione della democrazia vera, orientata verso il socialismo e oltre. Difficilissimo distacco tra il contenuto e la forma, nella speranza di tenere tutto in pugno: ideologia, tradizione, modernità, transizione dal mondo contadino o da quello delle disperate borgate delle periferie urbane, a condizioni di vita colte, che si evolvono anche per merito del rinnovato e ben disegnato ambiente: neo-empirismo e neo-realismo.
Altra fonte di ispirazione e di studio fu, in quegli anni, l’Architettura Organica di F. L. Wrigth, fatta conoscere da Bruno Zevi nell’immediato dopoguerra. Su di me esercitò un grande fascino ma, nello stesso tempo, mi appariva come un linguaggio difficilmente raggiungibile per la diversità della cultura, dell’essenza dei temi da affrontare, per l’inevitabile dialogo con le straordinarie preesistenze sparse in tutto il territorio, per la diversità della densità di abitanti tra i due paesi e, me ne rendo maggiormente conto ora, per la sua intraducibilità nel quadro delle esigenze del nostro paese, del livello dei committenti (poveri se riferiti a Enti Pubblici per la realizzazione di opere pubbliche) e, viceversa, volgari nella maggior parte dei casi se riferiti a ricchi privati.
Rimaneva la grande lezione sull’importanza dello spazio come oggetto fondamentale della ricerca. Questa ricerca si può compiere su tutti i temi e committenti, ed è il più importante insegnamento che io abbia acquisito e sotto la cui angolazione ho poi letto le architetture di tutti i tempi e ho formulato i miei propositi nel progettare. E’ per questi motivi che le fonti di studio e di ispirazione sono venute anche da quei modelli, sia per me che per gli architetti della mia generazione.
L’inizio della mia attività di architetto avvenne con il Quartiere Tiburtino di Roma. Sono stato citato più volte, insieme ad altri miei coetanei, come uno degli autori del Tiburtino. In realtà noi fummo poco più che dei disegnatori: avemmo il privilegio di assistere alla progettazione di quel Quartiere da parte di Quaroni, Ridolfi, Gorio, Lugli, Valori, Fiorentino ed altri. In quella circostanza speravo di impadronirmi di un sicuro metodo di progettazione, ma pretendevo troppo. Quell’esperienza fu difficile e, sopratutto, non metodica. L’obiettivo era quello di abbandonare ogni riminiscenza di razionalismo per recuperare la spontaneità dell’edilizia minore della Roma seicentesca e settecentesca. Forse, inconsciamente, si voleva esorcizzare un presente rappresentato dalla ragione per sostituirvi una tesi storicistica che confermasse e desse autorità al presente, a quell’epoca, fortemente ideologizzata: la legittimazione dell’ideologia ricorrendo ad interpretazioni della Storia. Ero interessato da questo modo di guardare al progetto, ma mi sembrava molto difficile cogliere la congruità delle scelte e la sequenza delle operazioni.
Altro aspetto che mi interessava molto era, in prima istanza, la possibilità di produrre architettura collettivamente, ed in seconda istanza (se la prima non si fosse dimostrata raggiungibile subito) fare un collage di opere individuali su una trama di obiettivi e di temi comune. Nel caso del Tiburtino, le mie aspettative sulla metodologia progettuale, che credevo di apprendere, andarono deluse. Il progetto urbanistico partì sondando più possibilità, anche diverse fra loro. Quaroni, Fiorentino e Valori erano rivolti ad una fusione degli interventi dei singoli, in prospettiva di una completa unità urbanistico-edilizia. Ridolfi, Gorio e Lugli erano più favorevoli all’assemblaggio di contributi individuali. Infatti, si riconoscono benissimo, nel quartiere, le opere strettamente personali da quelle fatte a più mani. L’etichetta di neo-realismo in architettura fu data molto dopo da critici ideologhi, tesi a guadagnare alla loro causa tutti i possibili prodotti. Ricordo, però, che Quaroni definì subito il quartiere Tiburtino come “Il paese dei barocchi” e non come quello dei contadini inurbati.
Dico questo per spiegare il mio nascente disincanto sulla veridicità delle storie e teorie confezionate ex-post da critici che già sanno ciò che vogliono trovare, spesso con l’adesione di chi ne è stato attore.
