Studio Passarelli - cento anni cento progetti, Electa, Milano 2006
Ruggero Lenci
Nel redigere questo volume sull’attività dello Studio Passarelli ho avuto l’occasione di acquisire una pluralità di informazioni e conoscenze relative a un periodo storico che tocca tre secoli: inizia alla fine dell’800, include tutto il ‘900, si estende nel 2000.
La quantità di progetti sviluppati dallo Studio è imponente, e tra questi nella pubblicazione dal titolo “Studio Passarelli cento anni cento progetti” ne sono stati selezionati oltre 120 che rappresentano una cospicua sintesi della sottesa attività architettonica. I primi venti progetti riguardano un periodo di quarant’anni che, fino al 1938, sono stati elaborati dal fondatore dello Studio, Tullio Passarelli (1869-1941), ma che già dagli anni 1932-33 hanno visto la partecipazione dei figli Vincenzo (1904-1985) e Fausto (1910-1998). Dopo la Guerra, nel periodo che va dal 1949 al 1985, i successivi progetti saranno eseguiti, con un crescendo di intensità, principalmente da Lucio (1922), il più giovane dei tre fratelli. Attualmente, oltre a Lucio Passarelli che funge da guida dello Studio, sono presenti come associati dall’ ‘89-‘90 l’arch. Tullio Leonori (1946) e i due figli architetti, Tullio Passarelli (1961) e Maria Passarelli (1964).
Alcuni studi di architettura nel mondo hanno da sempre svolto, oltre al ruolo di fabbrica di idee e centro di elaborazione dei progetti, anche quello di incontro di figure che in quegli ambienti si sono misurati, ivi assorbendo la complessa arte di dare forma al volume, allo spazio, alla città. Per quanto riguarda l’Italia a Milano penso alla Gregotti Associati, a Roma allo Studio Passarelli, a Genova al Renzo Piano Building Workshop – ma ve ne sono altri che andrebbero citati. Questi studi hanno svolto un importante ruolo di scambio culturale contribuendo alla formazione di significative personalità nel mondo dell’architettura.
Nel caso dello Studio Passarelli le attività progettuali hanno inizio molto più indietro nel tempo rispetto agli altri studi citati, e questa presenza continuativa ha allenato i suoi componenti a cambiare, con agilità, prospettive di sviluppo e quadro dei riferimenti, preparandoli a operare una periodica revisione degli obiettivi e un costante aggiornamento degli aspetti tecnologico-morfologico-linguistici. Inoltre, lo spazio destinato alla metodologia del fare architettura li ha visti protagonisti nel promuovere procedure di progettazione collaborativa e integrale, predisponendo lo Studio a interagire a vario titolo con un impressionante numero di professionisti prevalentemente romani, tra i quali si annoverano: Alessandro Anselmi, Pietro Barucci, Armando Brasini, Arnaldo Bruschi, Mario Fiorentino, Julio Lafuente, Alfredo Lambertucci, Sergio Lenci, Amedeo Luccichenti e Vincenzo Monaco, Pier Maria Lugli, Enrico Milone, Riccardo Morandi, Manfredi Nicoletti, Mario Paniconi e Giulio Pediconi, Luigi Piccinato, Ludovico Quaroni, Gaetano, Giuseppe, Marcello, Salvatore e Tito Rebecchini, Leonardo Ricci, Sara Rossi, Piero Sartogo, Carlo Scarpa, Hilda Selem, Masino Valle, Michele Valori, Marcello Vittorini, Bruno Zevi.
Pertanto, e in una città come Roma non poteva essere diversamente, i progetti spaziano da un’architettura in stile neo-romanico, eseguiti nei primi anni del ‘900, a un’interpretazione delle peculiarità linguistiche e funzionali proprie della “scuola romana”, per arrivare ai giorni nostri a registri morfologici aggiornatissimi. Tutte architetture pertinenti al tempo e alla cultura nelle quali sono state concepite, al tema funzionale, al contesto quasi sempre romano nel quale sono inserite, oltre che rispondenti alle esigenze di una committenza in molti casi privata e di sovente religiosa, ma in numerose occasioni anche pubblica.
Il primo progetto che inaugura l’attività dello Studio, a seguito di un tirocinio di Tullio dall’architetto Gaetano Koch, è l’Istituto De Merode (1899) in Piazza di Spagna. Questo edificio richiama – con una riduzione di scala – sia nella disposizione delle masse volumetriche sia nell’uso del bugnato che, ancora, nello stile neo-romanico, l’imponente edificio del Palazzo di Giustizia (1888-1910) di Guglielmo Calderini in costruzione a Roma in quegli anni, sia pur ingentilito da coperture in stile Beaux Arts.
Ad esso segue quello della chiesa di Santa Teresa (1903) ancora concepita in stile neo-romanico, con la quale viene proposta una sobria immagine della fede, con un’architettura poco decorata e con riferimenti alle chiese assisane, una formula in quegli anni ritenuta opportuna per Roma, giovane capitale d’Italia, nonché adeguata a dialogare con la maestosità delle mura Aureliane.
Subito dopo viene progettata, con una variazione dello stesso stile neo-romanico, la chiesa di San Camillo (1906), che si distingue per un portale finemente decorato. Con questo progetto Tullio Passarelli consolida le proprie capacità nell’ideazione costruttiva di grandi “fabbriche”, purtuttavia non trascurando quelle di dimensioni più contenute, come nel caso della chiesa dei padri di Monfort in via Sardegna alla quale, per ragioni di spazio, vengono sottratte le due navate laterali.
Con il progetto della Borsa Valori (1920) Tullio Passarelli ristruttura e ricostruisce, nell’isolato prospiciente la piazzetta del Raguzzini e la chiesa di S. Ignazio, l’edificio della Dogana Pontificia di Terra realizzato da Francesco Fontana parzialmente all’interno del Tempio di Adriano. Il prospetto è caratterizzato da paraste di ordine gigante, inserite per stabilire continuità dimensionale con le colonne del maestoso tempio inglobate nella quinta muraria di Piazza di Pietra. Esse sono sormontate da capitelli compositi modellati secondo gli stilemi di un’arte neo-barocca che, viceversa, ben si lega agli spazi urbani ideati dal Raguzzini. Per l’ordine minore viene scelto il dorico che, già dal fronte stradale, anticipa il sobrio carattere presente nei saloni interni pensati per le contrattazioni.
Ma non tutti gli incarichi costituiscono un evento speciale per la città, essendo presenti anche progetti di ordine minore – ma non per dimensione – come sono quelli dei Magazzini Generali all’Ostiense in via del Porto Fluviale (1918) oggi diventati, insieme agli altri edifici e alle imponenti strutture metalliche presenti in quel comparto urbano, reperti di archeologia industriale.
Con l’ampliamento della Pontificia Università di S. Tommaso-Angelicum (1932) e con la Casa Generalizia dei Fratelli delle Scuole Cristiane sulla via Aurelia Antica (1938) – un progetto quest’ultimo di vaste dimensioni che si configura come una cittadella ai margini della città di Roma e che rimanda nuovamente a schemi di palazzi e castelli francesi – si conclude l’attività del fondatore dello Studio che si spegnerà all’età di 72 anni.
Vincenzo Passarelli, laureatosi sia in Ingegneria Civile (1927) che in Architettura (1932), è il responsabile del rinnovamento che si attua con il progetto del Silos Granario di Roma in via di Pietra Papa (1935), nonché con le tre palazzine in via di Villa Grazioli, via Oglio e via Salaria, nei quali si registra l’abbandono di ogni riferimento a stili architettonici del passato. In questi edifici è presente la ricerca di un’architettura adeguata e coerente con la cultura romana di quegli anni, ricerca messa in atto anche da illustri coetanei tra i quali Mario Ridolfi, Adalberto Libera, Giulio Pediconi. E’ con quest’ultimo, insieme a Mario Paniconi, che nel 1950 lo Studio Passarelli vince il primo premio al concorso per il Palazzo dell’Istituto Mobiliare Italiano e dell’Ufficio Italiano Cambi in via delle Quattro Fontane a Roma, in un lotto ubicato tra il San Carlino del Borromini e via Nazionale. Si tratta di un inserimento delle nuove tecnologie del c.a. e dei nuovi linguaggi della modernità nel centro storico, un’architettura che costituisce un esempio di grande valore. In questo progetto vengono messe a sistema scelte in merito al partito architettonico, alla scansione e al ritmo delle bucature, al rapporto tra la massa basamentale – con frequenti inserti bugnati che alludono alle stratificazioni archeologiche – e il volume in elevazione per il cui rivestimento viene ideata una raffinata soluzione tecnologica che lo scompone in molteplici lastre. L’ingresso è caratterizzato da quattro pilastri di ordine gigante che sorreggono altrettante travi sagomate a sbalzo sulle quali sono concentrati i pesi superiori così da produrre, in chi ne varca la soglia, la sensazione di entrare in un tempio più che in un edificio. Oltre a Vincenzo, questo progetto ha visto la partecipazione di Fausto e di Lucio, laureatisi in Ingegneria Civile rispettivamente nel 1933 e nel 1946, sancendo la continuità generazionale dello Studio romano dopo l’interruzione bellica. Questa fase professionale è molto delicata in quanto, in uno dei momenti più difficili della storia italiana, si rende indispensabile consolidare il passaggio dell’attività da una generazione all’altra, e ciò avviene con naturalezza, senza che nei progetti possa essere avvertita alcuna diminuzione di intensità. Anzi, facendo emergere la messa in campo di un attento aggiornamento e rinnovamento che ingloba le tematiche più attuali del dibattito architettonico, consci che l’architettura italiana in campo internazionale è in ritardo (a riguardo è opportuno sottolineare che Tullio Passarelli è della stessa classe di Frank Lloyd Wright (1867), di Charles Rennie Mackintosh (1868) e di Adolf Loos (1870) ed è di diciotto anni più anziano di Le Corbusier). La nuova generazione è quindi preparata, da molteplici punti di vista, a capire quanto sia importante, per consolidare le proprie posizioni culturali e professionali, aprirsi genuinamente al cambiamento e alla sperimentazione, onde poter comprendere a fondo le esigenze di una società in rapida trasformazione, saperle interpretare, quindi poterle elaborare trasferendole in soluzioni architettoniche idonee e pertinenti alle aspettative di una committenza con esigenze in mutazione.
Si può in aggiunta pensare che da un punto di vista linguistico un certo interesse avrà destato negli anni del concorso dell’IMI l’opera di Luigi Moretti – personaggio con il quale lo Studio non stringerà rapporti di collaborazione – che aveva appena finito di completare la Palazzina del Girasole a Roma.
Dagli anni successivi al periodo post bellico si evidenzia la presenza nel campo progettuale di Lucio, che continuerà ad indirizzare l’architettura dello Studio.
Tale apertura si rende evidente nei progetti degli anni ’50 nei quali è presente un impegno sia nel campo dell’architettura sociale, con il “Villaggio San Francesco” realizzato per i senza tetto ad Acilia (1953), sia in quello della sperimentazione strutturale. Questo tema, oltre che nel già citato progetto per l’IMI, nel periodo considerato è chiaramente presente in quelli del villino in via di Santa Prisca a Roma (1954), dell’Istituto di Frutticoltura ed Elettrogenetica a Ciampino (1956) e della chiesa di San Luca progettata con Riccardo Morandi in via Gattamelata a Roma (1956). L’interesse per il disegno urbano, che ha caratterizzato lo Studio per alcuni dei progetti già citati, ma che lo caratterizzerà ancor di più negli anni a venire per i Piani di Zona, i Centri Direzionali, nonché per ipotesi metaprogettuali e ricerche anche futuribili (vedi Studio Asse), conclude questo decennio con la vittoria al concorso per la sistemazione urbanistica della Città Giudiziaria di Piazzale Clodio a Roma, un pezzo di città ancora irrisolto sul quale, dopo oltre quarant’anni, si accampano ancora tendoni circensi.
Gli anni ’60 hanno inizio con il progetto della scuola Notre Dame (1960), che rappresenta un ulteriore traguardo non solo per la chiarezza distributiva della soluzione proposta ma anche per l’internazionalità della committenza costituita, come nel caso della successiva scuola Marymount (1963), da un’importante istituzione educativa statunitense. Nel primo caso lo Studio recepisce e attua con un linguaggio efficace, sobrio e pertinente, gli schemi aggregativi nord americani che dispongono le aule da un solo lato del corridoio, meritando la vittoria del premio In/Arch. Nel secondo mette in atto una ricerca che, nel blocco degli alloggi e degli uffici, abbina forti caratteri strutturali a una rigorosa definizione della disposizione delle bucature. Ciò dà luogo a tre ordini di forature verticali uniformi ma liberamente sfalsate, modalità divenuta oggi di gran voga globalmente, sia con tagli verticali che orizzontali.
Se il piccolo negozio della ceramica Pozzi (1960) progettato in via dei Condotti a Roma insieme a Hilda Selem mostra con chiarezza l’attenzione riposta tanto nella soluzione d’insieme quanto in quella di dettaglio, la Sede della Compagnia Tecnica Italiana Petroli (1963) sulla via Laurentina evidenzia l’impegno dello Studio nel settore tecnologico, con l’estromissione dall’interno del volume dell’edificio dei canali dell’aria condizionata che vengono disposti sulla facciata. Ciò accade con otto anni di anticipo sul progetto di Piano e Rogers vincitore al concorso del Beaubourg.
Ma l’eclettismo culturale che caratterizza tutti quegli studi di architettura che varcano i secoli, impone ai suoi protagonisti l’operare costanti revisioni di linguaggio che negli anni del neo brutalismo non possono non includere nei propri registri linguistici la plasticità del cemento armato. Ecco allora che in via degli Ibernesi a Roma viene realizzato il Convitto San Tommaso d’Aquino nella cui cappella è inserita una tribuna in cemento armato – che animata dai fedeli ricorda la mano aperta di Le Corbusier o, ancora, un enorme Santo Graal – ponendo lo Studio Passarelli all’attenzione della critica architettonica anche per le sue rinnovate qualità artistiche. Queste si renderanno ancor più visibili sia nel padiglione italiano all’Expo di Montreal del 1967, dove un basamento roccioso è sovrastato da una doppia linea di copertura a corda molle, sia nell’auditorium e nelle sistemazioni a terra dell’IMI all’EUR, in cui un coté espressionista modella i volumi architettonici e gli attacchi a terra in modo magistralmente scultoreo, che nel concorso romano per l’ampliamento del Parlamento italiano, dove forti setti curvilinei espressionisti in cemento armato arginano, come grandi bastioni-diga, una minuta tessitura spaziale fatta di piccoli volumi metallici contenenti studi di dimensioni sostenibili per i deputati.
Nel 1964 lo Studio compie il suo capolavoro: l’edificio polifunzionale in via Campania ubicato in fregio alle Mura Aureliane in un settore di Roma ad altissima densità di opere firmate “Passarelli”. Il fatto che il sito fosse, per plurime ragioni, particolarmente stimolante per i progettisti ha certamente giocato a favore della straordinaria sintesi di idee messa in atto in un lotto trapezoidale di poco più di 1.000 mq., con un angolo tra le mura e via Campania di 74°. A un attacco a terra commerciale fortemente compresso e arretrato, viene sovrapposto un prisma trapezoidale a uffici in vetro parallelo alle mura su via Romagna. Da esso svetta un coronamento di quattro piani con funzioni residenziali in cui vengono evidenziate l’ortogonalità strutturale e la meccanicità costruttiva. Tale sintesi dà luogo a un edificio stratificato di rara bellezza e singolarità che rappresenta una tappa fondamentale nella storia dell’architettura contemporanea aprendo le porte alla “blurring architecture”.
Dopo il Piano Regolatore Generale di Roma (1962), al quale Vincenzo darà un contributo significativo, è la volta dello “Studio Asse” che produce il metaprogetto di una struttura “direzionale” in risposta all’esigenza di spostare verso est il baricentro della città. Tale iniziativa, motivata da un clima disinteressato allo sviluppo di una politica urbanistica organizzata secondo il disegno del territorio, si concretizza con la formazione di un gruppo di professionisti e uomini di cultura in senso lato, composto, oltre che dallo Studio Passarelli, da Vincio Delleani, Mario Fiorentino, Riccardo Morandi, Ludovico Quaroni, Bruno Zevi, oltre a una nutrita schiera di collaboratori (tra i quali Gabriele De Giorgi, Salvatore Dierna, Aldo Ponis, Fabrizio Sferracarini ed Edgardo Tonca). Il gruppo, che si autofinanzia interamente, proporrà un metodo di progettazione urbana teso a superare le metodologie dello zoning, a favore del controllo tridimensionale, stratificato, del disegno delle nuove parti di città.
Di questo straordinario progetto non si è fatto nulla, se non pubblicazioni, mostre e dibattiti. Ciò più per il timore da parte dei politici e degli amministratori che un gruppo di professionisti potesse esercitare un forte controllo sulla città, che per le ragioni che scrisse Manfredo Tafuri “... una macchina inutile, che cerca di svincolarsi dalla propria condizione reificata tramite appelli ai codici geometrici che giacciono muti.” E ancora, “Solo Fiorentino riuscirà a trarre, dall’esperienza dello Studio Asse, un risultato: ma bisognerà attendere Corviale.” (M. Tafuri, Storia dell’Architettura Italiana dal 1945 ad oggi, p.b. Einaudi, 1982-86, Torino, p. 107). Il progetto si trasformerà in successivi incarichi quali il coordinamento di un gruppo di studio promosso dall’ACER e dal Consorzio SDO sul Sistema Direzionale Orientale, ma che finora non ha prodotto realizzazioni.
Gli anni ’70 hanno inizio con il prestigioso incarico da parte del Governatorato del Vaticano della progettazione del Museo Archeologico Profano, Cristiano, Missionario Etnologico come ampliamento dei Musei Vaticani. Anche in questo caso la complessità del tema, che richiedeva di dare una collocazione stabile a oltre mille reperti archeologici romani provenienti dai palazzi di S. Giovanni in Laterano ivi inclusi quelli musivi delle Terme di Caracalla, è stata vissuta come una sfida, rispetto alla quale la mente chiara, luminosa e “anagrammatica” di Lucio Passarelli ha avuto la meglio. In questo museo la luce gioca un ruolo fondamentale penetrando da asole e bucature rettangolari e circolari ubicate a varie altezze e anche dall’alto. Inoltre, l’esperienza della copertura a corda molle sperimentata nel Padiglione a Montreal è stata qui ripresa per coprire con grande leggerezza e naturalezza strutturale i preziosi mosaici.
Villa del Sole (1974), progetto al quale ha partecipato Alessandra Muntoni come collaboratrice, è un’opera neo-brutalista di indubbio interesse che sembra aver voglia di rielaborare e dettagliare i settori circolari dell’asse attrezzato.
Questo decennio si conclude con un forte impegno sul tema della residenza agevolata pubblica, a seguito del quale vengono prodotti gli schemi Ispredil utilizzati per la legge 513, e le sperimentazioni a Ponte di Nona, ma che in ultima analisi culmina nella realizzazione a Roma di due vaste parti di città: i Piani di Zona in via di Vigne Nuove (1977) e in via Torrevecchia (1979). Tanto architettonicamente superiore il primo, con volumi scattanti e ritmi scanditi dai corpi scala che vengono estromessi dal corpo di fabbrica diventando colonne di ordine gigante, quanto urbanisticamente indovinato il secondo, nell’esposizione nord-ovest dell’intervento verso il tramonto sulla campagna romana e nel parterre verde contenuto tra le residenze.
Gli anni ’80 hanno inizio con la progettazione del Centro Direzionale FIAT in Corso Ferrucci a Torino, eseguita con Ludovico Quaroni, nella quale si realizza un corpo planimetricamente a “L” (iniziale di Lucio e di Ludovico), che qui come nel carattere tipografico ha due spessori diversi. Il segmento maggiore è costituito da un corpo quintuplo con trasversalmente ben cinque pilastri, per una larghezza in sommità del corpo di fabbrica di 29 ml. L’angolo della “L” viene scavato in modo scultoreo così da realizzare un ingresso asimmetrico e dinamico al complesso.
E’ del 1981 il successo al concorso per la progettazione del Centro Direzionale Alitalia, una cittadella di uffici che affida a un segno diagonale la rottura della serialità di quattro corpi paralleli. Il progetto esecutivo verrà poi eseguito principalmente dallo Studio Valle, un’altra importante famiglia di progettisti romani con una storia che per lunghezza e ricchezza di avvenimenti si avvicina a quella dei Passarelli.