Accanto allo studio delle architetture scandinave, vi era l’inevitabile accettazione di un certo pauperismo italiano che proprio da questa accettazione veniva esaltato. Da questo equivoco, e me ne rendo ben conto ora, fu molto difficile liberarsi. Anche, peraltro, l’importantissimo “Manuale dell’Architetto”, nelle parti più propriamente tecnologiche, suggeriva modi del produrre e dell’assemblare di tipo tradizionale e artigianale.
Così, dopo aver maturato le prime esperienze progettuali nella realizzazione dei quartieri di S. Giovanni a Teduccio – Napoli, Spine Bianche – Matera (frutto di concorsi nazionali vinti), la mia personale ricerca si andava chiarendo: la corrispondenza organica di tutti gli elementi con una forma comprensibile, non allusiva a significati secondi né a espressioni di ineffabili atteggiamenti di lotta di classe.
Posso dire che, nel mio lavoro, sono stato sempre teso verso una ricerca del contenuto: il contenuto proprio del tema che, attraverso il progetto, si deve svelare. Individuare i contenuti ed esprimerli in spazi, forme, rapporti con il contesto, materiali, costi. Nell’organizzare la coniugazione dei problemi nel repertorio delle forme e delle priorità sulle quali l’architetto sta elaborando, nei suoi diversi periodi di vita, consiste, secondo la mia esperienza, il progetto.
Questo rappresenta il filo conduttore della mia ricerca. Quanto ho detto dovrebbe essere chiarificatore del mio modo di vedere l’architettura, tuttavia, non esaurisce tutta la problematica con la quale mi sono confrontato: il significato delle forme, la comparazione tra simbolismo, espressionismo, razionalità e romanticismo, classicismo e concettualismo, tutti atteggiamenti da sviscerare, da criticare per comprenderli e fare scelte consapevoli. Esercizio continuo al quale tutti gli architetti sono sottoposti per tutta la vita. Al limite si può dire che tutti i progetti che un architetto elabora nel corso della propria esistenza sono un unico progetto, sperimentato in tutte le direzioni, anche con salti di coerenza.
Per chiarezza debbo dire che la razionalità, sia pure con tutte le libertà possibili e doverose, è stata la base delle mie ricerche. Razionalità, come è ovvio, non significa più, oggi, neo-classicismo in tutte le sue accezioni. Vorrei qui citare quanto diceva l’abate Galiani: “Fisiocratico? Mercantilista?, io non sono niente… sono soltanto perché non si sragioni… non si deve ragionare per teoremi astratti perché si rischia che il teorema vada bene e il problema assai male” (citazione tratta dal libro di G. Ruffolo “Cuori e denari” – ed. Einaudi, 1999). Le sette invarianti del Linguaggio Moderno dell’Architettura formulate da Bruno Zevi, mi trovano d’accordo, ma non tutte: quelle che permettono uno “sragionare” mi sollevano dubbi, anche se so che i dubbi possono capovolgersi a distanza di tempo.
La tensione spirituale e morale durante questi cinquant’anni è stata forte, i risultati li ho accettati per ragioni di scadenze indifferibili, ma avrei voluto sempre poter ricominciare lo studio del progetto. Spesso, ed è una condizione tipica del nostro lavoro, un’idea migliorativa mi è venuta quando ho potuto vedere il fabbricato costruito. Talvolta, invece, ho constatato con somma gioia la correttezza dell’impostazione iniziale sia nell’articolazione dei volumi realizzati, sia nel modo con il quale l’edificio veniva fruito, che in dirette manifestazioni di gradimento.
Non ho potuto fare a meno di prestare attenzione a modelli (non a tipologie) per sentirmi maggiormente ancorato al mio tempo. Ma debbo ammettere la mia refrattarietà alle ripetizioni di schemi canonici. La tipologia intesa non come categorie classificatorie per studi su tessuti edilizi, ma come leggi costitutive del progetto, del disegno di tessuti urbani nuovi, non mi sembra proponibile.
Le forme sviluppate nei progetti che seguono hanno seguito sempre l’idea del complesso e del composito e sono state pensate per invitare a girare attorno ad esse. Per questo è presente l’uso frequente di tagli volumetrici a 45°, il distacco tra le componenti dell’edificio, la rotazione dei corpi di fabbrica attorno a un centro che organizza uno spazio interno basato sulle variazioni delle altezze e sull’illuminazione naturale degli ambienti. Come si leghino questi progetti, nel corso storico nel quale sono stati elaborati, con il tempo passato e con il futuro non sta a me dire, così come non sta a me valutare se una tale produzione possa risultare significativa rispetto ai temi del nostro secolo.
Nel XX secolo la cultura occidentale, anche nel dominio dell’architettura, ha prodotto il completo cambiamento dei linguaggi e dei temi di applicazione con l’emergere delle grandi necessità dell’umanità, in prima istanza derivanti dall’aumento della popolazione e dall’aumento progressivo del benessere.
La Società del benessere ha posto temi nuovi, strettamente legati a diverse organizzazioni dello spazio e delle funzioni, temi che hanno richiesto audaci invenzioni. Per poterne dare realizzazione è stato necessario dotarsi di un atteggiamento di forte negazione del linguaggio accademico del passato, negazione già abbondantemente avviata nel secolo precedente. Altro fattore concomitante e di rilevantissima portata è stata la rivoluzione tecnologica che ha consentito di adoperare nuovi materiali, determinando anch’essa la ricerca sui linguaggi. Quartieri di abitazione, viabilità urbana ed extraurbana, edifici specialistici molto legati alle singole funzioni, tutela e introiezione degli spazi aperti e verdi, proposte di spazi diversi legati, ognuno, a una densità specifica, in tutte queste esperienze è consistita la ricerca e l’invenzione degli architetti di questo secolo. Problemi, quindi, di rapporto e comprensione delle nuove realtà sociali e delle possibili invenzioni di sistemi, modi e linguaggi per risolverle.
La ricerca, sia pure diretta in modi e direzioni diverse, ha avuto sempre questi obbiettivi. I grandi architetti di questo secolo, pur emergendo per il valore delle proprie analisi e proposte, hanno principalmente espresso genialità in quelle invenzioni spaziali che più si relazionano ai nuovi argomenti portati avanti dalla rivoluzione industriale e dalla società post-industriale.
In questo clima si è formata la mia generazione, oscillando tra atteggiamenti più o meno estremisti. Un certo puerile estremismo scolastico, proveniente da un fortissimo e dominante atteggiamento ideologico, spingeva alcuni colleghi di Università dei miei anni, a svolgere la tesi di laurea su progetti di case in linea di cui potevano essere disegnate solo le piante e le sezioni, perché qualsiasi rappresentazione che potesse alludere alla percezione globale dell’opera proposta era, a loro avviso, da considerarsi immorale. Da cui ne derivava che prospetti, prospettive e assonometrie venivano definite inutili “aggettivazioni”. Questo aneddoto effettivamente accaduto può spiegare le tensioni degli studenti di architettura degli anni quaranta e cinquanta che, entusiasmati da Le Corbusier, Wright, Gropius, Mies, Sharoun etc., nonché da tutti gli architetti razionalisti italiani dell’anteguerra, si scontravano con atteggiamenti ideologici che, anticipatamente, spianavano la strada alla riconsiderazione dell’architettura Sovietica degli anni cinquanta e sessanta. Questa architettura rispondeva a necessità sociali del presente, ma lo faceva unendo ad esse fini secondi di rappresentazione retorica dei fasti del potere. Incomprensibile somiglianza tra la demagogia accademica nazista Hitleriana e ciò che tutti si aspettavano sarebbe stato il suo opposto. In questo, secondo me, va ricercata la prima scintilla che avrebbe causato, a distanza di non molti anni, la divaricazione tra il razionalismo, divenuto “International Style” per alcuni, l’accademismo, divenuto “progetto della città”, e il Kitch, divenuto “post-moderno”.