Il coordinamento urbanistico ed edilizio dell’Intervento a Tor Bella Monaca (1982-95), incarico che nelle varie fasi durerà tredici anni, porta alla realizzazione di un quartiere per 28.000 abitanti, includendo tutte le infrastrutture, le scuole e parte dei servizi generali. Altri progetti notevoli caratterizzano questo decennio, quali sono l’edificio direzionale in Corso Sempione a Milano, la ristrutturazione della Crediop e la chiesa di San Vigilio a Roma. Ma si registrano anche due sconfitte: nell’appalto concorso per i Nuovi Insediamenti della Banca d’Italia a Frascati (1982) finemente ideato con Marcello Rebecchini, e nella gara di concessione per la Seconda Università di Roma a Tor Vergata (1985) alla quale Passarelli partecipa con lo Studio Transit. Ma, forse, dopo la vittoria del concorso Alitalia sarebbe stato difficile ottenere un altro importante successo a così breve distanza di tempo.
Gli anni ’90 si aprono con il trionfo internazionale su 450 progetti partecipanti al concorso per il museo dell’Acropoli di Atene con uno schema progettato insieme a Manfredi Nicoletti che, sia per forma sia per proporzioni, risulta esemplare e chiarissimo: un prisma planimetricamente più vasto del Partenone, per non troppo impattare e competere con tanta maestosità e resistenza nei millenni, si ruderizza anzitempo, “affossandosi” a seguito di un iniziatico cedimento tellurico. Una lunga “palpebra” – in seguito riproposta nel progetto della chiesa dei SS. Martiri di Selva Candida realizzata a Roma nel 2005 – mette in comunicazione visiva lo spazio interno del museo con l’Acropoli. Purtroppo questo straordinario progetto, giustamente sostenuto da Bruno Zevi, non verrà realizzato. Con gli elaborati definitivi ormai pronti, il Governo Greco, per la presenza di ritrovamenti archeologici che precedentemente erano stati ufficialmente dichiarati ininfluenti, chiese una variante al progetto e ottenne che, per la normativa della comunità europea, essa non potesse essere eseguita dai progettisti in atto, necessitando di una nuova procedura concorsuale. Motivo pretestuoso dovuto presumibilmente all’assenza di architetti greci nel gruppo. Nel nuovo concorso, con pochissimi partecipanti, vince l’architetto greco Michalis Fotiadis che si presenta con Bernard Tschumi.
E’ del 1995 il progetto di restauro e ristrutturazione dell’edificio di Aschieri dell’ex Istituto dei Ciechi di Guerra in via Parenzo, che diventa la sede della LUISS. L’intervento, che ha prima riportato l’edificio allo stato originario e successivamente vi ha inserito degli elementi attuali, ha vinto il premio Europa Nostra (1995-96).
Nel 1996, allorquando i Musei Vaticani vollero studiare la possibilità di realizzare un nuovo ingresso e un nuovo grande spazio di accoglienza così da poter utilizzare la monumentale rampa elicoidale solo per l’uscita (progettata da Giuseppe Momo sotto l’influenza di Papa Pio XI che desiderava ripetere il motivo del pozzo di San Patrizio di Orvieto), venne nuovamente chiamato per l’ideazione del progetto lo Studio Passarelli, questa volta insieme a Sandro Benedetti e ad Angelo Molfetta. Si trattava ancora una volta di un dialogo serrato con le preesistenze: l’inserimento in spazi interstiziali interrati a ridosso delle mura della Città del Vaticano di una nuova spazialità parzialmente ipogea e di una rampa che doveva collegare la quota stradale con il soprastante Cortile delle Corazze.
Per lo Studio il secolo si conclude con la ristrutturazione della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma in via di Castro Pretorio (1999) con un’architettura degli interni che, a distanza di circa quarant’anni dall’originaria realizzazione, ne ravviva gli spazi sbiaditi dal tempo, tramite l’inserimento di una spina ondulata e forti cromatismi sui toni del blu, del verde e del magenta.
Nel decennio in corso si segnalano in particolare due progetti: il Palazzo dei Congressi di Riccione e la chiesa dei SS. Martiri di Selva Candida a Roma. Con il primo, eseguito con Alessandro Anselmi, Carlo Gandolfi e Piero Gandolfi, ci troviamo di fronte al tentativo riuscito di dare una coerente risposta progettuale a un tema di architettura complesso – sul quale altri architetti si sono recentemente arenati – una risposta al contempo efficiente, aggiornata e innovativa. Con il secondo, l’elemento d’interesse primario è costituito dall’aula liturgica, spazio coperto da una vibrante struttura lignea nel quale si contrappongono due sistemi geometrici: uno curvo, romanico, con una finitura sobria in semplici filari di mattoni, l’altro ortogonale, intonacato, con pilotis a tutta altezza dal sapore purista. La composizione planimetrica dell’insieme – che richiama la falce e il martello – produce non solo un volume nel territorio ma anche uno spazio urbano particolarmente idoneo per una chiesa (lo stesso che, sia pur a scala molto diversa, avviene a San Pietro, a Loreto, a San Marco, e altrove). Lo slancio presente in questa parete curva genera un grande abside, disposto asimmetricamente, che si protende verso i fedeli con l’abbraccio amichevole e protettivo del suo mantello murario.
A seguito della radazione del presente volume e della stesura di queste brevi note introduttive invito il lettore a seguire, dal dopoguerra in poi, il filo logico costituito dalla segmentazione dell’opera architettonica dello Studio Passarelli in periodi di dieci anni. Ciò al fine di comprendere pienamente, servendosi oltre che di una visione continuativa anche di uno sguardo puntuale, un arco temporale di lunghezza doppia rispetto a quella di qualsiasi singolo progettista.
Una riflessione sul presente e sul futuro.
Dagli inizi degli anni ’90, ovvero da quando il computer ha iniziato a diffondersi negli studi fino a oggi – assumendo i ruoli di tecnigrafo, archivio, navigatore e altro – il confronto con l’innovazione si è fatto sempre più serrato tanto da imporre a tutti, nessuno escluso, continue revisioni e aggiornamenti. Gli studi di architettura sono stati violentemente colpiti dal transito di questo “Angelus Novus” che ha prodotto effetti epocali con il furioso vento che si è lasciato alle spalle. Ma qui è presente una solida traccia, ben visibile e inalterata. E la sfida che si perpetuerà nei prossimi decenni sarà quella di rispondere a tale rinnovamento valorizzando, come lo Studio Passarelli ha sempre saputo fare, gli elementi di continuità con il passato e, al tempo stesso, d’innovazione verso il futuro. Facendo leva su una lunga, pienamente vissuta e autentica tradizione verso l’Architettura.
Desidero ringraziare Tullio Passarelli per il formidabile e costante impegno profuso nell’organizzazione del lavoro, nella raccolta dei materiali, nella redazione del regesto, della bibliografia e nella correzione dei testi. A Lucio Passarelli va il mio più grato ringraziamento per non aver esitato ad affidarmi il compito di redigere così numerose pagine di una vera storia dell’architettura.Alessandro Anselmi
Un contributo alla identità moderna dell’Architettura a Roma
Chi vorrà affrontare, finalmente, la descrizione di una storia architettonica della città di Roma aprendosi alla ricchezza e complessità delle proposte progettuali, costruite o no, dovrà tenere bene in conto la corposa produzione dello Studio Passarelli. Non perché questa produzione sia sconosciuta nell’ambito della ricerca storica su Roma quanto perché essa va in qualche modo “ricollocata” nello sviluppo e crescita della città verso livelli di più alta consapevolezza culturale; e questo nonostante la “riservatezza”, sempre dimostrata dai suoi appartenenti, dal fondatore Tullio fino ai figli Vincenzo, Fausto, Lucio ed ai giovani Maria e Tullio Jr. e Tullio Leonori.
Lo studio Passarelli é uno studio Romano, nel senso che attraverso la sua produzione spiega bene un tipo di linguaggio assai diffuso nello spazio cittadino, tanto da divenirne archetipico senza tuttavia cadere mai nella “romanità”, nello storicismo o peggio nel vernacolare.
Alla fine degli anni venti ed all’inizio degli anni trenta avviene a Roma una trasformazione rapidissima dell’immagine architettonica che sa di mistero, ed è ancora tutta da spiegare. Si passa, infatti, nel giro di circa cinque anni dalla città del barocchetto e degli ornati, più o meno classicheggianti, ad una città di pure superfici, dove aggetti e balconi giocano come libere geometrie nello spazio.
Questa trasformazione non è spiegabile solo con l’indiscusso rinnovamento culturale che si attuò in quel periodo, ad essa contribuirono, insieme a ragioni e problemi molto complessi che non riteniamo affrontare in queste brevi note, anche le nuove dimensioni tecnico-economiche delle imprese edilizie, le inedite esigenze dello sviluppo della città, allora ben esemplificate nel P.R.G. piacentiniano del 1931, e non da ultimo, un valente gruppo di architetti ed ingegneri che seppe con maestria tradurre in un linguaggio nuovo ed originale sia le esigenze colte scaturite dal dibattito internazionale sia le aspettative di rinnovamento estetico desiderate dalla società dell’epoca.
Nacque allora, quasi improvvisamente, il “moderno” a Roma e subito si diffuse, soprattutto nell’edilizia residenziale, senza possibilità di ritorno. Sorse una nuova immagine della città, dove lo stucco decorativo e l’ornato in cemento prefabbricato furono sostituiti dal taglio netto dei travertini e dai paramenti in mattoni a vista, tesi a sottolineare, insieme agli intonaci lisci e chiari ed alle finestre “orizzontali”, la natura “astratta” di questa nuova architettura.
A partire dagli anni trenta Roma diviene a pieno titolo ed esclusivamente una città moderna (almeno esteticamente, e non è poco) che attraverso la dialettica tra architettura accademica, ridotta alla sua essenzialità geometrica e a vago archetipo storicista e “metafisico”, ed edilizia “razionale”, più sensibile ad esigenze d’avanguardia, esprime tuttavia una sua specifica identità.
Vi furono opere di grande valore (si pensi agli edifici postali) ed opere di pura routine professionale tutte però collocabili all’interno di questa nuova dimensione estetica.
Da allora in poi è possibile parlare di uno sviluppo della figurazione architettonica moderna e quindi di una sua storia e di una sua trasformazione nella continuità.
A questa storia e questa trasformazione appartiene (naturalmente a partire dagli anni trenta) tutta la produzione dello studio Passarelli.
Il grande blocco del silos granario sul lungotevere Pietra Papa inizia, con la sua decisa geometria razionalista, il cammino dello studio nella nuova avventura estetica della città, seguito qualche anno più tardi dalle palazzine di via di Villa Grazioli, di via Oglio e dal Villino di via Salaria. A parte la singolare architettura dell’edificio per il Consorzio Agrario Provinciale dotata di grande forza espressiva, le palazzine ed il villino danno già la misura delle scelte dei Passarelli nell’ambito dei nuovi linguaggi; sono realizzazioni che testimoniano il rigore funzionale e la saggezza formale che diverranno in seguito le caratteristiche dello studio.
Anni dopo, passata la guerra, é doveroso rammentare la partecipazione dello studio, insieme agli Arch. Paniconi e Pediconi, al progetto ed alla realizzazione dell’Istituto Mobiliare Italiano in Via delle Quattro Fontane. E’ questo uno degli edifici più interessanti del dopoguerra per la sua alta qualità formale spinta anche nei più minuti dettagli e per la capacità di “dialogo” che stabilisce con il contesto storico circostante. Una dimostrazione, valida anche oggi, di come una architettura moderna possa convivere in ambiente storico addirittura migliorandolo, apportando nuovi “valori”.
Non è possibile in questo scritto affrontare l’analisi delle tante architetture prodotte a partire da quegli anni dallo studio Passarelli, d’altra parte non è mia intenzione vestire i panni dello storico che non mi appartengono, la mia vuole essere semplicemente una testimonianza, uno sguardo di un architetto verso le opere di altri architetti.
Tuttavia questo sguardo non può non soffermarsi sul bianco parallelepipedo dell’Istituto Marymount quando appare sospeso nel vuoto, lassù sulla collina, nel percorrere l’antica via Cassia. Una stereometria arricchita dai tagli verticali delle finestre che dialoga con le masse laterizie degli altri edifici del complesso e con le sagome scure dei pini e dei cipressi inseriti in un paesaggio millenario. Un altro esempio eccellente di dialogo, questa volta tra architettura moderna e contesto naturale.
E poi l’edificio sicuramente più noto dello Studio, quello di via Campania sul quale si è scritto molto, quasi sempre con giudizi favorevoli, ampiamente condivisibili. Qui sembra necessario rammentare la metodologia compositiva usata, consistente nell’accettare la contrapposizione tra la massa vetrata sottostante e la complessa spazialità della parte superiore, senza alcuna pretesa di “ricondurre ad unità” l’insieme architettonico, anzi al contrario facendo leva su questa contraddizione per trarne il massimo della forza espressiva, con risultato eccellente. Qui il rigore funzionale e la saggezza formale tipiche dello studio superano la buona qualità professionale per entrare nel mondo delle architetture di eccellenza, quelle che segnano in qualche modo un tempo ed una città. Infatti, conveniamo con chi considera questa architettura tra le più significative della Roma della seconda metà del secolo.
Sorvolando su molti progetti e consulenze urbanistiche come quella per il P.R.G. di Roma é interessante porre attenzione a grandi complessi edilizi come gli edifici I.A.C.P. di Vigne Nuove o il centro direzionale Alitalia alla Magliana ed anche a brillanti esercitazioni progettuali come alcuni concorsi tra cui quello per la sistemazione dell’Acropoli ad Atene vinto ma purtroppo non costruito.
Ed infine vanno ricordate recentissime realizzazioni quali la nuova sistemazione degli spazi di accoglienza dei Musei Vaticani, la rinnovata architettura interna della Biblioteca Nazionale ed il complesso Parrocchiale di Selva Candida a dimostrazione sia della saggezza compositiva sia della coerenza linguistica all’interno delle trasformazioni del “moderno” che, come abbiamo già detto, caratterizza da sempre la produzione dello studio.
Ma non possiamo terminare queste fugaci riflessioni, fino ad ora concentrate sulle esperienze degli ultimi sessanta anni, senza prendere in considerazione l’attività iniziale che come solido tronco ha generato e supportato l’intera produzione centenaria.
Anche per questo periodo, con caratteristiche estetiche completamente diverse, in effetti, è possibile rilevare il medesimo atteggiamento di “saggezza progettuale”, appena descritto, a testimonianza della capacità dello Studio di saper cogliere nella loro evoluzione gli aspetti qualitativi dei linguaggi caratterizzanti le trasformazioni storiche. Ne deriva un atteggiamento espressivo senza forzature formali, probabilmente, tranne qualche eccezione, senza opere di valore assoluto ma anche senza cadute nel professionalismo di maniera.
Le due chiese ad esempio così originali nella Roma d’inizio secolo e così bene “ambientate” in un contesto fortemente marcato dalle Mura Aureliane e dai vicini resti della villa imperiale di piazza Sallustio, rappresentano bene questa capacità di progettazione dialettica svolta tra “identità alta” del manufatto costruito e sua “leggibilità” da parte di un vasto pubblico.
Ma ancora di più, ciò è dimostrato dalle belle ville costruite per i Duchi Caetani ai Parioli ed al Gianicolo, dalle scuole di Via Salvini e dal villino Monami, sempre al Gianicolo, dove la complessità spaziale e la contrapposizione dei materiali, sempre risolte con grande finezza di disegno, divengono “tipiche” della stagione dell’eclettismo romano.
Per concludere, vorrei ricordare la considerazione, fatta all’inizio, sulla “identità romana” delle architetture dello Studio Passarelli, sottolineando di nuovo l’aspetto “moderno” di questa identità. Ritengo che ciò sia necessario ed utile in questo momento storico nel quale la città sta cercando di nuovo un suo modo espressivo contemporaneo, il quale, minacciato da pretese metodologie di ambientamento storicista, non può esistere al di fuori di quella sua matrice “moderna”.
In questa “modernità” sta il significato architettonico e civile di tante opere progettate e costruite dallo Studio P. che ormai fanno parte integrante dei “valori” del patrimonio urbano contemporaneo della città di Roma.Giorgio Muratore
E’ un caso assai raro quello di poter avere sotto gli occhi l’attività di uno studio di architettura che ha svolto con ininterrotta continuità familiare il suo lavoro per oltre un secolo. Forse addirittura un caso unico nel suo genere, almeno a Roma. Eppure è quello che accade sfogliando le pagine di questo volume ove sono state raccolte in sintesi cronologica un centinaio di opere per un numero circa pari di anni a testimonianza di uno dei più prestigiosi studi romani di architettura: lo Studio Passarelli. Si tratta quindi in certo modo di un unicum che testimonia con abbondanza di documentazione lo sviluppo secolare di un’attività professionale svolta lungo l’arco di più generazioni che dalla fine del diciannovesimo secolo, fino ad oggi, ha contribuito in maniera determinante alla definizione di un’immagine architettonica e di una realtà urbana capace in più di un’occasione di identificarsi con l’immagine stessa della città di Roma.
A partire dalle prime opere di Tullio Passarelli, fino a oggi, attraverso il lavoro di almeno tre generazioni di architetti romani ecco quindi snodarsi una vicenda che nella sua sintesi ripercorre in formule significative l’esperienza architettonica di una città, le sue metamorfosi, i percorsi logici e culturali, professionali e figurativi che, dalla Roma umbertina, appena capitale, giunge fino a noi.
Le prime opere di Tullio Passarelli chiudono un secolo che per Roma era stato denso di eventi e di trasformazioni e ne aprono un altro che sarà ancora più ricco del precedente e attraversato da stagioni, eventi e fermenti che ne hanno, ancor più, prepotentemente condizionato l’immagine attuale. Sintetizzare le linee portanti di un’evoluzione storica di tale portata non è quindi agevole e non si presta neppure a semplificazioni e a scorciatoie densa com’è di eventi e di materiali la vicenda che andiamo affrontando.
L’opera di Tullio Passarelli si snoda quindi per più di un quarto di secolo individuando, al di là delle specifiche declinazioni stilistiche e strutturali del suo linguaggio, sulle quali ritorneremo più avanti, nella definizione di una cifra progettuale e comportamentale di grande interesse e che, in qualche misura, darà il tono all’intera e diversamente articolata vicenda progettuale dello studio. Nel panorama romano del primo novecento la sua architettura si impone, non tanto per la ricerca corriva ed estenuata dei nuovi linguaggi che in tanti non esitarono a far propria, quanto soprattutto per la capacità di far evolvere dai maestri, quali potevano essere Vespignani, Carimini, Calderini, Milani, Magni e Podesti, una capacità logica e una chiarezza strutturale capace di individuare con chiarezza una specifica e intrinseca qualità del prodotto edilizio ove i vari esperimenti tipologici, chiese, collegi, magazzini, abitazioni, fungono da supporto ad un’edilizia di grande rilevanza nella definizione del carattere della Roma che in quegli anni si andava costruendo, soprattutto, nelle aree più periferiche. Un’edilizia quindi che non subisce i condizionamenti e che sfugge alle logiche delle grandi opere pubbliche e monumentali che si andavano maturando in quegli anni, per privilegiare nel suo porsi come servizio, una mole assai notevole e mutevole di incarichi che, alla distanza, sanno ancora esprimere i tratti salienti di una qualità che promana dal ben costruire, da un’onestà intrinseca alla costruzione stessa, che non pare mai sormontata da enfasi calligrafiche e da facili cedimenti stilistici pur così diffusi in quegli stessi anni e non solo.
Si tratta di opere come il collegio De Merode, la prima delle architetture documentate in questo volume, che già dimostra della maturità e dell’attitudine a confrontarsi con tematiche complesse, pur risolte con l’attenzione ad un sommesso linguaggio internazionale che trova le sue radici nell’eclettismo francese di fine secolo e insieme in accenti di non improbabile ascendenza semperiana.
Ma il complesso di opere sicuramente più rilevanti di questi primi anni è costituito dall’insieme delle tre chiese, quella di santa Teresa al corso d’Italia, quella per i padri di Monfort in via Sardegna e quella di san Camillo in via Piemonte, tutte racchiuse nel triennio che dal 1903 va al 1906, e che si impongono con chiarezza e determinazione nel panorama, ancora in gran parte inedificato, di quel settore urbano che dagli Orti Sallustiani si allarga poi, ben oltre il perimetro aureliano, tra la villa Borghese e la via Salaria nella direzione dei colli Parioli e che sarà lo scenario anche di tante altre e successive presenze progettuali dello Studio.