Accanto a queste vicende, l’architetto di fine millennio comincia ad agire come protagonista assoluto, impone visioni dell’oggi e del futuro che si basano su una personale poetica dell’artista isolato dal contesto, dalle aspettative umane, dal rapporto tra le forme suggerite e il loro costo. Egli produce opere apprezzabili come “Opere d’Arte” in sé, ma che non rivelano una possibilità di costituire un ambiente di vita urbano. Infatti, quando alcuni degli architetti “de-costrttivisti” o “concettuali”, correnti alle quali mi riferisco, provano a cimentarsi con temi meno celebrati dell’architettura-oggetto, come ad esempio il panorama urbano o temi di edilizia corrente, la qualità degli esiti tende a diminuire. Sarebbe dovuto essere l’opposto, e questo mi fa pensare che dai primi del Secolo, successivamente con la parentesi del periodo tra le due guerre e, poi, coi il primo trentennio che ha seguito la fine della seconda guerra mondiale, si sono progressivamente andati modificando sia i temi assegnati agli architetti che la disponibilità dei finanziamenti. E, per conseguenza, è nato un nuovo linguaggio architettonico.
Stento tuttavia a capire, osservato dalla mia età, il senso della trasformazione dell’operazione del progetto di architettura come occasione per alludere ad un catastrofico e sconosciuto futuro, alla distruzione di tutte le certezze e di tutti i miti attraverso nuovi miti. Le granitiche certezze tramontano sempre più velocemente in tutto il mondo, per cui non è necessario simbolizzarle ed additarle con l’architettura: ciò lo possono fare solo alcuni architetti di qualità che, però, creano architetture irripetibili. In questi casi ci si trova di fronte ad un linguaggio del tutto individuale dell’architetto-artista concettuale, simile a quello che hanno oggi i pittori, gli scultori, i land artists, etc., ma con significati ed in contesti completamente diversi.
Anche il ricorso a tecnologie e materiali molto sofisticati e troppo costosi non mi sembra possa dare contributi significativi nella generalità dei casi, salvo svelare il proprio limite. L’eccessiva ricchezza delle tecnologie, le scelte di materiali sempre più inattesi, di alcuni spazi interni ed esterni che non chiedono di essere compresi, ma vogliono stupire, parlare ad alta voce, sempre più alta, costituiscono le barriere che i movimenti di avanguardia contemporanea alzano, secondo me. Ma lo sforzo che faccio per capire è continuo e non di lieve entità: non fingo di essere giovane.
Spero che i miei progetti testimonino tutto quanto ho qui detto e che dimostrino la mia continua ricerca sulle forme possibili, sugli inserimenti nei contesti, sulle indagini di qualità, sempre però, al riparo da eccentricità.
Voglio concludere dicendo che, ogni volta che ho affrontato un tema di edilizia residenziale o scolastica, di progettazione di parchi o giardini, o anche in altri temi concorsuali e non, ho pensato ai bambini come destinatari del bene nel suo insieme, la città. I bambini, come coloro che dovrebbero gioire degli spazi, dei colori, della natura. I bambini diventano adulti e, a volte, cambiano, ma vi saranno sempre nuovi bambini.Riconoscimenti
Questo volume è stato reso possibile grazie all’instancabile e competentissimo lavoro di mio figlio Ruggero che lo ha curato direttamente in tutte le sue parti e contribuendo con alcuni testi di progetti degli anni ‘80 e ‘90 ai quali ha preso parte. Ma anche di Nilda Valentin che ha affiancato Ruggero in maniera impareggiabile nelle correzioni dei testi e nelle traduzioni dei sunti in inglese, nonché nel saggio critico delle case di Ancona.
Mi hanno inoltre aiutato con grande dedizione, amicizia e competenza l’arch. Barbara Cacciapuoti, nel primo lavoro di cernita dei progetti e dei documenti e l’arch. Tourandokht Saed, nella raccolta, scelta e catalogazione delle immagini fotografiche. A loro va il mio cordiale ringraziamento.
Il Dr.?Richard Bates, membro del Dipartimento di Anglistica dell’Università “La Sapienza” di Roma, ha tradotto con precisione e con pazienza i testi delle prefazioni e introduzioni.?Anche a lui va la mia gratitudine.Gli amici e illustri colleghi Prof. Lucio Valerio Barbera e Prof.Marcello Rebecchini mi hanno onorato con due prefazioni.?Le loro valutazioni rappresentano il gradito compenso a una vita dedicata all’architettura.
Sergio Lenci
This collection covers some fifty years of designs and projects, some of which saw the light of day, others not. Apart from any considerations of quality, it documents one man’s response to the changes in our society and culture in this period, and is my contribution to this debate. The projects which got no further than the drawing-board, whether designed in response to competitions or merely theoretical, are no less important to me than the ones which were built. The book also contains some of my reflections and comments.