Siamo qui di fronte a realizzazioni di grande e già complessa maturità attinente a quel revival medievale che oltre i recuperi vespignaneschi, ancora attraverso le opere dello Street romano e sulla scia di un’attenta e non superficiale rilettura di Viollet, pongono il giovane Passarelli a diretto confronto con i grandi temi dell’edilizia coeva e dove si pongono in risalto una serie di formule di intelligenza delle problematiche più attuali che avranno la capacità di riverberarsi ancora in profondità sulla parte migliore dell’edilizia religiosa romana con incursioni capaci di travalicare addirittura il secondo conflitto mondiale. Si tratta di edifici assolutamente fondamentali per comprendere lo sviluppo successivo, sia di una consistente parte dei lavori dello studio, quanto e soprattutto capaci di individuare, in apparente controtendenza, alcune linee guida della migliore architettura romana del novecento. In questo assimilabili e congruenti, per più di un verso, ad alcune opere del Magni, del Cirilli, del Busiri-Vici e del Piacentini, segnatamente, la Villa Marignoli all’angolo tra corso Italia e via Po e ancora, poco oltre e lungo la medesima il villino del Cirilli e con l’altra sua fondamentale opera di viale della Regina, come pure con la chiesa di via Cernaia. Si tratta di opere capitali nella fenomenologia architettonica della Roma di quegli anni; tipologia, struttura e decorazione trovano qui modo di sintetizzarsi con pienezza di risultati e che, pur nella sobrietà sostanziale di un impianto chiesastico, sono capaci di individuare, dopo le incertezze dei primi anni di Roma capitale, una via originale per la riappropriazione del territorio romano da parte della Chiesa di Roma.
Le articolazioni lessicali e materiche del linguaggio neoromanico ben si prestano a dar senso ai nuovi edifici religiosi romani in palese antitesi rispetto alla prevalenza laica del classicismo coevo di Koch, di Sacconi, di Calderini o di Manfredi.
Ancora in questa scia, con rintracciabili tangenze alla poetica di certe opere del Basile, la villa Caetani-Grenier a via dei Monti Parioli e soprattutto la villa Caetani al Gianicolo ove il neomedievalismo di fondo trova modo di arricchirsi e di contaminarsi con più estese sfumature di ascendenza internazionale e insieme con un uso già disinvolto delle nuove strutture in cemento armato. Villa Caetani si impone quindi per la ricchezza della sua articolazione volumetrica e insieme per la particolare scelta stilistica ancora attenta a certi echi provenienti dalla lezione di Tony Garnier.
Testo esemplare direttamente riferibile alle tematiche desumibili dai grandi temi, in questo caso desumibili dalla Cité Industrielle, sono poi senz’altro i grandi contenitori e gli impianti dei Magazzini Generali all’Ostiense che, se da un lato costituiscono uno dei pochi frammenti realizzati del grande sogno industriale di Orlando per la sistemazione della zona portuale romana, dall’altro si costituiscono oggi come uno degli argomenti centrali nella recente vicenda archeologico-industriale della città. Il loro impianto volumetrico e il possente profilo metallico dei grandi carri-ponte che li connette alle banchine di carico costituiscono a tutt’oggi uno dei punti di riferimento visivo e simbolico dell’intera area in via di radicale ristrutturazione. Qui le memorie dei Doks londinesi si fondono con le suggestioni neorealistiche del Vespignani pittore integrandosi, oggi, con lo scenografico scheletro del più grande gasometro romano. L’assoluta aderenza del complesso alle ragioni funzionali e distributive del percorso e dello stoccaggio delle merci, ove nulla è concesso a ragioni che esulino dall’immediatezza delle loro ragioni tecniche, fanno di quest’opera uno speciale manifesto del protorazionalismo e aprono altresì ad un altro significativo capitolo dell’attività specifica dello Studio, che tornerà ancora e più volte su analoghe tematiche, sia nel medesimo contesto urbano che altrove, dando risposta alla specifica committenza per i grandi Consorzi Agrari.
Caso, in certo qual senso, singolare, vuoi per la specifica destinazione d’uso, vuoi per il particolarissimo contesto nel quale va a collocarsi, la sistemazione della Borsa Valori e Camera di Commercio in piazza di Pietra ove si intrecciano esigenze funzionali e simboliche, tecniche ed archeologiche di eccezionale rilevanza. Già Dogana di Terra su progetto di Francesco Fontana e più oltre modificato da Virginio Vespignani nella seconda metà del diciannovesimo secolo prima dell’intervento definitivo del Passarelli, il complesso, alloggiato negli spazi del tempio di Adriano, subirà modifiche ulteriori fino ad assumere la sua attuale configurazione. Ad una primitiva soluzione in struttura metallica farà quindi seguito una soluzione in struttura continua caratterizzata da ampie partiture a lacunari in vetrocemento a dar luce dall’alto agli ampi spazi che ospitavano i recinti borsistici delle grida. Particolarmente impegnativa la sistemazione del prospetto sulla via che porta alla piazza ove l’ampia partitura dell’ordine gigante, che riprende le dimensioni delle colonne affacciate su piazza di Pietra, dialoga attraverso forti accenti chiaroscurali, in alto, con l’attico e, in basso, con le massicce dimensioni del portico che anticipa lo scabro classicismo dei portici perimetrali della grande sala interna.
Ulteriori flessi linguistici porteranno l’architettura romana a riflettere in formule rinnovate sui temi del barocco dando vita fin dai primi Venti alla stagione del cosiddetto “barocchetto” di cui troviamo puntualmente traccia nella sistemazione di villa Parodi in via Aldrovandi ove, in sintonia con altre analoghe coeve radicali ristrutturazioni limitrofe villa Taverna o altre opere del Busiri-Vici a via Po e via Pinciana, il linguaggio della villa barocca suburbana si contamina e si decanta con gli etimi più profondi dello spirito barocco romano già indagato da Giulio Magni sulla scia del fondamentale contributo del padre Basilio e che saranno alla base di una delle stagioni più feconde del novecento progredendo anche per il tramite delle “ville romane” di Giorgio De Chirico verso le architetture di Luigi Moretti e, più oltre ancora, verso quelle di Paolo Portoghesi. Un’architettura, quella di villa Parodi, che si imparenta fortemente con le esuberanze dello spregiudicato linguaggio brasiniano di villa Flaminia e di villa Manzoni e che denuncia di una koiné poetica tra i due che già si erano incontrati lavorando, fianco a fianco, nella fabbrica di santa Teresa e in quella di san Camillo.
Nello stesso contesto urbano Pinciano-Parioli troviamo ancora il convento delle Carmelitane, l’istituto del Sacro Cuore e dell’Adorazione e il San Gabriele, rispettivamente in via dei Tre Orologi, in via Salvini e in viale Parioli che se, da un lato, a livello urbano, si definiscono come architetture pioniere in quella che allora era ancora l’estrema periferia nord della città, d’altro canto, sul piano architettonico, testimoniano di un’ulteriore semplificazione del linguaggio che pare fortemente imparentato con le coeve esperienze del Governatorato romano in tema di edilizia scolastica e in particolare con le esperienze di Vincenzo Fasolo e di Oriolo Frezzotti. Ancora per una committenza religiosa, che sarà poi quella che, anche più tardi, alimenterà a lungo il lavoro dello Studio, altre importanti opere come l’ampliamento della Pontificia Università San Tommaso-Angelicum a Magnanapoli, la casa generalizia dei Padri Domenicani annessa al convento di santa Sabina all’Aventino e quella dei Fratelli delle Scuole Cristiane sulla via Aurelia ove, specialmente nei due primi casi, vengono affrontati con successo e determinazione complessi problemi di ambientazione dovuti alle specifiche difficoltà di un contesto fortemente storicizzato.
E’ di questi anni un’opera, a sua modo singolare, che si colloca a ponte tra l’esperienza dei Magazzini Generali, dei quali risulta peraltro e non a caso dirimpettaia, e quella dei Consorzi Agrari che, nel secondo dopoguerra, assorbiranno ancora l’attenzione dello Studio su analoghe tematiche: il gigantesco silos granario per il Consorzio Agrario Provinciale a lungotevere di Pietra Papa, meglio conosciuto con il nome di “Granaio di Roma” e oggi purtroppo avvilito da recenti e più che incaute ristrutturazioni. Opera eccezionale che poteva confrontarsi per dimensione e perentorietà con gli opifici Pantanella fuori Porta Maggiore e ad essi accomunata anche in quanto agli sciagurati esiti di recenti e improvvide forme di valorizzazione speculativa, la grande fabbrica contribuiva, fin qui, con il suo profilo caratteristico, a segnare l’area industriale sulla riva destra del Tevere che già ospitava tra gli altri i Mulini Biondi e la Mira-Lanza. Confrontabile per qualità e significati intriseci alle coeve realizzazioni di Aschieri e Morpurgo l’edificio del Consorzio Agrario rappresentava un testo fondamentale dell’architettura industriale romana con particolare riguardo alle strutture in cemento armato che, a partire proprio dagli anni trenta, troveranno nella scuola di ingegneria e in quella di architettura un eccezionale luogo di diffusione con interessanti riverberazioni sulla produzione edilizia, civile e industriale, dei decenni successivi.
Sono questi gli anni in cui entrano in crisi i linguaggi più contaminati con lo storicismo accademico per una più distesa e diffusa affermazione dei caratteri di un’architettura “moderna” che soprattutto sulla base di un’innovazione tecnologica non certo radicale, ma sicuramente attenta anche e soprattutto ai valori di una sostanziale economia di cantiere portò a privilegiare una certa sobrietà nelle forme, nelle tecnologie e nei materiali più usati.
Sono questi gli anni ove, superate le polemiche più roventi in merito allo “stile” razionalista che avevano infervorato il dibattito tra gli ultimi anni Venti e i primi Trenta, il discorso sulla costruzione moderna trova modo di stemperarsi in formule meno aggressive, più accessibili al grande pubblico e quindi capaci di attingere ad una più vasta popolarità. Sono questi gli anni ove le personalità emergenti sulla scena romana, da Libera a Ridolfi, da Moretti a Capponi, da Morpurgo a De Renzi, da Aschieri a Filippone riescono a superare i pur sofisticati modelli piacentiniani di ispirazione mitteleuropea, con segnati riferimenti a Hoffmann, a Loos e a Vago, per recuperare una via romana alla “palazzina” che, di lì in poi costituirà la cifra tipologica dell’espansione edilizia privata della città. Anche in questo settore la presenza dello Studio contrassegnata evidentemente ormai dalla collaborazione delle generazioni più giovani ci lascia delle testimonianze di sicura rilevanza. In particolare, il gruppo di palazzine e di villini realizzati lungo l’asse della via Salaria all’altezza di Villa Grazioli e all’incrocio con via Panama, costituiscono un testo esemplare per documentare il passaggio tra gli ormai definitivamente obsoleti stilemi del barocchetto e una più aggiornata via romana alla modernità segnata, da un lato, da un cauto approccio agli etimi novecentisti provenienti da Muzio e dal secondo Piacentini e dall’altro alla sperimentazione di nuove formule tipologiche, tecnologiche e linguistiche, particolarmente care alla scuola di ingegneria di Roma ove la lezione del Milani, soprattutto, era stata in grado di produrre un serio e costruttivo approccio ai temi della modernità evitando quelle fughe in avanti magari più frequentate, in quegli stessi anni, nei ristretti circoli più radicali degli architetti “di tendenza”. Da questo punto di vista gli edifici in questione ben rappresentano un punto di incontro assai felice e ragionevole tra le ragioni delle poetiche citate avvalorando un’ipotesi compositiva ove le qualità intrinseche di un edificio “ben costruito” si sposano con le esigenze di solida autorappresentazione di una classe borghese aliena dagli eccessi segnaletici di una modernità, per lo più, assunta a simbolo di una nuova realtà politica come quella definitivamente affermatasi nel paese in quegli stessi anni. Palazzine quindi “moderne” a tutti gli effetti, ma anche capaci di dialogare fruttuosamente con la tradizione, secondo un modello culturale assai solido cui in quegli stessi anni magari attingevano personalità diverse come Broggi, Foschini, Franzi, Marchi, Tufaroli o Luccichenti, che di quella stessa realtà sono stati tra gli interpreti migliori sulla scena romana. Sono di questo periodo anche le partecipazioni ad alcuni dei numerosi concorsi banditi per dar forma alla nuova immagine della Roma fascista, risultati, comunque, senza esito anche per la evidente, coltivata, estraneità etico-culturale dello Studio alle necessarie e specifiche contiguità alla realtà politica contemporanea.
E’ con la ripresa edilizia del dopoguerra che l’attività riprende intensa e capace di definire un’importante nuova stagione assai ricca di occasioni professionali e di progetti. Progetti realizzati, nella loro generalità, e capaci di definirsi con una forza ed un’immagine profondamente rinnovate che, pur mantenendosi nell’alveo di una committenza già collaudata da alcuni decenni, sono capaci di imporsi ancora sulla scena cittadina con caratteri di assoluta autonomia, rigore e sperimentata professionalità. Sono gli anni del cosiddetto boom edilizio ove ad una cospicua accelerazione della domanda corrisponde la capacità di una messa a punto tecnica e figurativa delle nuove formule insediative capace di corrispondere in maniera esemplare al rinnovato clima politico-culturale del momento. La rinnovata presenza della Chiesa di Roma sulla scena nazionale e cittadina fa così ritrovare anche alle disseminate strutture ad essa connesse una nuova capacità di proposta e di progetto che si inserisce in maniera determinante anche nelle mutate e particolarmente vitali condizioni di sviluppo urbano della capitale. Le nuove accelerazioni che le dinamiche fondiarie andavano assumendo, sia nelle aree centrali, ma soprattutto in quelle periferiche, fecero sì che, in analogia con quanto già avvenuto nei primi vent’anni del secolo, lo Studio ritrovasse la capacità di imporsi in maniera non secondaria nelle dinamiche evolutive del processo di costruzione della Roma contemporanea. Sono di questi anni, infatti, progetti numerosi e disseminati che fanno dello Studio uno dei riferimenti centrali sullo scenario professionale locale, tanto da renderlo, nel giro breve di pochi anni, uno dei più accreditati referenti capitolini.
Nel ventennio tra il ‘50 il ‘70 lo Studio attraversa quindi una stagione di altissima produttività ove si susseguono occasioni di grande rilevanza progettuale, alcune sicuramente eccezionali, tutte occasioni comunque nelle quali la sperimentata affidabilità del nutrito staff di progettisti e di collaboratori, consentì di portare a termine opere numerose e tutte caratterizzate da una non indifferente attenzione alla qualità intrinseca di un prodotto edilizio cui la capacità di resistere al tempo e alle mode conferisce oggi l’evidenza di un testo essenziale al fine di decifrare, nella sua anche e magari contraddittoria complessità, la ricchezza di un periodo storico cui si comincia finalmente a guardare con l’attenzione che merita al di fuori delle polemiche, soprattutto ideologiche, che ne avevano, per lo più, segnato i momenti di flesso e di sviluppo. Guardare, finalmente, a quegli anni con l’attenzione che meritano consente oggi di verificarne con maggiore sobrietà, i risultati avendo la capacità di selezionare le numerose opere di valore, fin qui, offuscate da una critica disattenta e spesso faziosa.
Fin dai primi anni cinquanta lo Studio si impegna quindi in una fertilissima operazione di riconversione, anche stilistica, del proprio repertorio che si evolverà in una formula ben riconoscibile anche alla distanza ove alla sobrietà del partito linguistico farà riscontro una straordinaria capacità di risolvere i problemi contestuali e funzionali di una committenza che, via via e nel corso di pochi anni, assume aspetti sempre più complessi e ambiziosi.
Tra le prime opere di questo fortunatissimo periodo di attività professionale, quasi ad aprire con un’opera importante una fase tra le più consistenti della sua attività, in collaborazione con lo sperimentato e altrettanto qualificato sodalizio dello Studio Paniconi e Pediconi va senz’altro annoverata la realizzazione della nuova sede dell’Istituto Mobiliare e dell’Istituto Italiano Cambi in via delle Quattro Fontane, un’opera tra le più significative del dopoguerra romano, una dimostrazione esemplare di come l’architettura possa e debba dialogare con il contesto storico al di là di fraintendimenti e ipocrisie che ancora oggi sono alla base dello stento dibattito sul tema. In un contesto tra i più delicati, a pochi passi, anzi, in diretta contiguità con una delle opere più importanti dell’architettura di tutti i tempi, il san Carlino borrominiano, il nuovo edificio, che si svolge con un lungo fronte sull’asse sistino delle Quattro Fontane e si connette attraverso un’ampia cavità basamentale con via Piacenza, di cui altrimenti funge da fondale sul suo fronte posteriore, si connota per la straordinaria capacità di interpretare nella maniera più matura la complessità contestuale del sito di cui sussume i tratti morfologici essenziali e per l’altrettale capacità di raggiungere un livello di dettaglio cui conferiscono ulteriore qualità i contributi di artisti come Alessandrini e Basaldella. Si tratta, nella sostanza, di uno dei testi migliori di quella “scuola romana”, formatasi negli anni appena precedenti il secondo conflitto mondiale, non esenti perciò dalla lezione di Piacentini, di Morpurgo e specialmente di Del Debbio, che risulta capace, soprattutto attraverso l’altissima qualità del dettaglio, della stesura complessa e, a suo modo, barocca del prospetto principale, delle forti accentuazioni chiaroscurali dovute alla sapiente manipolazione nel trattamento dei materiali e delle superfici, a mettere in scena un dialogo tra i più fecondi tra storia e memoria, tra modernità e tradizione, di cui raramente è dato trovare l’uguale in opere coeve di così largo respiro urbano. Travertino e cemento armato, quindi, in una delle opere tra le più significative e peraltro meno conosciute e apprezzate del secondo novecento romano. In questi anni altrimenti caratterizzati dai disseminati interventi di edilizia pubblica soprattutto riferibili ai piani Ina-Casa lo Studio realizza nel contesto romano un’infinita quantità di piccole e di grandi opere che consentono ai progettisti vi verificare ulteriormente le capacità espressive della loro fortunata formula di intervento.
Troviamo ancora una volta i Passarelli alle prese con edifici residenziali all’Aventino, in via Santa Prisca e al Circo Massimo, in via Gregorio VII e in viale XXI Aprile e all’EUR ove le diverse tipologie della casa a schiera, del villino, della villa signorile, della palazzina e dell’intensivo vengono sperimentate costituendosi come altrettanti prototipi e allo stesso tempo dando seguito ad un comportamento di rigoroso understatement piuttosto distante dal volgare presenzialismo di tanta architettura romana del momento. Edifici ricercatamente sotto tono, quasi a voler individuare, trovandolo nell’aurea medietà della casa di civile abitazione, il luogo di quella “qualità diffusa” di cui tanto si parlerà poi, per lo più a sproposito, nelle aule universitarie negli anni a venire.
Intanto continuano gli incarichi per enti pubblici e comunità religiose; sono di questi anni il collegio San Giuseppe sulla via Flaminia, l’Istituto di Frutticoltura a Ciampino, la Scuola e la Chiesa in via Casale di San Pio V, la scuola per le suore di Firenze, il Magazzino granario per il Consorzio Agrario di Pomezia (poi replicato a Bracciano, a Cerveteri, ad Anguillara e a Monterotondo), tutti edifici risolti con grande attenzione ai problemi di una piuttosto limitata disponibilità finanziaria la quale, invece di inibire, pare stimolare nel senso di una ricerca di coerenza strutturale e poetica tra materiali e tecnologie “povere”, il mattone e il cemento armato, usati con somma maestria, talvolta con la collaborazione di grandi strutturisti come Riccardo Morandi che, nel caso esemplare della copertura della chiesa di San Luca in via Gattamelata, risolve gli aspetti strutturali della fabbrica con toni che scendendo da Perret attraverso Candela, Torroja e sfiorano, anticipandoli di qualche poco, gli exploits romani di Julio Lafuente. Tratti distintivi che collocano l’edificio tra i più interessanti esempi di edilizia di culto romana degli anni cinquanta accanto ad opere come il San Policarpo di Nicolosi e il San Gregorio VII di Paniconi che di quella particolare koinè restano tra i riferimenti apicali.
Un’opera che pare segnare un’ulteriore motivo di flesso e di approfondimento metodologico sui linguaggi del contemporaneo è senz’altro il Collegio Internazionale Notre Dame sulla via Aurelia ove la specifica domanda della committenza statunitense pare indicare, da un lato, un’aperta adesione ai caratteri di una stesura planimetrica di schietta marca anglosassone e, dall’altro suggerire una serie di soluzioni di ordine figurativo non difficilmente ascrivibili alla metabolizzazione delle esperienze miesiane. Qui l’eco delle strutture didattiche dell’IIT risuona in diretta consonanza con lo spirito più profondo di tante altre architetture dello Studio rinnovando nella essenzialità della nuova proposta attitudini e sensibilità profonde, capacità di ascolto e di intesa con alcune località centrali del dibattito sulla modernità più risoluta e radicale. Un testo importante per verificare, ancora sul piano della qualità architettonica, un’intesa intellettuale cui forse non fu estraneo anche il contributo di Bruno Zevi che, proprio in quegli stessi anni, si produsse senza risparmio quale il più inesausto tramite tra Italia e USA, tra l’architettura italiana e quella statunitense.
Nell’edificio, sicuramente una delle tappe centrali nel lavoro dei Passarelli in questi anni, si respira, cosa rara per Roma, un’aria “internazionale”, estesamente anglosassone, che ne fa a sua modo un unicum nel contesto capitolino dei sessanta.
Un’aria decisamente più romana si respira invece nel grande intervento per il Seraphicum sulla Laurentina e, in toni sia pur più sommessi, nel Collegio della Casa Generalizia delle suore Francescane sulla Cassia. Impostato sui “ruderi” del diruto edificio brasiniano dell’Istituto Forestale facente parte della incompiuta E’42, il primo, portato a termine in collaborazione con Lenti e Sterbini, ove sono percepibili taluni etimi già rintracciabili nell’edificio di via Quattro Fontane e che apre alle successive e assai cospicue realizzazioni dello Studio nel settore urbano dell’EUR; il secondo, ancora su committenza francescana, che si impone per il rigore stereometrico degli elementi volumetrici e insieme per l’assai interessante impaginazione dei prospetti in laterizio che fanno delle “facciate” di questo complesso altrettante “lezioni” di impaginazione compositiva.
Due opere di piccole dimensioni, ma di grande respiro compositivo si collocano agli inizi degli anni sessanta a testimoniare di un’attenzione straordinaria ai problemi del sito, da un lato, e a quelli del dettaglio, della “modanatura” come avrebbe amato dire Luigi Moretti, dall’altro; si tratta di interventi affatto differenti per destinazione d’uso e per collocazione contestuale: un circolo sportivo sull’argine sinistro del Tevere all’altezza dell’Acqua Acetosa, il primo, il Convitto San Tommaso d’Aquino in via degli Ibernesi, in pieno centro storico, l’altro. Nel primo caso, dove lo Studio Passarelli ancora una volta collabora con quello Paniconi-Pediconi, una piccola volumetria, sollevata su pilastri, si connette all’argine attraverso un sistema di percorsi che, nel momento del contatto, ne sconvolge l’assetto stereometrico e crea le occasioni per un sofisticato gioco di bucature. Siamo qui di fronte ad uno dei migliori esempi di architettura italiana dei primi Sessanta che non ha nulla da invidiare al migliore Scarpa e magari ne eccettua certi accenti decorativistici. Nel secondo caso, che si configura come una piccola addizione funzionale al grande complesso dell’Angelicum realizzato dallo Studio trent’anni prima, siamo di fronte oltre che alla brillante risoluzione di una serie di problemi distributivi e funzionali di grande e inagevole complessità, alla perentoria e convincente affermazione di un inserimento, senza infingimenti “contemporaneo”, in un contesto ricchissimo di condizionamenti storici e ambientali. Il Risultato estremamente convincente ci conforta nel senso della necessità, solo per alcuni ovvia, di interventi non stilisticamente compromissorii in contesti anche fortemente storicizzati e colloca la proposta in diretta sintonia con i migliori esempi anglosassoni coevi segnatamente di scuola lasduniana. Qui infatti, sulla scia di un brutalismo assai discreto cui non può risultare estranea, da un lato, l’ultima lezione lecorbusieriana poi evoluta nella poetica Team 10 e, per conseguenza, il contributo del primo De Carlo come pure dello Scarpa scaligero, sembrano attinte con coerenza e determinazione le soglie di un genere di qualità architettonica assai raro nella nostra città e forse ormai anche interdetto, per sempre, “a norma di legge”. Ispirata a medesimi presupposti di ascendenza poetica estesamente anglosassone, un’altra opera coeva: il complesso Marymount sulla via Cassia. Anche qui, sulla base di analoghe premesse metodologiche, ma in un contesto affatto differente, tra la citata villa Manzoni e il complesso della Generale Immobiliare di Vigna Clara un gesto pieno di raffinatezze “alla Gardella”, sul quale riflettere e che dovrebbe essere più conosciuto magari dai tanti giovani che si spingono oggi in nazioni lontane per trovare nuovi motivi di ispirazione.
Oltre al già considerato Seraphicum, il quartiere dell’EUR accoglie altre e cospicue architetture costruite dallo Studio dai primi anni sessanta in qua; l’Istituto Massimo, una delle più prestigiose Scuole cattoliche romane già ospitato nell’omonimo palazzo progettato da Pistrucci a Termini e che diventerà poi sede del Museo Nazionale Romano, il Centro dell’Istituto Mobiliare Italiano, la nuova sede della Società Italiana Autori ed Editori già ospitato nel bell’edificio sapientemente ristrutturato negli anni trenta dal Tufaroli nel quartiere Prati, la sede della CTIP, Compagnia Tecnica Italiana Petroli, la nuova sede dell’IMI con l’annesso auditorium plasticamente segnato dal contributo dello scultore Michelangelo Conte e più tardi, l’Hotel Sheraton e il Centro Direzionale INPDAP.
Tra tutte queste opere ci piace segnalare il blocco per gli uffici CTIP che, a nostro avviso, rappresenta una delle opere più riuscite dei primi anni sessanta in ambito terziario, capace di anticipare, fin da quegli anni lontani, una felice formula linguistica ove l’allora diffusa tendenza alla prefabbricazione in carpenteria metallica ha trovato il modo di evolvere verso assai convincenti formule linguistiche di sicura modernità, anticipando, e di decenni, etimi e poetiche hi-tech assai ben controllati dal punto di vista compositivo. Un edificio esemplare, praticamente ignorato dalla critica e dalla storiografia che ben figurerebbe accanto ad esempi coevi come il blocco per uffici di Montuori a via Po e che evolve ben oltre le stesse eppur tanto conclamate esperienze di Adalbero Libera su temi per tanti versi confrontabili come, per esempio il palazzo per uffici di via Torino. Sono questi gli stessi anni nei quali prende corpo l’edificio più noto dei Passarelli, quello realizzato per conto dell’Istituto Romano Beni Stabili, vis a vis al vecchio studio di via Campania e al minuscolo complesso De Monfort, a due passi dalle chiese di Santa Teresa e di san Camillo. Un edificio polifunzionale che ospita residenze, uffici e spazi commerciali, che ha avuto grande notorietà e la ventura di essere annoverato da Bruno Zevi tra i rari “capolavori” dell’architettura italiana del Novecento. Non è certo questa la sede per tessere ancora le lodi di un edificio notissimo cui sono stati dedicati volumi interi, quello che è certo è che esso rappresenta quanto di meglio l’architettura romana dei primi sessanta abbia saputo esprimere soprattutto per quella rara capacità di corrispondere in maniera piena ai bisogni di autorappresentazione di un’architettura dichiaratamente moderna, ma capace di farsi carico in maniera esemplare dei necessari e vitali rapporti con la storia dei luoghi, con l’onda lunga di un’idea di architettura per tanti versi capace di esprimere il senso più profondo della città e della sua stratificata vicenda edilizia.
Un edificio che fa appunto sua l’idea di stratificazione e di contesto, che si misura con la memoria di un luogo segnato da millenni dal perimetro aureliano, che dialoga felicemente con le giaciture e le assialità, con i materiali e i segni di un contesto urbano complesso e altresì con i valori di uno sperimentalismo progettuale contemporaneo vitale e maturo. Un edificio che dialoga insieme con la Roma più antica, con quella che è andata crescendo dentro e fuori le mura ed è capace di aprire un dialogo con quelle opere esemplari che, anch’esse, hanno cercato, trovandolo, il modo di esorcizzare il tema della stratificazione come le non dimenticate realizzazioni di Mario Ridolfi a via Porpora e a via Paisiello. E come quest’ultimo era stato capace di sovrapporsi con rispettosa perentorietà al villino Astaldi di Foschini e a quello Alatri di Morpurgo in quelle che restano tra le due migliori tra le sue ultime fabbriche romane, così qui i Passarelli, quasi in continuità logica, metodologica e poetica con quelle paiono affiancarsi riprendendone significati profondi, suggestioni plastiche e motivi di ispirazione ancora oggi cariche di potenzialità espressive.
Affacciarsi alle finestre dello studio e gettare lo sguardo attorno, soffermandosi sui dettagli di quell’edificio, è, ancora oggi, un’esperienza estetica indimenticabile e che dà il senso di una vera, magistrale, lezione di architettura.
Alla fortunata, straordinaria, stagione dei Sessanta vanno ancora ascritte opere importanti come il Collegio Pio Latino Americano realizzato lungo la via Aurelia in collaborazione con Julio Lafuente ove un uso sofisticato e ormai spregiudicato del paramento laterizio come pure delle strutture in cemento armato a vista consente di raggiungere risultati di sicuro effetto volumetrico e chiaroscurale; come la Scuola per la congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane ove, ripresi certi caratteri già sperimentati per il complesso Notre Dame, i paramenti esterni si arricchiscono di una vibrazione dovuta alla struttiva presenza di una sottile partitura metallica; come il bel complesso polifunzionale per l’IMI a Milano (una delle, piuttosto rare per il momento, opere “non romane” dello Studio), che si caratterizza per la qualità complessiva dell’intervento capace di imporsi, con sommessa e qualificata presenza, nel piuttosto opaco panorama professionale milanese di quegli anni.
Due esperienze collettive di segno e dimensioni altrimenti significativi sembrano chiudere, insieme alla partecipazione al concorso per l’ampliamento della Camera dei Deputati, gli ultimi, già tormentati, anni Sessanta all’insegna di una ricerca a più mani ove la dimensione dell’oggetto architettonico pare contaminarsi con quella del gesto artistico-segnaletico, da un lato e con quello urbanistico e macrostrutturale, dall’altro.
Sono questi gli anni della “contaminazione” dei linguaggi e della ricerca di una “nuova dimensione” capace di apportare significati e aspettative nuovi che vadano oltre le dimensioni più consuete e tradizionali del fare architettura. Sulla spinta di quello straordinario agitatore culturale che fu lo Zevi di quegli anni complessi e contraddittorii, sia il Padiglione per l’Esposizione Internazionale di Montreal che il progetto proposto dallo “Studio Asse” per le nuove zone direzionali di Roma, prendono forma. Il primo, un percorso espositivo frantumato e complesso, metafora polimorfa della creatività italiana, ospitato sotto una gigantesca vela animata, tra l’altro, dalla presenza di una grande “sfera” di Arnaldo Pomodoro e di un drammatico e svettante pannello ceramico di Leoncillo; il secondo, un complesso e visionario esercizio di town design macrostrutturale che, condotto a più mani, insieme a Mario Fiorentino, Ludovico Quaroni e Bruno Zevi, soprattutto, si pone come dialettica “provocazione” nel clima altrimenti stagnante di una cultura urbanistica romana ben altrimenti sensibile e corriva alle tematiche urbane del nuovo Piano Regolatore Generale.
Soprattutto quest’ultima esperienza pare il sintomo drammatico di una situazione culturale e professionale in rapida, radicale trasformazione e che, dal Sessantotto in poi, tanto per fissare una data, non sarà più la stessa, come non sarà più la stessa la condizione materiale, politica, ambientale nella quale l’architettura contemporanea romana andrà cercando nuove vie e nuovi modelli di sviluppo e soprattutto di sopravvivenza. Un impegnativo e robusto esempio di autocommittenza che apre un capitolo nuovo nella vicenda romana e mette in luce, anticipandole di qualche anno, le aporie di una condizione professionale, sempre in bilico tra società, mercato e cultura, che verrà definitivamente travolta dagli eventi a partire dal decennio successivo.
Quasi a suggello di un’attività già spesa per oltre settant’anni nell’ambito di una sicura committenza religiosa, gli anni Settanta si aprono per i Passarelli con il progetto di ampliamento dei Musei Vaticani. Una committenza di sommo prestigio per un’opera che raccoglie la sfida di un contesto unico, per storia e per suggestioni etiche, culturali e ambientali. Una sfida difficile e arrischiata a diretto confronto, anzi in intima contiguità con alcune delle architetture più venerate e ammirate di tutti i tempi. Con coraggio che rasenta rischi colossali dal punto di vista architettonico il progetto si fa carico della complessità della domanda e risulta infine capace di reggere un confronto assai arduo. L’opera sicuramente più impegnativa incontrata lungo un secolo intero di attività, sicuramente la più delicata sul piano della committenza e dei condizionamenti contestuali, trova così esito concreto sintetizzando, nella complessa e polimorfa articolazione dei suoi spazi espositivi, i frammenti di un percorso logico e culturale cui le più mature tra le opere precedenti paiono offrire ancora alimento e supporto. Un’opera importante, difficilissima e comunque eccezionale che, pur risentendo forse in qualche punto di una certa ritrosia dovuta all’ineluttabile immanenza del contesto, si impone per l’impegno e la correttezza formale. Un’opera che troverà il suo prolungamento, in anni recentissimi, con la realizzazione, per l’occasione dell’ultimo giubileo, dei nuovi spazi di accoglienza dei Musei Vaticani. Opera quest’ultima che, affiancandosi ed integrando la doppia elica dei nuovi ingressi progettati dal Momo e che già furono di ispirazione al Wrigth del Guggenheim newyorkese, costituisce l’occasione straordinaria di incontro tra la città di Roma e gli spazi del più prestigioso Museo del mondo. Un’opera tanto importante e impegnativa quanto passata, praticamente, inosservata, rispetto a tante altre realizzazioni giubilari sicuramente di minor momento, ma alla quale, in più località, è purtroppo mancato il supporto di un’adeguata qualità esecutiva che ne ha sicuramente penalizzato gli ultimi esiti formali.
Un altro capitolo importante nell’attività dello Studio, a partire dai primi anni Settanta, è senz’altro costituito dall’impegno nel settore dell’edilizia residenziale con particolare attenzione al settore pubblico e quindi alle tematiche della tipologia, della prefabbricazione, della normativa e dei servizi sociali connessi. A partire infatti dalla metà di quel decennio ove il tema della residenza a basso costo venne a costituirsi, in pratica, come il baricentro attorno al quale parvero gravitare le attenzioni prevalenti dei progettisti migliori, sintomo evidente di una palese e cospicua contrazione della domanda proveniente dal mercato privato, il tema della “casa” riacquistò nuova centralità venendosi ad intrecciare con le complesse dinamiche sociali di quegli anni. In particolare, la città di Roma parve riscoprire la dimensione di una progettazione di grande respiro, alla scala del “quartiere” o meglio del “piano” di zona, che divenne l’occasione per sperimentare quella “nuova dimensione” del progetto di cui tanto si era parlato nel decennio precedente.
Sembrò, finalmente, giunto il momento di un felice incontro tra le dimensioni dell’urbanistica e quelle dell’architettura, tra la ricerca teorica e la sperimentazione concreta nel corpo vivo della città. Furono quelli gli anni in cui si è assistito all’ultima grande fiammata di entusiasmo e di impegno verso una progettazione integrata che vide le forze politiche, gli amministratori, gli enti di gestione, i progettisti impegnati insieme nel difficile compito di dare forma ad una città che negli ultimi trent’anni sembrava aver perso il gusto di un’edilizia capace di rappresentare in pieno i bisogni civili della società contemporanea.
I grandi complessi progettati in questi anni, da Tor de’ Cenci a Spinaceto, dal Laurentino a Corviale, da Vigne Nuove al Casilino, da Tor Sapienza a Tor Bella Monaca, fino a Torrevecchia, pur nella diversità dei rispettivi impianti e degli esiti perseguiti, ben rappresentano di una diffusa intenzione collettiva nella prospettiva di una migliore e più diffusa qualità urbana. In questo sforzo collettivo per lo più caratterizzato da un’attività necessariamente “di gruppo” la presenza dello Studio Passarelli si fa notare per il suo contributo in occasioni tra le più significative che, come nel caso dell’intervento nella zona di Vigne Nuove e in quello di Torrevecchia, rispettivamente portati a termine in collaborazione, tra gli altri, con Alfredo Lambertucci e Paolo Cercato il primo e Barucci e Vittorini, il secondo, ben rappresentano due tra gli esempi più tipici di questa interessante e oggi un po’ dimenticata, stagione romana. Sono ancora di questi anni gli studi condotti dallo Studio insieme a Ludovico Quaroni per conto della FIAT Engineering sul tema dell’edilizia prefabbricata per insediamenti residenziali sperimentali in alcuni centri meridionali come Termoli, Aquino, Pontecorvo, Piedimonte San Germano, Guglionesi e Campomarino, e le ricerche per l’ISPREDIL per progetti sperimentali di edilizia sociale che porteranno agli interventi poi realizzati nelle città di Alba, Lucera, Campobasso, Schio, Parma e Tortona.
A partire dagli anni Ottanta, con il mutamento sostanziale del quadro politico ed economico, anche la condizione specifica dell’architettura italiana pare perdere definitivamente i suoi connotati tradizionali nella direzione dell’emancipazione, da un lato, da una serie di vincoli e condizionamenti di stampo ideologico e confessionale, dall’altro, nel senso di una liberalizzazione piuttosto selvaggia anche del mercato professionale sempre più in balìa dei grandi studi organizzati industrialmente sul modello, soprattutto, americano e quindi delle “grandi firme” dello Star System internazionale.
Si assiste quindi ad una diffusa espulsione delle consuetudini e dei comportamenti connessi ad uno “stile” sostanzialmente artigianale, personale, degli Studi di architettura tradizionali per l’affermarsi di modelli funzionali piuttosto alle dinamiche accelerate della globalizzazione anche e soprattutto alla scala del mercato, della finanza, dell’informazione, dell’immagine e della comunicazione. Sono questi gli anni di una metamorfosi profonda dell’architettura contemporanea che si trova oggi di fronte al bivio di un’adesione forzata alle dinamiche sempre più accelerate di un mercato in via di definitiva spersonalizzante internazionalizzazione oppure della scelta, comunque arrischiata, di una ricerca di nuovo “paziente”, faticosa e sapiente verso una qualità del ben costruire inteso come orizzonte etico, prima ancora che estetico, dell’architettura prossima ventura.
Le ultime opere, i progetti più recenti, raccolti in questo volume ben rappresentano quindi lo spaesamento di una prospettiva attuale di ricerca ove si accavallano e si contrastano i termini di un dibattito intenso ed eteroclito capace di rappresentare in pieno le aporie e le speranze dell’architettura contemporanea italiana attraverso la sperimentazione quotidiana delle più disparate occasioni di progetto. Dai grandi interventi nel terziario, come il Centro Direzionale FIAT di Torino, o quello Alitalia alla Magliana ai grandi concorsi internazionali come, tra gli altri, quello per l’Opera Bastille di Parigi o quello per il nuovo Museo dell’Acropoli di Atene, alle piccole sofisticate sistemazioni hi-tech o a quelle più complesse di “restauro” e di riqualificazione, come nel caso della ex Casa dei Ciechi di Guerra di Aschieri o della sede della Banca d’Italia a Lecce, oppure per la Biblioteca Angelica o quella Nazionale di Roma. Tutte occasioni che si configurano come il nuovo scenario di una situazione progettuale e di una condizione professionale profondamente mutate rispetto ai decenni precedenti e che testimoniano, nel loro insieme, della presenza ancora assai vitale di uno Studio che con i suoi oltre cento anni di storia sulle spalle riesce ancora a trovare, in un periodo certo non facile come l’attuale, le occasioni per un’assai significativa presenza e di una sua, sempre rinnovata, attualità.Lucio Passarelli
Nello scrivere queste note di introduzione, sento il convinto dovere di ricordare mio padre Tullio Passarelli, sia come uomo che come architetto.
Egli è stato l’iniziatore dell’attività che oggi, dopo cento anni, presentiamo, ed ha costituito il nostro punto di riferimento.
Nato a Roma nel 1869, secondo di due fratelli, interessato alla cultura e all’arte, venne “fatto studiare” (come si diceva) all’Istituto De Merode, a Piazza di Spagna e si iscrisse alla Facoltà di Ingegneria (non esisteva allora la corrispondente di Architettura).
E’ interessante notare (quale confronto con il nostro tempo) che, laureatosi nel 1893, dopo un periodo passato presso lo Studio di Gaetano Koch, e iniziata la professione, a poco più di trent’anni, progettava e realizzava, tra l’altro, la Basilica di Santa Teresa al Corso d’Italia: un’opera di grande portata sia architettonica che dimensionale.
Con mio Padre vi era una notevole differenza di età: oltre cinquant’anni. Sin da ragazzo, vedevo, vivevo un’atmosfera professionale, anche perché i miei due fratelli maggiori, Vincenzo e Fausto, più vicini a me ma molto più grandi, già lavoravano nello Studio.
Tuttavia, la morte di mio Padre ha coinciso con i miei primi anni dell’Università e il periodo della guerra. Non ho quindi, purtroppo, potuto o saputo avere, sufficienti diretti contatti con lui nel campo dell’architettura e della sua lunga vita professionale e culturale. I miei fratelli sarebbero certo più in grado di contribuire alla biografia, ma sono scomparsi nell’ ’85 e nel ’98.
Ci dobbiamo, o dovremo, allora affidarci alla tradizione verbale e alla memoria di seconde o terze generazioni. Con interesse pari alla difficoltà, in un mondo che conosce oggi, ben altri mezzi per comunicare e ricordare.