The principal subjects are those of housing development schemes, school buildings, law-courts, prisons and hospitals.
The housing development schemes carried out with public funds were a remarkable attempt by the Government to improve the living conditions of the residents, both old and new, along with their sense of the city as such. They broke with the rationalist model of the period between the two wars, now considered abstract and no longer answering to society’s needs. In its place as a model were certain satellite-cities in Northern European countries, which had constructed new urban environments that at the same time remained in touch with the distant influence of the old cities, Scandinavian neo-empiricism, as it was called.
Young architects, both university lecturers and professionals, all anti-academic and politically committed, took this direction. But at the same time they were influenced by ‘neo-realism’. It was as if, for example, the new towns in the Agro Pontino area, and especially Sabaudia, had never been built. Rationalist architecture was suspected of being an indirect expression of capitalism. In its place architects wanted a style which would be the expression of true democracy, in and beyond socialism. An extremely difficult cleavage was effected between form and content, in the hope of holding onto everything at the same time: ideology, tradition, modernity, and the transition from the world of farm labourers and the desperate conditions of the working-class estates to civilized living conditions whose evolution would be partly due to the renewal of a well-designed environment. In a word, neo-empiricism and neo-realism.
Another source of inspiration in that period was F.L. Wright’s Organic Architecture, which Bruno Zevi brought to our attention in the immediate post-war period. I was immensely fascinated by it, but at the same time it seemed to me a language difficult to adopt for various reasons. First of all there was the difference between the two cultures and the nature of the subjects to be tackled in each country. Then there was the inevitable need to open a dialogue with the extraordinary pre-existing architecture scattered throughout Italy, and, last of all, the different population densities of the two countries. Last of all – and this is something I am much more aware of now – there was the impossibility of translating it into the Italian context, given the needs of our country and the general level of commissioners – poor in the case of Public Bodies, and mostly vulgar in the case of rich private clients.
What remained was the great lesson on the importance of space as a fundamental object of study. It is a study that can be carried out on any project and with any client, and it is the most important lesson that I have learnt, conditioning both my reading of all the architecture of the past and my own projects. That is why, for me and for the architects of my generation, those models too have been sources of study and inspiration.
My activity as an architect began with the Tiburtino area of Rome. Along with others of my age, I have been mentioned on various occasions as one of the creators of the Tiburtino housing development. Actually, we were little more than draughtsmen. We had the privilege of being present at the planning-stage of that project, which was the work of Quaroni, Ridolfi, Gorio, Lugli, Valori, Fiorentino and others. In that situation I hoped to be able to grasp a sound planning method, but I was expecting too much. The whole experience was difficult and, above all, unmethodical. The aim was to abandon anything reminiscent of rationalism so as to get back to the spontaneity of the minor buildings of Rome in the seventeenth and eighteenth century. Perhaps, subconsciously, there was the desire to exorcise the present, represented by reason, and substitute it with a historicistic thesis which would confirm and give authority to the present. Ideology was strongly present in that period, and historical interpretations were thus enlisted to legitimize the ideology. I was interested by this way of looking at the project, but found it difficult to grasp the reasons behind the choices made and the sequence of operations.
Another aspect which greatly interested me at first was the possibility of creating architecture collectively, or, if that were not immediately feasible, making a collage of individual works in a design of common objectives and themes. In the case of the Tiburtino project my hopes about the planning methodology were doomed to disappointment. The development project started off by trying out various different possibilities. Quaroni, Fiorentino and Valori were aiming for a fusion whereby the individual contributions would have an overall unity. Ridolfi, Gorio and Lugli favoured a montage of individual contributions. In fact one can easily distinguish in the area the strictly personal works from those created by several people. The label of neo-realism in architecture was given much later by ideological critics whose purpose was to lay claim to everything possible as part of their cause. However, I remember that Quaroni, half-seriously, described the Tiburtino area as more like a baroque extravagance than a residential area for farm-workers, newly transferred to the city (in the essay “Il paese dei barocchi” in Casabella n.?215).
I mention this to explain my growing scepticism as to the truth of the stories and theories manufactured after the event by critics who already knew what they wanted to find, often with the collaboration of those who took part in the project. Alongside the study of Scandinavian architecture, one inevitably had to accept an Italian cult of poverty, which, once accepted, was then venerated. It was very difficult to free oneself from this confusion, as I now well realise. Even the more specifically technological parts of the very important ‘Architect’s Manual’ suggested ways of producing and assembling materials after the manner of traditional craftsmen.