Credo sia il momento di accennare all’inizio ed allo sviluppo della sua attività.
La Basilica di Santa Teresa, apriva con autorevolezza la strada del riferimento al “romanico”. Essa piacque molto, tra l’altro, a Pio X che, nella sua olimpicità pontificia, lo incaricò di una Chiesa “identica”, tra l’altro molto vicina, a Via Piemonte, dedicata a San Camillo de Lellis.
Tullio Passarelli lo convinse a limitarsi di chiedergli la medesima linea stilistica; e così avvenne.
Tornerò più avanti sull’evoluzione architettonica di mio Padre ma, secondo me, l’insieme di San Camillo, pur rivestendo un interessante carattere urbano, collocato ad angolo di tre strade, non raggiunge la semplicità originale di Santa Teresa e la sua intensità interna affidata ai colori scuri, con i chiari capitelli e decorazioni lineari di Armando Brasini.
Come detto, mi riesce difficile, oggi, ripercorrere in dettaglio lo sviluppo della attività progettuale di mio Padre e l’affido alla successione di alcune delle principali opere.
Il nuovo edificio del Collegio De Merode (attiguo al S. Giuseppe, a Piazza di Spagna); la Borsa Valori a Piazza di Pietra e la sede della Camera di Commercio; i Magazzini Generali a Porto Fluviale; le Villa Caetani al Gianicolo e a Via Monti Parioli; il Pontificio Collegio Angelicum e l’Aula Magna a San Domenico e Sisto; la Curia Generalizia dei Fratelli delle Scuole Cristiane; il Silos Granario in via di Pietra Papa.
Queste ultime opere con l’intervento dei figli Vincenzo e Fausto.
Egli ha progettato e seguito una mole imponente di lavori, affiancando, alla sua attività personale, un ristrettissimo numero di collaboratori. e di attrezzature.
Quando penso alla quantità dei collaboratori, agli spazi su più piani che abbiamo occupato successivamente, nel periodo di massimo sviluppo dello Studio, anche se la “produzione” nel suo complesso era indubbiamente maggiore, il rapporto in termini di “produttività” era enormemente minore.
Nell’Archivio esistono incartamenti di opere importanti, sottilissimi, rispetto a voluminose pratiche recenti, per interventi anche limitati, con all’interno le tavole originali a mano, dall’elegante sottile tratto di penna o matita di mio Padre.
All’attività progettuale egli univa una intensa attività culturale.
Come gli altri successivi componenti lo Studio, egli non operò nel campo universitario e dell’insegnamento. Credo, più che per scelta, perché troppo occupato nella professione e nella famiglia e per una, innata, riservatezza.
Ma fu molto attivo nell’Accademia Nazionale di San Luca, di cui è stato Presidente nel biennio ‘29-30, un momento molto delicato di spostamento della sede e prima che l’Accademia confluisse nell’ unificata Accademia d’Italia, per poi rinascere autonoma dopo la guerra. Inoltre, nell’Accademia Pontificia dei Virtuosi del Pantheon, sempre nella classe architettura, in Commissioni Tecniche di varie Amministrazioni, nella Commissione Centrale d’Arte Sacra della Santa Sede.
Credo debba dire qualcosa, sinteticamente sulla sua architettura.
Egli frequentò all’inizio lo Studio di Gaetano Koch, per la cui famiglia, nella successiva generazione, eseguì un elegante villino in Via di Villa Torlonia.
Gaetano Koch (Banca d’Italia, Piazza Esedra, Palazzo della Regina Margherita ora Ambasciata USA), attingeva con sobrietà, finezza ed intelligenza all’architettura “classica”, con continuità e secondo un coerente sviluppo. Tullio Passarelli ne tenne la commemorazione alla Banca d’Italia, in occasione dell’anniversario della realizzazione della Sede.
Per quale ragione un giovane, da tale provenienza, si inventa di riferirsi ad uno stile così diverso come spazialità, grafia, chiaroscuro, quale il romanico? In verità non saprei esporlo, anche per quanto ho in precedenza detto.
Potrebbe essere entrato in contatto, nel corso della sua educazione in un Istituto sostanzialmente francese, con esempi di abbazie e complessi religiosi.
Ma quando affronta l’ampliamento della sua Scuola e cioè il Collegio De Merode (pressoché nascosto, pur nella sua vasta mole, tra Piazza di Spagna, Via Margutta e il Pincio), il suo riferimento cambia; con un chiaro collegamento alle coperture: metalliche, mansardate, tondeggianti, dei palazzi parigini.
Successivamente, per la Borsa Valori di Roma, egli sente l’influenza di inserire i resti del Tempio di Adriano, creando un porticato “romano” (non più romanico) con colonne ed archi.
Ancora, nei Magazzini Generali al Porto Fluviale, la semplicità ed economicità della costruzione richiesta dalla committenza, per un semplice contenitore in periferia, viene da lui trasformata in stereometria e rapporto pieno-vuoto, da portualità nordica (Amsterdam, Amburgo?). E qui mi fermo.
Una critica, forse superficiale, potrebbe attribuirgli il semplice merito di una grande capacità personale di incorporare via via esempi, cui attingere con una naturalezza, che poteva confinare con il compiacimento di saper possedere la soluzione di qualunque problema.
Può essere. Ma io credo si sia trattato di un lavoro di ricerca; non forse al livello di approfondite indagini, ma di captazione di quanto nel passato e/o nel presente esisteva, cui egli applicava una personale revisione: questa sì, con continuità di merito e di risultati.
Infine, desidero ricordare quanto egli soleva citare ed ha lasciato scritto: “Bisogna vivere come se si dovesse morire oggi. Bisogna lavorare come se non si dovesse morire mai”. Personalmente non sono molto in sintonia sulla seconda enunciazione. Ma sulla prima sono perfettamente d’accordo. Si trattava di uno slogan; facile, difficile, o inspiegabile? Per Tullio Passarelli, credo, che non vi fossero punti interrogativi. Era così. Doveva essere così.
Non amo dare peso o festeggiare i personali anniversari. Gli “anta”, i cinquant’anni di laurea, od altro.
Mi sono accorto però, quasi incidentalmente, in occasione dei cent’anni di vita di una delle prime opere di mio padre che, di conseguenza, era trascorso un secolo (anzi un po’ più) dall’inizio della sua professione.
In tutto questo periodo sull’attività di progettazione è stato pubblicato solamente un piccolo, valido libro, sullo Studio e me in particolare, curato da Sergio Lenci, e uno, simile per formato, sull’edificio di Via Campania, curato da Mario Pisani. Oltre ovviamente una lunga serie di citazioni bibliografiche su libri, riviste, media.
Molte volte mi son sentito chiedere perché non esistesse un libro commisurato alla produzione, e non si tenesse una mostra.
Credo corrisponda al carattere di riservatezza che ha contraddistinto la nostra attività, non disgiunta da una severa auto-valutazione sulla stessa. Ma su questo tornerò più avanti.
Ho però riflettuto che risultasse un dovere, verso coloro che ci hanno preceduto, verso me stesso e verso chi opera attualmente, rendere una testimonianza semplice, essenziale, sull’impegnato lavoro di progettazione durato cento anni.
Una volta orientati verso una pubblicazione, occorreva decidere quale taglio conferirgli.
Nello stendere ed aggiornare un elenco dei progetti e delle opere dello Studio (escludendo quelli di modesto rilievo), abbiamo constatato che ne veniva un complesso di circa 250 casi.
Tra questi, quelli che ci sembrava opportuno segnalare con una specifica illustrazione, erano di poco superiori al centinaio.
E’ nato così l’accostamento tra il numero di opere significative e il periodo di vita dello Studio. Cento anni, cento progetti. Di qui il titolo della pubblicazione
Vi era bisogno di una figura professionale cui affidare l’organizzazione, la coerenza, la grafica del notevole materiale archiviato dallo Studio, secondo propri criteri selettivi, ad opera dell’Architetto Tullio Passarelli jr.
Negli ultimi tempi eravamo entrati in contatto con Ruggero Lenci, per rapporti con l’estero e anche partecipazione congiunta a concorsi di progettazione.
Ruggero progetta, insegna, scrive (suoi recenti libri su Pei, Fuksas, Sergio Lenci). E’ un collega ed un amico. Figlio di Sergio (anche egli stimato collega e amico, purtroppo recentemente scomparso), cui si deve il libro sullo Studio dell’ 83.
Ci siamo quindi giovati di lui, quale “curatore” intelligente, attivo, dotato di entusiasmo e riflessione, di consigli e di adesioni; ed è suo il testo che precede queste mie riflessioni.
A Ruggero, un convinto ringraziamento per la sua opera, come a sua moglie Nilda Valentin, che lo ha efficacemente affiancato.
Abbiamo inoltre chiesto un intervento ad Alessandro Anselmi e a Giorgio Muratore. Anche a loro il nostro apprezzamento per aver accettato.
Desidero esprimermi brevemente sul carattere di base della nostra struttura.
Tutti, credo, i protagonisti dello Studio hanno dato la precedenza al lavoro, alla produzione rispetto alla esternazione, ai rapporti, alla rappresentatività. Lavoro di vario carattere, dalle relazioni esterne, alla progettazione, all’attuazione. In una specializzazione di compiti, ma anche di scambio e concertazione.
Lo Studio ha attraversato periodi favorevoli e periodi difficili, come spesso, forse sempre, accade. Ricordo il periodo della guerra; gli anni ’40; la difficoltà di poter progettare opere anche modestissime. Ma anche successivamente, i momenti di crisi dell’edilizia, che si ripercuotevano sulla professione.
L’attività è stata caratterizzata dal rilevante grado di approfondimento dei suoi progetti, non dico al grado di “progetto integrale”, quando di questo livello si parlava come un mito, ma su quella strada.
Negli anni ’70, in un momento di rallentamento, raccogliemmo i principali particolari costruttivi eseguiti dallo Studio, per poterli utilizzare più facilmente. Penso avrebbero potuto costituire un interessante contributo alla configurazione dell’universo tecnico professionale.
Noto, come spesso, anche nei momenti di notevole attività, i lavori più impegnativi dal punto di vista progettuale, ancorché adeguatamente remunerati, risultassero pari agli oneri sostenuti, se non addirittura passivi, per l’impegno e lo sviluppo degli elaborati.
Ma forse la caratteristica principale del nostro lavoro è consistita in ciò che definirei il rapporto qualità-quantità.
Mi spiego. Vi sono Studi che hanno eseguito meno opere; ma tutte, o quasi tutte, di altissimo livello. Ve ne sono altri che, invece, con una produzione anche maggiore, obiettivamente rappresentano una qualità decisamente modesta.
La nostra struttura presenta un numero limitato di opere di eccellenza; ma un numero ancora più limitato di progetti non validi. Si caratterizza invece per una notevole produzione di progetti di buon livello, superiore al medio, che costituiscono una solida base di valida espressione. Si può notare, tra l’altro, come siano state realizzate circa il 75% delle opere progettate.
Ricordo come, su Casabella del 1963 n. 279 Carlo Aymonino, in una lunga trattazione su Roma, volle accostare, fin dai titoli, il ruolo dello Studio all’importanza dell’edilizia pubblica e delle grandi opere, per la Capitale
Nell’inizio di questa introduzione, ho accennato alla caratterizzazione architettonica delle opere di mio padre e ad alcuni riferimenti che si possono intravedere con successivi orientamenti dello Studio.
Credo si possano notare una serie di fasi.
La prima, attribuibile a Tullio Passarelli, dall’inizio del secolo al 1930.
Una, successiva, fino al termine della guerra ed al fermo dell’edilizia, cioè fino al 1948, con l’apporto di Vincenzo e successivamente di Fausto. L’attività in particolare di Vincenzo è riconducibile al periodo di profondo cambiamento negli anni ‘30 dell’architettura romana, che si manifesta, in particolare, nelle palazzine progettate dallo Studio nel quartiere Salario-Parioli.
L’ulteriore arco temporale può estendersi all’incirca fino agli anni ’60 -’70. Comprende, da un lato, l’inizio della ricostruzione e della ripresa edilizia; dall’altro, l’inizio della mia attività e, in un certo senso, della integrazione e suddivisione del lavoro.
Vincenzo, quale guida dello Studio, sia per le relazioni esterne che per l’attività nel suo complesso. Fausto, più orientato verso la tecnologia, la produzione e i rapporti con le istituzioni amministrative. Io mi dedico alla progettazione, concordandola con i fratelli, e in rapporto con i collaboratori alla progettazione stessa, obiettivamente improntando la produzione architettonica.
L’inesorabile progredire del tempo conduce ad una maggiore mia presenza nei vari campi dell’attività, pur riservandomi una predilezione e forse predisposizione per il progetto. E, via via, inizia ad intervenire una successiva generazione, che assume un ruolo nella crescente gestione delle operazioni.
In particolare Tullio Leonori, Maria Passarelli, Tullio Passarelli jr., divengono associati nel 1990. L’attività degli ultimi quindici anni risulta pertanto integrata dalla loro attiva presenza, sia nel campo progettuale che operativo, e costituisce una caratteristica di continuità qualitativa, chiaramente rilevabile nei lavori del periodo recente.
In questa occasione, mi sono chiesto se vi sia un qualche riferimento, una connessione tra quanto accaduto a nostro padre, e da lui espresso nelle sue opere, e quello che abbiamo successivamente raccontato, da oramai oltre cinquant’anni.
Ho riportato all’inizio, come Tullio Passarelli abbia, in qualche modo spaziato su diversi registri, pur accentuando una predilezione iniziale per il romanico, il mattone, il complemento con la decorazione scultorea, e vi sarà chi ne parlerà con ben altra competenza. Come, cioè, in qualche modo si sia sensibilizzato su più tendenze, riferimenti, contatti.
Ecco, credo che qualcosa di analogo possa venir riferito senza entrare in una valutazione qualitativa, ai suoi successori ed a me in particolare.
Un progettista, nelle sue prime esperienze, si trova bombardato da una serie di modelli, illustrati o realizzati, estremamente diversificati; da capolavori reali, o valutati tali, esaltati o demoliti dalla critica. Inevitabilmente, nella maggior parte dei casi, è portato più a seguirli che a confrontarsi con loro, attingendo prevalentemente all’uomo o alla tendenza più in voga e diffusa. Parlando, oggi, non è difficile operare riferimenti ben precisi.
Credo che, nella generalità dei casi, ciò produca un innalzamento della qualità media dell’architettura, l’obiettivo primario dell’interesse globale e sociale, nell’attività urbanistica ed edilizia e costituisca pertanto un elemento positivo.
Ma occorre, che si trovino in quei “maestri”, o in quelle opere, i riferimenti che più si accostino alle proprie tendenze interne, le quali possono trovare difficoltà ad esprimersi del tutto autonomamente e traggano invece valida realtà da una identificazione esterna.
La spontaneità dell’accostamento trova un suo scatto qualitativo nel rivelare elementi originali; in una derivazione quasi inconscia.
Sottolineo infine la caratteristica che costituisce un punto fisso nell’impostare la progettazione ed alla quale abbiamo cercato, per quanto possibile di attenersi. Partire con un’idea forte, chiara, espressiva, tale da poter subire, nel corso dello sviluppo, sia nella fase di progetto, che in quella realizzativa, le inevitabili prevedibili e, soprattutto, imprevedibili varianti che, in alcuni casi potranno anche risultare migliorative ma, generalmente, influenzare negativamente un’opera.
Nel periodo della mia formazione e avvio dell’attività, esistevano dei precisi punti di riferimento e indirizzo: Wright, Le Corbusier, Mies van der Rohe, Aalto e, più avanti, Kahn, Tange, Saarinen, forse fino a Stirling, prima delle vorticose trasformazioni degli ultimi periodi.
Non ho alcuna remora, anzi mi sento privilegiato, nel riconoscere che ho subìto influenze da più di uno di questi maestri.
Sono sempre stato attratto ed ho applicato con metodo, la modulazione regolare ortogonale e spaziale, a varie scale. Uniformità contraddetta dalla diversità, dell’eccezione, quali un taglio diagonale, l’inserimento di un cerchio o di una sua porzione.
Riandando indietro negli anni, credo che il riferimento personalizzato che più ho amato, e da cui sia stato, forse solo interiormente, sensibilizzato, lo attribuirei a Kevin Roche.
Ricordo la Fondazione Ford a New York e la sede della John Deere a Moline, che visitai entrambe. Lo esprimo come un ricordo, una testimonianza più che un esplicito riferimento ai suoi lavori.
Se è vero, come è vero, che l’architettura presenta molti punti di contatto e assonanza con la musica, possiamo considerare queste forme di accostamento, in qualche modo assimilabili alle “variazioni su tema”, consolidata espressione musicale. Anzi, su più temi, anche di autori diversi, che presentino punti di contatto e contiguità.
Forse in questo, ecco un qualche collegamento con mio padre, volendo trovare un accostamento nell’avventura del nostro Studio.
Nella primavera 2005, con la conclusione della Chiesa di Selva Candida, ultima opera realizzata con l’attiva partecipazione delle recenti leve dello Studio, ritorna un contatto con la prima opera caratterizzante di Tullio Passarelli, la Chiesa di Santa Teresa, conclusa esattamente del 1905; cento anni.
Un caso certamente, ma anche coincidenza, segnale, riflessione, continuità.
Prima di iniziare l’illustrazione dei progetti, si desidera esprimere la convinzione che l’attività dello Studio non avrebbe potuto concretarsi senza l’appoggio di tanti che hanno collaborato nei vari campi della progettazione e dell’attuazione.
I nomi sono riportati nel regesto delle opere, e ci scusiamo per le inevitabili omissioni ed imprecisioni. Riteniamo peraltro ricordare coloro che hanno operato con maggiore continuità e rilievo; e taluni non sono più fra noi.
A tal fine si indicano Cristoforo Borowsky, Giombattista Castagnetta, Paolo Cercato, Franco Ceschi, Maurizio Costantini, Fabrizio Falchetti, Franco Ferlito, Piero Gandolfi, Luca Leonori, Patrizia Pizzinato, Edgardo Tonca.Ruggero Lenci
When I accepted the role of editing this book on the activities of the Studio Passarelli, I was offered an occasion to acquire a great deal of information and knowledge about a period of history that touches upon three centuries: it begins at the end of the 19th-century, spans the entire 20th-century and extends into the 21st.
The quantity of projects developed by the firm is notable. This publication, entitled “Studio Passarelli cento anni cento progetti” contains over 120 projects, representing a conspicuous synthesis of the aforementioned architectural activity. The first twenty projects, from the 40 years prior to 1938, were designed by the firm’s founder, Tullio Passarelli (1869-1941). In 1932-33 Tullio’s sons Vincenzo (1904-1985) and Fausto (1910-1998) joined the office. Following the Second World War, during the period from 1945 to 1985, the projects were developed together with the third brother, Lucio (1922). In addition to Lucio Passarelli, who now runs the office, since 1998-1990 the associates also include the architect Tullio Leonori (1946) and the two Passarelli sons, the architects Tullio Passarelli (1961) and Maria Passarelli (1964).
There are architectural offices in the world that, in addition to developing ideas and preparing projects, have also acted as a focal point for important figures who have gained their experience and absorbed the complex art of giving form to volume, to space and to the city. In Italy we can mention the office of Gregotti and Associates in Milan, the Studio Passarelli in Rome and the Renzo Piano Building Workshop in Genoa – to name a few. These offices have played an important role in fostering cultural exchange and contributing to the education of important figures from the world of architecture.
The design activities of the Studio Passarelli began much earlier than in the other Italian offices mentioned, and this lengthy historical presence has taught its members how to modify, with great agility, their perspectives for development and points of reference, preparing them to undertake the periodic revision of their objectives and the constant updating of technological, morphological and linguistic aspects of the profession. Furthermore, the importance that is given to the methodology of making architecture has made them the protagonists of both collaborative and integrated design procedures, making it possible for them to work in a variety of configurations and with an impressive number of (mostly Roman) professionals, including Alessandro Anselmi, Pietro Barucci, Armando Brasini, Arnaldo Bruschi, Mario Fiorentino, Julio Lafuente, Alfredo Lambertucci, Sergio Lenci, Amedeo Luccichenti and Vincenzo Monaco, Pier Maria Lugli, Enrico Milone, Riccardo Morandi, Manfredi Nicoletti, Mario Paniconi and Giulio Pediconi, Luigi Piccinato, Ludovico Quaroni, Gaetano, Giuseppe, Marcello, Salvatore and Tito Rebecchini, Leonardo Ricci, Sara Rossi, Piero Sartogo, Carlo Scarpa, Hilda Selem, Masino Valle, Michele Valori, Marcello Vittorini and Bruno Zevi.
For this reason, and in a city like Rome it could not be otherwise, the projects range from the neo-Romanic style of the early 20th-century, to an interpretation of the linguistic and functional peculiarities of the “Roman School”, in order to arrive, presently, at a very up to date morphological approach. They are works of architecture that belong to the time and culture within which they were conceived, to the function which they must fulfil and resolve and to the context, almost always Roman, within which they are inserted, as well as responding to the needs of the client, in many cases private and often religious, though on numerous occasions also public.
The first project, which inaugurates the office’s activities following Tullio’s apprenticeship with the architect Gaetano Koch, is the Istituto De Merode (1899) located in Piazza di Spagna. The arrangement of the volumetric masses, the use of rustication and the neo-Romanic style of this building – though on a smaller scale – recall the imposing Palazzo di Giustizia (1888-1910), designed by Guglielmo Calderini and under construction in Rome at this time, even if Passarelli’s work is softened by the Beaux Arts styling of the roofs.
This project is followed by the Church of Santa Teresa (1903), again in the neo-Romanic style, with its proposal of a sombre image of the faith through an architecture that features little decoration and makes reference to the churches of Assisi. This formula was considered correct for Rome during these years, still the young Capital of Italy, as well as being suitable for creating a dialogue with the majestic Aurelian Walls.
This project was quickly followed by the Church of San Camillo (1906) in the same style and distinguished by its finely decorated portal. With this project Tullio Passarelli consolidates his abilities as a creative builder of large “constructions”, without, however, neglecting the smaller scale, as can be seen in works such as the Church of the Fathers of Monfort in via Sardegna where, due to the limited space available, the two side naves are removed.
For the Roman Stock Exchange (1920) Tullio Passarelli renovated and rebuilt, within the block in front of the small public square by Raguzzini and the Church of S. Ignazio, the building for the Dogana Pontificia di Terra, designed by Francesco Fontana partially inside the Temple of Hadrian. The façade is distinguished by the giant order pilasters used to establish a continuity of scale with the columns of the majestic temple absorbed within the walls surrounding the Piazza di Pietra. The columns are surmounted by composite capitals modelled according to the stylistic elements of neo-Baroque art that, vice versa, are tied to the urban spaces designed by Raguzzini. From the exterior, the use of the minor Doric order anticipates the sober character of the internal salons used for negotiations.
Not all of the commissions represented a special event for the city. There were also many projects of lesser importance – though not necessarily smaller in size – such as the Magazzini Generali in via del Porto Fluviale in Ostiense neighbourhood (1918), now a piece of industrial archaeology, together with other buildings and the imposing metal structures present in this area.
The addition to the Pontificia Università di S. Tommaso-Angelicum (1932) and the Casa Generalizia dei Fratelli delle Scuole Cristiane on the via Aurelia Antica (1938) – the latter of which is so vast that it is like a small city on the margins of Rome, again making reference to the plans of French palaces and castles – are the final projects designed by the firm’s founder, who died at the age of 72.
Vincenzo Passarelli graduated in Civil Engineering in 1927 and received his Degree in Architecture in 1932. He is responsible for the renewed approach demonstrated in the projects for the Grain Silos in Rome in via Pietra Papa (1935) and the three apartment blocks in via di Villa Grazioli, via Oglio and via Salaria, where it is possible to observe the abandonment of any reference to historical styles of architecture. These buildings demonstrate the search for an architecture that is suitable and coherent to Roman culture during these years, a search that was begun by his illustrious contemporaries, including Mario Ridolfi, Adalberto Libera and Giulio Pediconi. It is with the latter, together with Mario Paniconi that the Studio Passarelli was awarded the first prize in the 1951 competition for the Palazzo dell’Istituto Mobiliare Italiano and the Ufficio Cambi in via delle Quattro Fontane in Rome, on a site located between Borromini’s Church of San Carlino and the via Nazionale. The insertion of the new technologies of reinforced concrete and the new language of a modern era within the historical centre define a very valuable and important work of architecture. This project employs coherent decisions about the architectural components of the façade, the structure and the rhythm of the openings and the relationship between the mass of the base – with frequent rusticated inserts that allude to archaeological stratifications – and the volumes in elevation. The cladding of these latter is the result of a refined technological solution that separates it into multiple slabs. The entrance is distinguished by four, giant order pilasters with an equal number of shaped, cantilevered beams that support the upper loads, producing the sensation, whenever one crosses the threshold, of entering a temple rather than a building. Together with Vincenzo, the project was also witness to the participation of Fausto and Lucio, who graduated in Civil Engineering in 1933 and 1946 respectively, sanctioning the generational continuity of this Roman Office, following the interruption caused by the Second World War. This professional period is a very delicate one, given that it coincides with one of the most difficult moments in Italian history, it was indispensable to consolidate the passage of activity from one generation to the next, and in the case of the Studio Passarelli, this took place naturally and without registering any drop in the intensity of the work produced. On the contrary, it took place through an attentive process of modernisation and renewal that embraced the most up to date topics of architectural discussion, with the full awareness that Italian architecture was lagging behind its international counterparts (Tullio Passarelli was roughly the same age as Frank Lloyd Wright (1867), Charles Rennie Mackintosh (1868) and Adolf Loos (1870) and 18 years older than Le Corbusier). The new generation is thus prepared, from all points of view, to understand the importance of consolidating their own cultural and professional position, and of being genuinely open to change and experimentation in order to fully understand the needs of a society that was undergoing a rapid transformation and to interpret and elaborate these changes in the necessary architectural solutions that were both suitable and pertinent to the changing expectations of the client.
We can also consider that, in terms of the new language of architecture, some interest must certainly have been generated at the time of the IMI competition by the work of Luigi Moretti – a figure with whom the studio never collaborated – and his recently completed Girasole apartment building in Rome.
In the years following the post-war period, Lucio Passarelli confirmed his role as a designer, establishing himself as the figure that will continue to guide the architecture produced by the firm.
This openness was made evident in the projects designed during the 1950’s, which demonstrate an interest in the realm of social architecture, such as, for example the “Villaggio San Francesco” built for the homeless in Acilia (1953), as well as in the structural experiments being carried out. During the period under exam this theme is clearly present, other than in the aforementioned project for the IMI, in the projects for the small villa in via di Santa Prisca in Rome (1954), the Istituto di Frutticoltura ed Elettrogenetica in Ciampino (1956) and the Church of San Luca, designed with Riccardo Morandi, in via Gattamelata in Rome (1956). The interest in urban planning that characterised the firm’s work in some of the projects mentioned becomes even stronger in the years to come, as can be observed in the Zoning Plans, the Business Parks and the hypotheses and research into meta-projects, in some cases even “future oriented” (see Studio Asse). This decade ends with the victory in the competition for the urban restructuring of the Città Giudiziaria in Piazzale Clodio in Rome, a piece of the city that was still unresolved and which, over 40 years later, is still home to circus tents.
The 1960’s began with the project for the school of Notre Dame (1960), which represents another milestone, not only for the clarity of the distribution in the proposed solution, but also as a result of the internationality of the client, who, as in the following example of the Marymount School (1963), represents an important American educational institution. In the first case, the Office recognised and employed the efficient language, both sober and pertinent, of the aggregation schemes used in North American examples, where the classrooms on located on only one side of the corridor, for which the Office was awarded the In/Arch prize. The second example is the fruit of a research process that, in both the residential and office blocks, unites strong structural properties with the rigorous definition of the positioning of the openings, giving rise to three orders of uniform, vertical openings that are freely offset, in an approach that is now highly fashionable in the placement of both horizontal and vertical openings.
If the small store for Pozzi Ceramics in via Condotti designed with Hilda Selem (1960) demonstrates with clarity the attention given to the resolution of the whole as well as the detail, then the Head Office for the Compagnia Tecnica Italiana Petroli (1963) on the via Laurentina highlights the efforts made by the Office in the technological sector where the air conditioning ducts are placed on the exterior of the building, eight years before the same solution is adopted by Piano and Roger’s competition winning project for the Beaubourg.
However, the cultural eclecticism that characterises those offices that cross the centuries imposes the necessity upon its protagonists of making constant revisions to the language employed and which, during the years of neo-brutalism, cannot avoid including the plastic language of reinforced concrete. Here we can look at the project in via degli Ibernesi in Rome for the Convitto San Tommaso d’Aquino, whose chapel interior contains a public gallery in reinforced concrete – which, animated by the faithful, is reminiscent of Le Corbusier’s open hand or an enormous Holy Grail – bringing the Studio Passarelli to the attention of the architectural critics as a result of its renewed artistic qualities. These qualities are made even more visible in the Italian Pavilion for Expo ’67 in Montreal, where a rocky base is surmounted by a double roof line with a reversed, soft arch, as well as in the auditorium and the site planning at the Istituto Mobiliare Italiano in EUR, where an expressionist coté moulds the architectural volumes in a sculptural manner. Furthermore, this can also be seen in the proposal for the Roman competition for an addition to the Italian Parliament where strong, curved expressionist pylons in reinforced concrete, like large bastions or dams, contain a minute spatial mosaic of small metallic cubes that are designed to contain tiny studies for the parliamentary delegates.
In 1964, the Office completes its masterpiece: the multi-functional building in via Campania, located in front of the Aurelian Walls, in an area of Rome that is dense with “Passarelli” signature works. The fact that the site, for a number of reasons, was particularly stimulating for the designers undoubtedly favoured the extraordinary synthesis of ideas employed within a trapezoidal area of little more than 1,000 m2, with an angle between the walls and via Campania of 74°. The on-grade commercial level, set back and compressed, is surmounted by a trapezoidal glass prism that responds to the plan of the walls along via Romagna. A crown of four residential floors protrudes from this prism, highlighting both the orthogonal nature of the structure and the mechanical qualities of the construction. This ideational synthesis gives rise to a stratified building of rare and unique beauty that represents a fundamental point in the history of contemporary architecture, paving the way for “blurring architecture”.
Following the Master Plan for Rome (1962), to which Vincenzo made a significant contribution, it is the moment of the “Studio Asse”. This group produced the meta-projects for an office district in response to the necessity of shifting the city’s centre of equilibrium towards the east. This initiative, motivated by a climate of disinterest in the development of an urban policy organised according to a spatial plan, is made concrete through the creation of this group of professionals and men of culture (in the broadest sense) which included, in addition to the Studio Passarelli, Vincio Delleani, Mario Fiorentino, Riccardo Morandi, Ludovico Quaroni and Bruno Zevi, together with a rich group of collaborators (including Gabriele De Giorgi, Salvatore Dierna, Aldo Ponis, Fabrizio Sferracarini and Edgardo Tonca. This entirely self-financed group proposed a method of urban design that was aimed at overcoming the methodologies of zoning, in favour of the three-dimensional and layered control of the design of new parts of the city.
The only results of this extraordinary project are a series of publications, exhibitions and debates. This is due more to the fear of politicians and administrators that a group of professionals could exercise such strong control over the city than to Manfredo Tafuri ‘s opinion that “….it is a useless machine, that seeks to free itself from its own rectified condition through the use of geometric codes that lay mute.”, and “Only Fiorentino will manage to gain something from the Studio Asse experience: but we must wait for Corviale.” (M. Tafuri, Storia dell’Architettura Italiana dal 1945 ad oggi, Einaudi, 1982-86, Turin p. 107). The project is transformed into successive contracts, such as the coordination of a study group promoted by the ACER and the Consorzio SDO to deal with the Sistema Direzionale Orientale, though these experiences have yet to generate any concrete results.
The 1970’s began with the prestigious contract from the Governatorato del Vaticano for the design of the addition to the Vatican Museums of the new Museo Archeologico Profano, Cristiano, Missionario Etnologico. Once again the complexity of the theme, which called for the creation of a fixed location for over one thousand Roman archaeological remains from the palaces of S. Giovanni in Laterano, including the mosaics of the Baths of Caracalla, was seen by the sharp, illuminated and “anagrammatic” mind of Lucio Passarelli as a puzzle to be solved. Light plays a fundamental role within this museum, entering through both rectangular and circular cuts and openings located at various heights, as well as overhead. Furthermore, the experience of the reversed, soft arch roof used in Montreal was employed again here to cover the precious mosaics with an extremely light and structurally ‘natural’ roof.
The Villa del Sole (1974), the design of which is the result of a collaboration with Alessandra Muntoni, is a work of neo-brutalism of undoubted interest. It is as if this project wishes to re-elaborate and detail the circular elements of the asse attrezzato neighbourhood.
This decade ends with some notable advances in the field of assisted public housing, followed by the production of the Ispredil scheme for Law n. 513, and the experiments in Ponte di Nona which in the end culminate in the realisation in Rome of two wide parts of the city: the Zoning Plans for Vigne Nuove (1977) and Torrevecchia (1979). The first example, with its stepped volumes and shifting rhythms set off by stair towers that are separated from the built volume, becoming columns of a giant order, is as architecturally superior as the second project is correct in its approach to urban planning, where the north-west exposure captures views of the sunsets of the Roman campagna and the central green parterre contained between the residences.
The 1980’s began with the FIAT Business Centre in Corso Ferrucci in Turin, designed together with Ludovico Quaroni, where an “L” shaped volume in plan (the initial of Lucio and Ludovico), features two different widths, similar to a typeface. The longer segment is composed of a quintuple volume, with an impressive 5 transversal columns and a total depth, at the top of the volume, of 29 metres. The corner of the “L” is carved out in a sculptural manner, creating an asymmetrical and dynamic entrance to the complex.
The winning entry to the competition for the new Alitalia Headquarters is from 1981. This small city of offices uses a diagonal line to break the serial nature of four parallel volumes. The construction drawings were largely completed by the Studio Valle, another imposing family of Roman designers whose history, in terms of its length and richness can almost be compared to that of the Passarelli family.
The coordination of the urban planning and construction of the interventions in Tor Bella Monaca (1982-95), a commission whose various phases lasted for over thirteen years, resulted in the realisation of a neighbourhood for 28,000 residents including all of the infrastructural works, schools and a portion of the general services. Other important projects from this decade include the office building in Corso Sempione in Milan, the renovation of the headquarters of the Istituto di Credito per le Opere Pubbliche and the Church of San Vigilio in Rome. The firm also suffers the loss of two important projects: the design-built competition for the new Settlements for the Banca d’Italia in Frascati (1982), finely designed together with Marcello Rebecchini, and the competition for the Second University of Rome in Tor Vergata (1985), for which the Studio Passarelli joined forces with the Studio Transit. However, perhaps following the victory in the Alitalia competition, it would have been difficult to obtain another important success, in such a short time.
The 1990’s began with the international triumph, over 450 entries, in the competition for the Acropolis Museum in Athens with a scheme designed together with Manfredi Nicoletti. The form and proportions of the proposal are both exemplary and incredibly clear: in order to reduce the building’s impact and avoid the possibility of competing with such majesty and millennial resistance, a prism with the same dimensions in plan as the Parthenon is prematurely ‘ruined’ and “buried” as if by a telluric shock. A long “eyelid” – later re-proposed in the Church of SS. Martiri di Selva Candida built in Rome in 2005 – places the internal space of the museum in visual communication with the Acropolis. Unfortunately, this extraordinary project, understandably supported by Bruno Zevi, was never built. Near the completion of the definitive drawings, the Greek Government, as a result of the presence of archaeological remains that had previously been officially declared unimportant, requested a change to the project and obtained a ruling, based on EU regulations, that this work could not be carried out by the current designer, making it necessary to hold another competition. A false pretext, presumably due to the absence of Greek architects within the winning group. The new competition, which drew only a few competitors, was won by the Greek architect Michalis Fotiadis, who joined forces with Bernard Tschumi.
The restoration and renovation of Aschieri's building for the ex Istituto dei Ciechi di Guerra in via Parenzo into the home of the prestigious LUISS Roman University dates from 1995. The intervention, which initially restored the building to its original state and later inserted newer elements, was awarded the Europa Nostra prize for 1995-96.
In 1996, when the Vatican Museums wished to study the possibility of realising a new entrance and a new large foyer – in order to use the double helix ramp (designed by Giuseppe Momo under Pope Pius XI, who wished to repeat the motif of the well of San Patrizio in Orvieto) exclusively as an exit – the Studio Passarelli was once again called in, this time with Sandro Benedetti and Angelo Molfetta. This is another example of a project that is in close contact with pre-existing historical elements: the insertion of a new, partially underground space and a ramp that would connect the street level with the Corazze courtyard above within a series of underground interstitial spaces located alongside the walls of the Vatican City.
The century concluded with the renovation of Rome’s Biblioteca Nazionale in via Castro Pretorio (1999), with a project that, approximately 40 years after its construction, restores the faded spaces of the library through the insertion of an undulated spine and strong chromatic interventions in tones of blue, green and magenta.
From the work of the current decade there are two projects that deserve particular mention: the Palazzo dei Congressi in Riccione and the Church of SS. Martiri di Selva Candida in Rome. The first, designed together with Alessandro Anselmi, Carlo Gandolfi and Piero Gandolfi, is a successful attempt to offer a coherent design response to a complex architectural theme – which has recently grounded many architects – that is simultaneously efficient, modern and innovative. In the second project it is the liturgical space that represents the element of primary interest. Its is a covered hall whose vibrant wood structure features the juxtaposition of two geometric systems: one curved and Romanic, with a sober finish in simple rows of bricks, while the other is orthogonal, with full-height pilotis and a significantly purist flavour. The overall composition of the plan – which recalls the hammer and sickle – represents a successful attempt to create not only a volume within the landscape, but also a true urban space (the same which, even at a much different scale, can be found in St Peter’s, Loreto, St. Mark’s and elsewhere). The rake of this curved wall generates a large, asymmetrically located apse that extends towards the faithful through friendly and protective embrace gesture of the masonry cladding.
Having completed the book and this brief note of introduction, I invite the reader to follow, from the post-war period on, the logical thread that divides it into ten year periods. This division was considered to be the most appropriate means of approaching the Office’s work in a manner that is continuous and discreet at the same time, and which spans a period of production that is twice as long as that of any single architect.
I would like to make one last consideration on the present and the future. From the beginning of the 1990’s or, more precisely, since the computer has invaded architectural offices – becoming the drawing table, the archive, the navigator and other – up to our days, the confrontation with innovation is ever more present, forcing each of us to confront a process of continuous modernisation and revision. Architectural offices are violently affected by the passage of this “Angelus Novus”, whose furious winds of change have produced deep effects. However, there remains a solid trace, both visible and unchanged. And the challenge that will define the coming years is that of responding to these changes, as the Studio Passarelli has always known how to do: by valorising both the elements of continuity with the past and, at the same time, those of innovation that look towards the future, drawing on a lengthy, experiential and authentic tradition of making Architecture.
I would like to thank Tullio Passarelli for his outstanding and consistent effort in the organization of the work, in the search for the various materials, in the writing of the list of projects and the bibliography and in the correction of the texts. My most grateful thanks goes to Lucio Passarelli who entrusted me the task of editing such a large number of pages of a real history of architecture.Alessandro Anselmi
Those who wish, finally, to deal with the description of a history of architecture in the city of Rome, opening themselves towards the richness and complexity of numerous design proposals, built or unbuilt, must seriously consider the significant amount of work produced by the Studio Passarelli. Not because this work is unknown in the field of historical research in Rome, but rather because it must in some way be “relocated” within the development and growth of the city towards an improved level of cultural awareness; and this notwithstanding the “shyness” that has always been demonstrated by the studio, from its founder Tullio through to his sons Vincenzo, Fausto, Lucio and the young Maria and Tullio Jr. and Tullio Leonori
The Studio Passarelli is a Roman office, in the sense that its work clearly presents a type of language that is very diffuse within the city, so much so that it has become an archetype, though without falling into the traps of “Romanness”, of historicism, or worse yet, of the vernacular.At the end of 1920’s and the beginning of the 1930’s, Rome underwent a rapid transformation of its architectural image. It is a transformation that remains mysterious and, in many ways, unexplained. In fact, in approximately five years the city passed from being the city of the Barocchetto and the ornate, more or less classical, to the city of pure surfaces, where cantilevers and balconies are at play, like free geometries in space.
This transformation cannot simply be explained through the indisputable cultural renewal that was activated at this time. Together with some very complex issues and reasons that are not the object of this short essay, there are other contributions that include the new technical and economic scale of construction companies, the never before seen push to develop the city, at the time well demonstrated in Piacentini’s 1931 Master Plan, and not lastly, the talented group of architects and engineers who understood how to translate this new and original language into something that could meet both the cultured requirements set off by international debate, as well as the aspects of an aesthetic renewal desired by society at this time.
This led to the almost spontaneous birth of “Modernism” in Rome, which quickly spread, above all in the field of residential construction, offering no possibility of turning back. A new image of the city was created, where the decorative and ornate stucco work in reinforced concrete was substituted by sharply cut travertine and exposed brick, combined with smooth stucco and light coloured finishes and “horizontal” windows, all clearly underlining the “abstract” nature of this new architecture.
During the 1930’s, Rome became an exclusively modern city (at least aesthetically, and this is no small feat) which, through the dialectic between academic architecture, reduced to its geometrical essence and to a vague historicist and “metaphysical” archetype and “rational” construction, more sensitive to the needs of the avant-garde, nonetheless manages to express its own specific identity.