Thus, after my first planning experiences in creating the areas of San Giovanni a Teduccio in Naples, and Spine Bianche at Matera (the result of national competitions I had won), my personal interests took this direction: the organic correlation of all the elements with an understandable form; no allusions to secondary meanings or expressions of ineffable attitudes relating to class struggle. My work has always been dominated by the search for content, the content natural to the subject, which is to reveal itself through the individual project. It is simply a question of defining the content and expressing it in space, form, the relations with the context, materials, and costs. In my experience projects consist in resolving the problems in the repertoire of forms on which the architect has been working throughout his life.
This is the main line of my work. Although what I have said should clarify my way of seeing architecture, it does not exhaust all the problems I have tackled: the meaning of forms, and the comparison between symbolism, expressionism, rationality and romanticism, classicism and conceptualism. All of them are ways of seeing the world which need to be examined thoroughly if they are to be understood and if one is to make responsible choices in one’s work. This is a constant exercise which architects must submit themselves to throughout their lives. In a sense, one could say that all of the projects that an architect works on in the course of his career are variations on a single project, which is tested in all sorts of ways, perhaps even at the cost of coherence.
To make my position clear, I should say that, while allowing myself as much necessary freedom as possible, rationality has been the basis of all my works. Obviously, today rationality no longer means neo-classicism in all the various senses of the term. I should like at this point to quote a remark of the abbot Galiani: ‘Physiocrat? Mercantilist? I am nothing.... I am simply against the forces of unreason... we should not argue in abstract theories, because there is the risk of the theory being fine but the actual problem remaining unresolved.’ (quotation taken from G. Ruffolo, ‘Cuori e denari’, publ. Einaudi, 1999). I find myself more or less in agreement with the seven invariants of the Modern Language of Architecture formulated by Bruno Zevi, but not with all of them. Those which are open to ‘unreason’ raise doubts in my mind, although I accept that over the years doubts can give way.
I have lived in a state of strong moral and spiritual tension in the last fifty years. I have accepted the results of my labours because of deadlines that could not be extended, but I would always have liked to be able to start reconsidering a project all over again. Often, and this is typical of our work, I had an idea of how to improve a project when I was able to see the finished construction. Sometimes, however, I have had the supreme satisfaction of being able to confirm the rightness of the initial design in the articulation of the volumes of the finished building, in the use to which it was put, and in direct expressions of appreciation.
Inevitably, to feel part of the period I am living in, I have studied carefully various models (though not typologies). But I must confess to feeling very reluctant to repeat canonical schemes. Typology is all very well as a study tool in classifying building materials, but if it tries to lay down laws for the execution of a project or for the design of new urban materials, that is another matter.
It is not for me to comment on how these projects, which belong to their own period in history, link up with past and future, nor to evaluate any possible importance they may have in relation to the main subjects for architecture in our century.
Western culture in the twentieth century, in architecture as elsewhere, has brought about a complete change in the languages we use, with the emergence of major needs of humanity deriving from the increase in population and the progressive increase in affluence.
The affluent society has brought with it new subjects, closely linked to different ways of organizing space and functions, and requiring bold inventions. To carry them out, it has been necessary to take up a strongly negative stance towards the academic language of the past, a stance already visible in the previous century. Another concomitant factor of enormous importance has been the technological revolution, which has led to new materials, and the consequent search for a corresponding language. Residential areas, urban and inter-urban road systems, buildings constructed for specific specialized functions, the safeguarding and introduction of open and green spaces, and different spaces each with its own specific population density, these have been the interests which have dominated architecture this century. The problems have been those of relating to and understanding these new social conditions, and trying to invent systems, methods and languages to resolve them.
These have been the constant objectives of architects, although their work has taken various forms and directions. Although the great architects of this century came to the fore because of the value of their individual analyses and proposals, their genius has been evident mainly in those spacial inventions that relate most closely to the new subjects expressed by the industrial revolution and the post-industrial societies.