There were many works of great value (we can think of the Post Offices), in addition to works of pure professional routine, all of which can, however, be considered to be a part of this new aesthetic dimension.
From this moment onwards it is possible to speak of the development of the modern definition of architecture, and thus of its own history and transformation as part of a continuity.
All of the projects by the Studio Passarelli are a part of this history and this transformation, (naturally from the 1930’s onwards).
The large block of grain silos along the Lungotevere Pietra Papa, with its decisively rationalist geometry, marks the beginning of the office’s participation in the city’s new aesthetic adventure, followed a few years later by apartment buildings in via di Villa Grazioli, via Oglio and the small villa on the via Salaria. Aside form the architectural singularity and the expressive force of the building for the Consorzio Agrario Provinciale, the apartment buildings and the small villa already present the measure of the choices made by Passarelli within this new world of languages; they are works of architecture that testify to the functional rigour and the formal intelligence that would later become the hallmarks of the office.
Some years later, after the Second World War, it is necessary to look at the firm’s participation, together with the architects Panconi and Pediconi, in the project for the headquarters of the Istituto Mobiliare Italiano in Via delle Quattro Fontane. This is one of the most interesting buildings from the post-War period, as a result of its formal quality, reinforced by even the most minute details and the capacity for “dialogue” that is establishes with its surrounding historical context. It is a demonstration, as valid today as it was at the time of its construction, of how a work of modern architecture can exist within a historical context, perhaps even improving it and importing new “values”.
It is not possible, in this short essay, to deal with the analysis of the numerous works produced form this moment onwards by the Studio Passarelli and, on the other hand, it is not my intention to play the role of the historian. I wish to simply present a testimonial, one architect’s glance at the works of other architects.
Nonetheless, while travelling the historical via Cassia, this glance cannot avoid staring at the white parallelepiped of the Marymount School, which appears to be suspended in a void at the top of the hill. This stereometry is enriched by the vertical cuts of the windows that dialogue with the masonry masses of the other buildings of the complex and with the outlines of the pine and cypress trees that dot this millenary landscape. It is another excellent example of dialogue, this time between modern architecture and the natural environment.
Of course I must mention what is surely the most well known of the Office’s works, the building in via Campania, about which a great deal has been written, almost always favourable and widely shared. It is necessary to recall the compositional method employed, which consists in accepting the juxtaposition between the glass volume below and the spatial complexity of the upper portion, without any pretence of “creating unity” within the architectural object, but rather, reinforcing this contradiction in order to obtain the maximum force of expression, with a most excellent result.
The functional rigour and formal intelligence that is typical of the office exceed the elevated level of professional quality, entering into the world of the architecture of excellence, those works that, in some way mark both history and the city. In fact, I can only agree with those who feel that this work is one of the most important examples from the second half of the last century to be found in Rome.
Of the office’s urban planning projects and consultancy services, such as those for the Master Plan of Rome, it is interesting to focus some attention on the large complexes built for the I.A.C.P. in Vigne Nuove or the Alitalia Business Centre in the Magliana, as well the brilliant design exercises demonstrated in their competition work, such as that for the New Acropolis Museum in Athens, a competition won by the office, though the project was never realised.
Finally, some mention should be made of the office’s most recent works, such as the new public entrance and spaces at the Vatican Museums, the interior renovation of the Biblioteca Nazionale and the Parish Complex of Selva Candida, which demonstrate both the compositional intelligence and the linguistic coherence that are part of the transformation of the “modern” and which, as mentioned, have always distinguished the office’s work.
I cannot end these short reflections which, up until now have been concentrated on the experiences of the last sixty years, without considering the initial activities which, like the solid trunk of a tree, have generated and supported a century of production.
Even during this period, with its completely different aesthetic characteristics, it is possible to discover the same “design intelligence” that I have mentioned above, testifying to the office’s ability, throughout its entire evolution, to grasp the qualitative aspects of languages that characterise historical transformations. This generates an expressive attitude that is devoid of any forced formal approach though probably, with some exceptions, also lacking any absolute values, but most certainly without any decline in their professional attitude.
For example, the two churches, as original as they were in the Rome of the beginning of the century and as well “inserted” within their context, so strongly marked by the Aurelian Walls and the nearby remains of the Imperial Villa of Piazza Sallustio, well represent this ability for dialectic design that lies somewhere between the “significant identity” of the built work, and its “ability to be read” by a vast public.
Even more so, this is demonstrated by the beautiful villas built for the Duchi Caetani in Parioli and on the Gianiculum Hill, by the schools in via Salvini and the small Monami Villa, again on the Gianiculum Hill, where spatial complexity and the juxtaposition of materials, always resolved with extreme finesse, become “typical” of this period of Roman eclecticism.
In concluding, I would like to recall the consideration that I made at the beginning of this essay about the “Roman identity” of the architecture produced by the Studio Passarelli, once again underlining its “modern” aspect. I believe that this is necessary and useful at this time in history, when the city is once again seeking its contemporary means of expression which, threatened by the methodological pretensions of historicism, cannot exist outside of its “modern“ matrix.
It is within this “modernity” that we find the architectural and civic importance of the many works designed and built by the Studio Passarelli, by now an integral part of the “values” of the contemporary urban patrimony of the city of Rome.Giorgio Muratore
It is extremely rare to be confronted with the activities of an architectural office that has been in existence for over a century and with an uninterrupted generational continuity. Perhaps it is even a case that is unique in its genre, at least in Rome. Yet this is what we observe as we flip through the pages of this book that contains a chronologically synthetic collection of one hundred projects from an equal number of years, a testament to one of the most prestigious architectural firms in Rome: the Studio Passarelli. In a certain way we are dealing with a unicum that testifies, with an abundance of documentation, to the century-long development of a professional activity carried out by multiple generations which, from the end of the 19th-century to the present, has contributed in a determinant manner to the definition of an architectural image and an urban reality that, on more than one occasion, can be identified with the very image of the city of Rome.
From the first works by Tullio Passarelli to the present, the work of at least three generations of Roman architects presents us with a history that, in its synthesis, is tied to the architectural experiences of a city, its metamorphoses and the logical, cultural, professional and symbolic paths which, from Rome at the time of Umberto I, (only recently named as the Capital city), arrives at our present era.
Tullio Passarelli’s first projects coincide with the end of a century that, for Rome, was dense with events and transformations, and the beginning of another that will prove to be even richer than its predecessor, affected by various periods, events and unrest that have, what is more, forcefully conditioned our current imagination. Synthesising the structural lines of a historical evolution of this magnitude is not easy and neither does it lend itself to simplifications and short cuts, given the density of events and material of the history that we are dealing with.
Tullio Passarelli’s work spans more than a quarter century and identifies, beyond the specific stylistic and structural declinations of his language, (to which I will return later), the definition of a code of design and behaviour that is of great interest and which, in some way, will set the tone for the entire and variously articulated design history of the firm. His architecture imposed itself within the Roman panorama at the beginning of the 20th-century not so much for the facile and extenuated research into new languages that many others did not hesitate to make their own, as much as, above all, for the ability to evolve, from masters such as Vespignani, Carimini, Calderini, Milani, Magni and Podesti, a logical capacity and a structural clarity that was capable of clearly identifying the specific and intrinsic quality of the built work, where the various typological experiments - churches, colleges, warehouses and residences - function as the support for the highly relevant construction of the definition of the character of the Rome that was being built at the time, above all in the more peripheral areas. It is a type of construction that is not subject to conditioning and which escapes the logic of the large public and monumental works that were being completed at the time and privileging, in its proposition as a service, a highly notable and varied number of commissions that, in the long term, are still capable of expressing the salient traits of a quality that emanates from good construction, from an intrinsic honesty to construction itself, which never appears to be surmounted by formally elaborated emphases and simple stylistic concessions, even if widespread, and not only at the time.
We are speaking of works such as the Collegio De Merode, the first work documented in this book, which already demonstrates a level of maturity and the choice to deal with complex themes, even if resolved through an attention to a submissive international language that finds its roots in fin de siecle French eclecticism, and hints of what are most likely of Semperian origin.
However, the collection of the most relevant works from these first years is composed of the grouping of the three churches of Santa Teresa in Corso d’Italia, the church for the Fathers of Monfort in via Sardegna and the Church of San Camillo in via Piemonte. These projects all date from the three-year period between 1903 and 1906 and present themselves with clarity and determination within the panorama, at the time still largely unbuilt, of the urban area that extended from the Sallustiani Gardens to well beyond the perimeter of the Aurelian walls, between the Villa Borghese and the via Salaria, towards the Parioli Hills. This area would later become the backdrop for many of the firm’s successive projects. We are dealing with projects of a significant and already complex maturity that belong to a medieval reveal which - other than the recoveries of elements of Vespignani, in addition to the works of the Roman Street, and in the wake of an attentive and in no way superficial re-reading of Viollet - place the young Passarelli in direct confrontation with the important themes of contemporary construction, highlighting a series of intelligent formulas related to the most current issues. These elements maintain their capacity to deeply reverberate within the best Roman religious architecture, creating inroads that were capable of surpassing even the Second World War. These buildings are absolutely fundamental for understanding the successive development of a consistent portion of the firm’s work, as much as and above all its ability to identify, apparently going against the trends, some of the guidelines of the best Roman architecture from the 20th-century. As a result, these projects, in more than one way, are comparable to and congruent with works by Magni, Cirilli, Busiri-Vici and Piacentini, in particular the Villa Marignoli, located at the intersection of Corso d’Italia and via Po or, a short distance away along the same road, the Villino Cirilli, together with his other fundamental work in viale della Regina and the Church in via Cernaia. These are capital works in the architectural phenomenology of Rome at the time; typology, structure and decoration find a means to synthesise, with significant results, even in the substantial sobriety of a religious structure. They are able to identify, following the uncertainties of the first years of Rome as the Capital city, an original approach to the re-appropriation of the city by the Church of Rome.
The lexical and material articulations of the neo-Romanic language quickly lend themselves to providing meaning to new Roman religious buildings, in what is an obvious antithesis with respect to the secular prevalence of the coeval classicism of Koch, Sacconi, Calderini or Manfredi.
We can also speak of the tangential relationships with the poetics of particular works by Basile which can be found in the Villa Caetani-Grenier in via dei Monti Parioli and, above all the Villa Caetani on the Gianiculum Hill, where the neo-medieval structure is enriched and contaminated by the extended subtleties of international origin and an already self-assured use of new structures in reinforced concrete. Villa Caetani stands out for the richness of its volumetric articulation and for a particular stylistic choice that remains attentive to certain echoes of the lessons of Tony Garnier.
One example that can be directly tied to the topics inferred by these important themes, in this case from the Cité Industrielle, is undoubtedly that of the large volumes and structures of the Magazzini Generali, located in the Ostiense neighbourhood. If, on the one hand they represent one of the few built fragments of Orlando’s great industrial dream for the restructuring of the Roman port area, on the other they now represent one of the central elements in the recent history of the industrial archaeology of the city. Their volumetric structure and the imposing steel profiles of the large crane structures that connect them to the water’s edge still represent a symbolic and visual point of reference for the entire area, now undergoing a radical renovation. Here the memory of the London Docklands is mixed with the neo-realistic suggestions painted by Vespignani and integrated, today, with the spectacular skeleton of the largest of the Roman gasometers. The complex’s absolute adherence to the functional and distributive rationale of the movement and storage of goods, where nothing is given over to reasons that exile the immediacy of their technical motivations, make this work a special manifesto of proto-rationalism, opening another important chapter in the office’s activities. The Studio will return many times to analogous themes, both in the same urban context and elsewhere, in providing an answer to the specific requirements of a client such as the large Consorzi Agrari.
The renovation of the Stock Exchange and the Chamber of Commerce in piazza di Pietra, with its overlap of functional and symbolic requirements, of techniques and archaeological elements of exceptional value, represents, in many ways, a unique example, perhaps as a result of its specific programme or the highly particular context within which it is located. Once home to the Dogana di Terra (Customs House) designed by Francesco Fontana and later modified by Virginio Vespignani during the second half of the 19th-century, prior to the intervention by Passarelli, the complex, housed within the spaces of the Temple of Hadrian underwent further modifications before assuming its current configuration. The first proposal, which featured a steel structure, was followed by another solution, with a continuous structure, characterised by large bays, with sizable openings in glass block that provide overhead light to the large spaces behind the façade along the street that leads to the piazza, where the large bays of the giant order, which pick up on the dimensions of the colonnade along piazza di Pietra, make use of strong chiaroscuro accents to create a dialogue with the attic above and with the massive dimensions of the portico below, anticipating the coarse classicism of the porticos that surround the vast interior spaces.
Further linguistic inflections lead Roman architecture to make use of renewed formulas of Baroque themes. At the beginning of the 1920’s these reflections give birth to the season of the so-called “Barocchetto”, traces of which can be found in the renovation of the Villa Parodi in via Aldrovandi where, in harmony with other analogous coeval and radical renovations near the Villa Taverna or in other works by Busiri-Vici in via Po and via Pinciana, the language of the baroque suburban Villa is contaminated and decanted with the more profound derivations of the Roman baroque spirit, already investigated by Giulio Magni, in the wake of the fundamental contribution made by his father Basilio, and which will become the base for a fertile period during the 20th-century, also found in the “Roman Villas” of Giorgio De Chirico, generating the architecture of Luigi Moretti and, even later, that of Paolo Portoghesi. The architecture of the Villa Parodi is thus strongly related to the exuberances of the unprejudiced Brasinian language of the Villa Flaminia and the Villa Manzoni, denouncing a poetic koiné between these two figures, who had already met while working, side by side, on the job site of Santa Teresa and San Camillo.
Within the same context of the Pinciano-Parioli neighbourhood, we can also find the convent of the Carmelite Sisters, the Istituto del Sacro Cuore e dell’Adorazione and the College of Saint Gabriel’s, located respectively in via dei Tre Orologi, via Salvini and viale Parioli and which, in urban terms can be defined as pioneering works of architecture in what was once still the extreme northern periphery of the city. They testify to a further simplification of a language that appears to be strongly related to that use by the Roman Governatorato in coeval experiences with the theme of scholastic buildings and, in particular, with the experiences of Vincenzo Fasolo and Oriolo Frezzotti. The client is once again a religious institution, the same one who will successively provide the Studio with other important commissions, for works that include the enlargement of the Pontifical University of San Tommaso-Angelicum in Magnanapoli, the General Residence of the Dominican Fathers, connected to the Convent of Santa Sabina on the Aventine Hill and that of the Brothers of the Christian Schools on the via Aurelia. The first two examples, in particular, deal with the complex problems of site planning resulting from the specific difficulties of working in an extremely historical context, with success and determination.
Another work from these years, singular in its own way and which bridges the experiences of the Magazzini Generali (of which it is amongst other things and not by chance a neighbour) was realised for the Consorzi Agrari, a client that will absorb even more of the firm’s attention in dealing with analogous themes during the second post-war period. The massive grain silos for the Consorzio Agrario Provinciale, located along the Lungotevere di Pietra Papa and better known as the “Granaio di Roma” have unfortunately been cheapened by recent and highly incautious renovations. This is an exceptional work that could be compared, in terms of scale and peremptoriness, with the Pantanella factory located just outside Porta Maggiore. The twos hare another relationship, as the result of the unfortunate outcome of recent and short-sighted forms of speculative valorisation. The characteristic profile of this large factory once contributed to defining the industrial area located along the right banks of the Tiber River, already home to the Biondi Mills and the Mira-Lanza (soap factory). Comparable in terms of quality and intrinsic meaning to contemporary works by Aschieri and Morpurgo, the building for the Consorzio Agrario is a fundamental piece of Roman industrial architecture that focus particular attention on structures in reinforced concrete, elements that begin to find exceptional favour from the 1930’s onwards in the schools of engineering and architecture, with interesting reverberations in both civil and industrial projects in the decades to come.
These are the years of crisis for those languages that have been contaminated by academic historicism, in favour of a more extended and diffuse affirmation of the characteristics of a “modern” architecture that, above all, on the basis of a technological innovation that is certainly not radical, though undoubtedly attentive to the values of the substantial need for savings during construction, privileged the sobriety of the most frequently used forms, technologies and materials.
These are the years when, having overcome the most heated disagreements related to the rationalist “style” that had impassioned debate during the 1920’s and 1930’s, the debate shifts to modern construction, diluted in less aggressive formulas, more accessible to the general public and thus capable of enjoying a much vaster popularity. These are the years during which the emerging figures on the Roman scene, from Libera to Ridolfi, from Moretti to Capponi, from Morpurgo to De Renzi and from Aschieri to Filippone manage to overcome even the sophisticated models of Piacentini, with their central European inspirations and marked references to Hoffmann, Loos and Vago, in order to recover a Roman approach to the “palazzina” which, from this moment onwards, will constitute the typological element of private construction that contributes to the expansion of the city. Even in this sector, the presence of the Studio, clearly marked by the collaboration of the younger generations, has left us with examples of unquestioned relevance. In particular we can look at the group of palazzine and villini built along the via Salaria near the Villa Grazioli and at the intersection with via Panama. They represent an exemplary resource for documenting the passage from what was by now the definitively obsolete styles of the “barocchetto” and the more up to date Roman approach to Modernism that was marked on the one hand by a cautious approach to the 20th-century derivations of Muzio and the Piacentini’s second period and, on the other, by the experimentation with new typological, technological and linguistic formulas, particularly dear to the school of engineers in Rome, where the lesson of Milani was most capable of producing a serious and constructive approach to the themes of Modernism, avoiding the forward leaps that were more frequent, in those same years, in the more radical and closed circles of the “fashionable” architects. From this point of view the buildings in question well represent a successful and reasonable point of encounter between the reasons behind the aforementioned poetics, confirming a compositional hypothesis that unites the intrinsic qualities of a “well built” building with the requirements of the solid self-representation by a middle class that is alien to the excesses of a Modernism and, what is more, which is assumed as the symbol of a new political reality, such as that which was definitively confirmed in Italy during those years. They are thus “modern” palazzine in every way, though they are also capable of richly dialoguing with tradition and based on a very solid cultural model that, during these years, may also have drawn on personalities such as Broggi, Foschini, Franzi, Marchi, Tufaroli or Luccichenti, amongst the best interpreters of this same reality within the Roman scene. This period is also witness to the firm’s participation in some of the numerous competitions aimed at giving form to the new image of Fascist Rome. However, the office obtains no results, perhaps due to the Studio’s evident, cultivated and ethical-cultural extraneousness to the necessary and specific contiguity of this contemporary political reality.
Following the resumption of construction, after the Second World War, the activities of the office are once again intense and we can speak of the definition of an important new season of very rich professional and design opportunities. Many of the projects are built and, in general terms, they feature a profoundly renewed force and imagination which, even though they are realised for a client that has already been tested for some decades, are capable once again of imposing themselves upon the local scene with absolutely autonomy, rigor and experimented professionalism. These are the years of the so-called building boom, when a conspicuous acceleration in demand, corresponding with the ability to technically and figuratively define the new forms of settlement corresponded, in an exemplary manner, with the new political-cultural climate. The renewed presence of the Church of Rome on the national and local scene also offers its multiple structures a new possibility in terms of programme and design, determinately inserted, even within the mutated and particularly vital conditions of urban development in the Capital city. The new accelerations assumed by the dynamics of land division in central areas, but above all in the peripheries, in analogy with that which had already taken place during the 1920’s, saw to it that the Studio rediscovered its ability, in no way secondary, to impose itself upon the dynamics of the evolution of construction processes in contemporary Rome. In fact, these are the years of numerous and extensive projects that helped to make the Studio one of the central points of reference in the local professional scene, enough to make it, in only a few short years, one of the most qualified references in the Capital.
During the twenty-year period between 1950 and 1970, the firm is witness to a period of exceptional productivity and projects of great importance, some of which are undoubtedly exceptional, and all of which represent opportunities for the experimented trustworthiness of the rich staff of designers and collaborators involved to complete them. These projects are distinguished by a high level of attention to the intrinsic qualities of a built work whose ability to resist both time and fads now presents the evidence of an exceptional text for deciphering - also and perhaps in its contradictory complexity - the richness of a period of history. It is a period that we are finally beginning to observe with the attention that it merits, having set aside the disputes, above all ideological, that had marked the moments of inflection and development. To finally look at those years with the attention that they deserve allows us today to verify the results with greater sobriety, providing us with the opportunity to select the numerous works of value that have, to date, been obscured by a careless and often factious criticism.
Up until the first half of the 1950’s, the Studio was thus kept busy by a highly fertile operation of renovations, even stylistic, of their own repertoire, which would evolve into an easily recognisable formula, even at some distance, where the sobriety of the linguistic division will find a response in an extraordinary capacity to resolve the contextual and functional problems of a client who, step by step and over the course of a few years, continues to assume ever more complex and ambitious aspects.