My generation was formed in this climate, wavering between more or less extremist attitudes. A strain of puerile scholastic extremism, arising from a strong and dominant ideological attitude, drove some of my fellow-students to write their degree theses on projects for rows of houses, of which only the plans and sections could be designed, because any representation which might give an idea of the overall perception of the work was, in their view, immoral. Hence, façades, perspectives, and asometric projections were dismissed as uselessly descriptive. This true story can help explain the tension of architecture students in the forties and fifties. Excited by Le Corbusier, Wright, Gropius, Mies, Sharoun etc., as well as by the Italian rationalist architects of the pre-war period, they came up against ideological attitudes which would later pave the way for the reconsideration of Soviet architecture in the fifties and sixties. This architecture answered to the social needs of the present, but did so by uniting them with the rhetorical representation of the pomp of power. There was an incomprehensible resemblance between academic Hitler-style Nazi demagogy and what everyone imagined would be its opposite. It is in this, as I see it, that we can find the first spark that was to cause a few years later the split between rationalism (which for some became ‘International Style’), academicism (which became town-planning) and Kitsch (which became ‘post-modern’).
Alongside these events, architects at the end of the millennium began to behave as if they were absolute protagonists, imposing visions of present and future based on a personal poetic theory of the artist isolated from his context, from normal human expectations, and from the relation between imagined forms and the cost of transforming them into reality. These ‘deconstructionist’ or ‘conceptual’ architects produced works which can be appreciated as ‘works of art’ in themselves, but which show no possible way of constructing an environment for urban living. In fact, when some of them tried to prove their worth with something more humble than the grand architectural statement, something connected with the ordinary urban landscape or normal construction projects, the quality of the work tended to diminish. It should have been the opposite, and this makes me think that, since the beginning of the century, then with the parenthesis of the inter-war period and the first thirty years after the Second World War, there has been a gradual change both in the subjects given to architects to work on and in the funds available. As a result a new architectural language was born.
All the same, from the vantage-point of my age, I find it difficult to understand the sense of this transformation of the architect’s work into an opportunity to adumbrate a catastrophic and unknown future, and the destruction of all certainties and myths through new myths. Cast-iron certainties are disappearing ever more rapidly throughout the world, so it is hardly necessary to make architecture the symbol of this process. That can be done only by a few great architects, who do it through their work, which is, however, unrepeatable. In these cases we are faced with the unique language of the conceptual architect-artist, similar to that of present-day painters, sculptors and land-artists, etc., but with completely different meanings and in completely different contexts.
Neither, it seems to me, can the recourse to sophisticated and highly expensive technology and materials make a significant contribution in most cases, apart from revealing their own limits. The excessive cost of the technology, and the choice of more and more surprising materials and of internal and external spaces which, rather than inviting understanding, seek only to astonish and speak louder and ever louder, are the barriers that the contemporary avant-garde are raising, or so it seems to me. But I go on trying to understand, not without effort, and I do not pretend to be young.
I hope that my projects bear witness to what I have said here, and demonstrate my constant search for possible forms and ways of placing them in their contexts, without eccentricity.
I wish to conclude by saying that each time I have tackled a residential or school building, the planning of parks and gardens, or other subjects, whether in competitions or not, I have borne children in mind. They are the ones who will receive the end-product of our labours, the city. It is children who should delight in spaces, colours, forms and nature. Children become adults, and sometimes change, but there will always be new children.Acknowledgements
This volume was made possible thanks to the untiring and excellent work of my son Ruggero, who oversaw every aspect of it and contributing several texts relating to projects from the 1980’s and 1990’s in which he was involved. I must also express my gratitude to Nilda Valentin who helped Ruggero with her faultless correction of the texts and the translation of summaries into English, as well as with her critical essay on the houses of Ancona.
Others who have shown great dedication, friendship and competence in their help have been the architect Barbara Cacciapuoti, in the first work of selection of projects and documents, and the architect Tourandokht Saed, in the collection, choice and cataloguing of the photographic illustrations. To all of them I feel the warmest gratitude.
Dr.?Richard Bates, member of the English Department of the University of Rome “La Sapienza”, translated with precision and patience the texts of the prefaces and introductions. My gratitude goes out to him too.My friends and colleagues, Prof. Lucio Valerio Barbera and Prof. Marcello Rebecchini, have honoured me with two prefaces. Their assessments are a welcome reward for a life devoted to architecture.