One of the first works from this very fortunate period of professional activity almost leads one to believe that the Studio wished to begin such an important phase, (amongst the most consistent in its activities), with an equally important work. I am speaking of the new headquarters for the Istituto Mobiliare and the Istituto Italiano Cambi in Via delle Quattro Fontane, a collaboration between the Studio Passarelli and the tried and tested and equally qualified Office of Paniconi and Pediconi. The work is undoubtedly amongst the most important from the post-war period in Rome, an exemplary demonstration of how architecture can and must dialogue with the historical context, beyond the misunderstandings and hypocrisies that are still at the base of the debate relative to this topic. In one of the most delicate contexts that is only a few metres from and in direct relationship with one of the most important works of architecture of all time, Borromini’s Church of San Carlino, the new building, with its lengthy façade along the Sistine axis of the Four Fountains is connected by a broad cavity at the base with Via Piacenza, to which it otherwise serves as a backdrop. It demonstrates an extraordinary capacity to interpret, in the most mature manner, the contextual complexity of the site, assuming its essential morphological traits and presenting an equal ability to achieve a level of detail that is further enhanced by the contributions of artists such as Alessandrini and Basaldella. We are dealing, substantially, with one of the best examples from the “Roman School” that was formed during the years immediately preceding the Second World War, though not exempt from the lessons of Piacentini, Morpurgo and especially Del Debbio. The project manages, above all, through the extremely high level and quality of detailing of the complex and, in its own way, baroque treatment of the main façade and the strong accents of chiaroscuro that are the result of the intelligent manipulation of the treatment of materials and surfaces, creating one of the most fertile dialogues between history and memory and between modernity and tradition, which rarely finds an equal in coeval works of such considerable urban importance. Travertine and reinforced concrete become the primary materials of one of the most important, though less recognised and appreciated works from the second half of the 20th-century in Rome. During these years, otherwise characterised by widespread interventions of public construction, above all related to the Ina-Casa plans, the firm also realised an enormous quantity of small and large works within the Roman context, allowing the office’s designers to further verify the expressive capabilities of their privileged formula of intervention.
Once again we find the Studio Passarelli experimenting with residential buildings through the diverse typologies of the row house, the small villa, the noble villa, the palazzina and the large apartment block: on the Aventine Hill, in Via Santa Prisca and near the Circus Maximus, in Via Gregorio VII, viale XXI Aprile and in the EUR neighbourhood. These elements represent prototypes and at the same time provide a level of continuity to a rigorous approach to understatement, distant from the vulgar ubiquitousness of much of Roman architecture at the time. The buildings are consciously reserved, almost as though they wish to identify, in the average character of the residential building, the essence of a “diffuse quality”, a concept that will be debated, often incorrectly, in the classrooms of the architectural schools in the years to come.
The commissions from public and religious clients also continue. These are the years of the College of San Giuseppe on the Via Flaminia, the Istituto di Frutticoltura in Ciampino, the School and Church in Via Casale di san Pio V, the school in Florence and the grain warehouse for the Consorzio Agrario of Pomezia (later repeated in Bracciano, Cerveteri, Anguillara and Monterotondo), all of which are resolved with great attention focused on the issues of rather limited budgets which, instead of inhibiting, appear to have stimulated the search for a structural and poetic coherence between technology and “poor” materials. Brick and reinforced concrete are used with great skill, often in collaboration with important structural designers such as Riccardo Morandi who, in the exemplary case of the roof for the church of San Luca in Via Gattamelata, resolves the structural aspects of the building using tones that descend from Perret, Candela and Torroja, touching upon and anticipating by only a short period, the Roman exploits of Julio Lafuente. The distinctive traits of the building place it amongst the most interesting examples of religious buildings in Rome from the 1950’s, beside works such as San Policarpo by Nicolosi and San Gregorio VII by Paniconi, which maintain their position amongst the apical references of this particular koiné.
Another work that appears to further mark the reason for the inflection and the methodological investigation into the languages of the contemporary is without a doubt the International College of Notre Dame, located along the Via Aurelia. The specific requests made by this American client appear to indicate, on the one hand, an open adhesion to the characteristics of the structure of a plan that is clearly and genuinely Anglo-Saxon and, on the other hand suggests a series of design solutions that can be easily ascribed to the metabolisation of Mies’ experiments. The echo of the educational structures at I.I.T. are in direct consonance with the more profound spirit of many other works by the firm, renewing, in the essentiality of the new proposal, profound attitudes and sensibilities that are capable of listening to and understanding the particular issues that are central to the debate about the most resolute and radical modernity. This building represents another important text for verifying, at the level of architectural quality, an intellectual understanding to which the contributions of Bruno Zevi were not extraneous. It was Zevi who, precisely during these years, acted as the connection between Italy and the United States, between Italian and American architecture.
This building, surely one of the central points in the Studio Passarelli’s work during these years, represents the experience of something that is rare in Rome: an “international” and extremely Anglo-Saxon air which makes it, in turn, a unicum within the Capital city during the 1960’s.
There is also a much more decisive air of 'Romanness' in the large project for the Seraphicum on the Via Laurentina and, in more subdued tones, the College for the General Residence of the Franciscan Sisters on the Via Cassia. The first project, built on the “remains” of Brasini’s building for the Istituto Forestale, part of the incomplete E’42, was realised in collaboration with Lenti and Sterbini. It presents traces of the derivations that can be found in the building on Via delle Quattro Fontane, which lead to the successive and even more conspicuous of the firm’s works in the urban area of the EUR neighbourhood. The second project, once again for a Franciscan client, stands out as a result of the stereometric rigour of the volumetric interventions and, on the whole, for the even more interesting graphic design of the masonry on the main elevation, turning the “façades” of this complex into “lessons” in graphic composition.
Two smaller works, though of great importance in terms of their composition, belong to the beginning of the 1960’s, testifying to an extraordinary attention to the problems of the site and to those of detail, or of “moulding”, as Luigi Moretti loved to say. They are very different interventions, both in terms of their programme and contextual location: the first is a sporting club located along the left banks of the Tiber River, near Acqua Acetosa and the second is the Convent of Saint Thomas Aquinas in Via degli Ibernesi, in the heart of the historical centre. In the first case the Studio Passarelli once again collaborates with the office of Paniconi-Pediconi on the design of a small volume that is raised on columns and connected with the banks of the river by a system of paths which, at the moment of contact, upset the entire stereometric structure and create the occasion for a sophisticated play of openings. We are dealing with one of the best examples of Italian architecture from the beginning of the 1960’s, which has nothing to fear when compared with the best works of Scarpa, perhaps even eschewing certain decorative aspects. The second example presents itself as a small functional addition to the large complex of the Angelicum that was realised by the firm thirty years earlier. Other than the brilliant resolution of a series of distributional and functional problems of large and misleading complexity, we are dealing with the peremptory and convincing affirmation of an insertion, without “contemporary” simulations, in a context that is rich with historical and environmental conditions. The result is extremely convincing and comforts us with a sense of the necessity, obvious only to some, of interventions within strongly historical contexts that are not stylistically arbitrary, placing the proposed addition in direct harmony with the best contemporary Anglo-Saxon examples, clearly form the Lasdunian school. Here, in fact, in the wake of the highly discreet period of Brutalism to which it cannot be considered extraneous, on the one hand, the last lessons of Le Corbusier, later evolved by the poetics of Team 10 and, as a consequence, the contribution of the first works by De Carlo, as well as those by Scarpa at the Scaligero Castle, the project appears to come close, with coherence and determination, to a type of architectural quality that is extremely rare in our city and perhaps even prohibited, forever, “by law”. Another contemporary work that is inspired by the same presuppositions of highly Anglo-Saxon poetic origins is the Marymount complex on the Via Cassia. Again, on the basis of analogous methodological premises, though in an entirely different context, located between the aforementioned villa Manzoni and the complex of the Generale Immobiliare in Vigna Clara, it is a gesture of refinements “in the style of Gardella”, upon which we should reflect. It is a project that deserves more recognition, perhaps by the many young people who look to faraway nations in the search for new inspiration.
Other than the aforementioned Seraphicum, the EUR neighbourhood also contains other prominent works realised by the office from the early 1960’s onwards: The Istituto Massimo, one of the most prestigious Roman Catholic Schools, once located in the building of the same name designed by Pistrucci near the Termini Train Station and which would later become the home of the Museo Nazionale Romano. The Centre for the Istituto Mobiliare Italiano, the new headquarters of the Società Italiana Autori ed Editori, once housed in the beautiful building that was intelligently renovated during the 1930’s by Tufaroli and located in the Prati neighbourhood. There is also the home of the CTIP - Compagnia Tecnica Italiana Petroli, the new headquarters of the IMI with its connecting auditorium and the plastic intervention by the sculptor Michelangelo Conte and later, the Sheraton Hotel and the INPDAP Business Park.
From amongst this list of buildings, I would like to make particular mention of the offices for the CTIP that, I feel, represent one of the most successful works in the tertiary sector from the early 1960’s. This project was capable of anticipating, from the very beginning, a successful linguistic formula where the tendency, widespread at the time, for prefabricated elements in steel found a means to evolve towards very convincing and undoubtedly modern linguistic formulas that anticipated the derivations and poetics of the High-Tech movement by decades. It is an exemplary work, practically ignored by critics and historiography, that would sit well beside such coeval examples as the office block by Montuori on Via Po and evolves well beyond Adalberto Libera’s similar, though highly acclaimed, experiences with themes that are in many ways comparable, for example the office building in Via Torino. These are the same years of the Studio Passarelli’s most famous building, realised for the Istituto Romano Beni Stabili, vis a vis the old office on Via Campania and the miniscule De Monfort complex, two steps away from the Churches of Santa Teresa and San Camillo. This multi-functional building contains residences, offices and commercial spaces and has earned both great notoriety and the destiny of being included by Bruno Zevi amongst the rare “masterpieces” of 20th-century Italian architecture. This is certainly not the correct moment for heaping more praise upon such a famous building, to which entire books have been dedicated. What is certain is that it represents the best that Roman architecture had to offer at the beginning of the 1960’s and, above all, the rare ability to fully correspond to the need for self-representation of a fully declared work of modern architecture that is, however, capable of learning, in an exemplary manner, from the necessary and vital relationships with the history of a site, with the rolling wave of an idea about architecture which, in many ways, was capable of expressing the most profound sense of the city and the stratification of its built works.
It is a building that makes this idea of stratification and context its own, measuring itself against the memory of a site that is marked by a millennial history and located along the perimeter of the Aurelian walls, successfully dialoguing with the alignments, axes, materials and signs of a complex urban context and, in an equal manner with the values of a vital and mature contemporary design experimentalism. It is a building that dialogues with ancient Rome, with that which grew inside and outside the walls as well as being capable of creating a new dialogue with other exemplary works that have also sought and found the means to exorcise the theme of stratifications, such as the unforgettable works by Mario Ridolfi in Via Porpora and Via Paisiello. In the same way that the latter was able to superimpose himself, with respectful peremptoriness to the small villa Astaldi by Foschini and the villa Alatri by Morpurgo, in what remain the best two of his last Roman buildings, here the Studio Passarelli, almost in a logical, methodological and poetic continuity, appear to draw up alongside them, picking up on their deeper meaning, plastic suggestions and inspirations, which are still loaded with expressive potential.
Looking out the window of the office and glancing around at the building’s details is still an unforgettable aesthetic experience that offers a true and majestic lesson in architecture.
I cannot close the discussion of the fortunate and extraordinary period of the 1960’s without mentioning a few other important works, such as the Collegio Pio Latino Americano, realised along the Via Aurelia in collaboration with Julio Lafuente. The building features a sophisticated and by now uninhibited use of the brick wall and structures in exposed reinforced concrete, allowing for the guaranteed achievement of volumetric and chiaroscuro results. There is also the School for the Congregation of the Brothers of the Christian Schools, where, picking up on certain elements that were already experimented in the Notre Dame College, the exterior walls are enriched by a vibration created by the structuring presence of a thin metal wall. I can also mention the beautiful multi-functional complex for the IMI in Milan (one of the rare examples, at the time, of a “non Roman” work by the office), distinguished for the overall quality of the intervention, capable of imposing itself, with a subtle and qualified presence, upon the almost opaque professional panorama of Milan during those years.
Two equally significant and collective experiences in terms of importance and scale appear to close - together with the office’s participation in the competition for the addition to the Camera dei Deputati - the last, tormented years of the 1960’s. They were marked by a team effort in the search for that dimension where the architectural object appears to be contaminated on the one hand by an artistic-graphic gesture and, on the other, by its urban and macro-structural counterpart.
These are the years of the “contamination” of languages and the search for a “new dimension” that is capable of contributing new meanings and expectations that go beyond the standard and traditional dimensions of making architecture. In the wake of the extraordinary cultural animator personified by Zevi during those complex and contradictory years, both the Pavilion for the International Exposition in Montreal and the project by the “Studio Asse” for the new mega business district of Rome take form. The first is a fragmented and complex display route, a polymorphic metaphor of Italian creativity located beneath a gigantic sail that was animated, amongst other things, by the presence of a large “sphere” by Arnoldo Pomodoro and a dramatic and towering ceramic panel by Leoncillo. The second is a complex and visionary exercise in macro-structural urban planning produced by a team whose members included Mario Fiorentino, Ludovico Quaroni and Bruno Zevi. It is presented, above all, as a “dialectic” provocation within the otherwise stagnant climate of Roman urban planning culture that was otherwise sensitive and lenient with regards to the urban issues of the New Master Plan.
Above all, this latter experience appears to be the dramatic symptom of a cultural and professional situation that was in rapid and radical transformation and which, from 1968 onwards, to fix a date, will never be the same, as was the case for the material, political and environmental condition within which contemporary Roman architecture would seek new approaches to and models of development and, above all, survival. It is a laborious and robust example of self-financing that writes a new chapter in the Roman story and highlights, anticipating by some years, the aporia of a professional condition that hangs in the delicate balance between society, the market and culture and which will be definitively overrun by the events of the following decade.
Similar to a Royal Seal upon an activity that had been responding, for over seventy years, to the needs of a religious client, for the Studio Passarelli the 1970’s began with the project for an addition to the Vatican Museums. A most prestigious client and a project that is rife with the challenges of a unique context, as a result of its historical, ethical, cultural and environmental suggestions. It is a difficult and risky challenge for direct confrontation, in contiguous intimacy with some of the most venerated and admired works of architecture of all time. With a courage equal to the colossal architectural risks, the project faces up to the complexity of the request and the results, in the end, are capable of supporting such a difficult comparison. The work, certainly the most difficult to have been encountered during a century of activity and undoubtedly the most delicate in terms of the client and the contextual conditions, finds its concrete results in the complex and polymorphic articulation of its display spaces, by synthesising the fragments of a logical and cultural path to which the most mature of the preceding works appear once again to offer nourishment and support. It is an important and very difficult work, though in any case exceptional which, even while perhaps suffering in some areas from a certain reluctance caused by the inevitable immanence of the context, imposes itself for its effort and formal correctness. The work will later find its extension, only a few years ago, in the realisation of the new public spaces for the Vatican Museums for the Jubilee Year. This last work, flanking and integrating the double helix ramp of the new entrance designed by Giuseppe Momo, an inspiration for Wright’s Guggenheim Museum in New York, represents the extraordinary occasion of encounter between the city of Rome and the spaces of the most prestigious museum in the world. Such an important and involving work has passed almost unobserved, with respect to the many other works realised for the Jubilee, surely of lesser importance. The project also suffers, in more than one area, form the lack of an adequate support at the level of qualitative realisation, which undoubtedly penalises the final formal outcome.
Another important chapter in the activities of the Studio at the beginning of the 1970’s is undoubtedly represented by the advances made in the sector of residential construction, with particular attention focused on public housing and the themes of typology, prefabrication, regulations and related social services. In fact, beginning at the mid-point of this decade, when the theme of low cost housing was first raised, more or less as the centre of gravity around which to concentrate the attention of the best designers, an evident symptom of the obvious and conspicuous contraction of the demand from the private market, the theme of the “residence” reacquires a new centrality, interwoven with the complex social dynamics of those years. In particular, the city of Rome appears to rediscover the dimension of a design process at the scale of the “neighbourhood” or better yet the zoning “plan”, which becomes the opportunity for experimenting with the “new dimension” of design, about which so much had been said during the previous decade.
It finally appeared that the moment had come for the fruitful encounter between the scale of urban planning and the scale of architecture, between theoretical research and concrete experimentation, within the living body of the city. These were the years in which we were witness to the last great breath of enthusiasm and the push towards an integrated design process that involved political forces, administrators, managing bodies and designers, all working together on the difficult job of giving form to a city that, during the last thirty years, appeared to have lost its taste for a construction process that was capable of fully representing the building requirements of contemporary society.
The large residential complexes designed during these years, from Tor de’ Cenci in Spinaceto, to Laurentino and Corviale, from Vigne Nuove to Casilino, from Tor Sapienza to Tor Bella Monaca and concluding with Torrevecchia, even given the diversity of their basic structures and the results pursued, well represent a widespread collective intention that was part of an improved and more diffuse level of urban quality. As part of this collective effort, for the most part characterised by a necessary “group” activity, the presence of the Studio Passarelli stands out for its contribution to some of the more important projects, such as in the areas of Vigne Nuove and Torrevecchia, respectively completed in collaboration with, among others, Alfredo Lambertucci and Paolo Cercato (the first), and Barucci and Vittorini (the second). These projects well represent two of the many more typical examples of this interesting, and now somewhat forgotten, Roman period. These are still the years of the studies conducted by the Studio together with Ludovico Quaroni for FIAT Engineering and focused on the theme of prefabricated construction for experimental residential settlements in southern areas such as Termoli, Aquino, Pontecorvo, Piedimonte San Germano, Guglionesi and Campomarino, as well as the ISPREDIL research into experimental building projects for social housing that will lead to the interventions realised later in the cities of Alba, Lucera, Campobasso, Schio, Parma and Tortona.
Beginning in the 1980’s, following the substantial change to the political and economical framework, it appears that the specific condition of Italian architecture also definitively lost its traditional connotations, moving, on the one hand, towards the emancipation of a series of ideological and confessional restrictions and conditions, and, on the other, towards the rather savage liberalisation of the professional market which, by now, was ever more controlled by large offices, industrially organised based on the American model, and thus by the “important signatures” of the International Star System.
We are thus witness to a diffuse expulsion of the habits and behaviour connected with what is substantially a more personal, craftsmen’s “style”, typical of traditional architectural offices, in favour of the affirmation of functional models tied to the accelerated dynamics of globalisation even and above all at the scale of the market, of finances, of information, of image and communication. These are the years of the profound metamorphosis of contemporary architecture, which now finds itself at a fork in the road, defined by forced adhesions to ever more accelerated dynamics of a market that is on its way to a definitive and de-personalising internationalisation or the choice, in any case risky, to search for a new “patient” type of research, laborious and intelligent and moving towards the quality of good building, understood as the ethical limit, before even speaking of aesthetics, of the architecture of the future.
The last works, the most recent projects that are collected in this book well represent the disorientation of the current perspective of research with the overlap and the contrast of the terms of an intense and anomalous debate that is capable of fully representing the aporia and the hopes of contemporary Italian architecture through the daily experimentation with the most disparate design opportunities. From the large works for the tertiary sector, such as the FIAT Business Centre in Turin or the Alitalia building in Magliana, to the large international competitions such as, amongst others, the New Bastille Opera House in Paris or the new Museum of the Acropolis in Athens to the small and sophisticated High Tech renovations or the more complex “restorations” and requalification projects, such as the ex Casa dei Ciechi di Guerra by Aschieri, the Home of the Bank of Italy by Lecce, or the Angelica and the National Libraries in Rome. All of these occasions represent the new scenario of a design situation and a professional condition that is profoundly changed with respect to the preceding decades. They testify, in their entirety, to the continuing and vital presence of the Studio with its more than one hundred years of history. It is an Office that still manages to find, in what is undoubtedly not an easy period, the occasions for a highly significant presence, and its own continually renewed actuality.Lucio Passarelli
In writing this brief introduction I feel obliged to remember my father, Tullio Passarelli, as a man and an architect.
He is both the founder of the firm that, after 100 years, is presented in this book, and our point of reference.
Tullio Passarelli, the second of two brothers, was born in Rome in 1869. Interested in culture and the arts he studied at the Istituto De Merode in Piazza di Spagna, and later enrolled in the Faculty of Engineering (the Faculty of Architecture did not exist at the time).
It is interesting to observe (in comparison with the present) how, after graduating in 1893 and following an apprenticeship in the Office of Gaetano Koch, he began his professional career at little more than thirty years of age, designing and building, amongst other things the Basilica of Santa Teresa on Corso d’Italia: a work of great importance, both architecturally and in terms of its scale.
There is a significant age gap between my father and myself: over fifty years. From my earliest years I observed and inhabited a professional environment, also as a result of the fact that my two brothers, Vincenzo and Fausto, closer to my age yet still much older, already worked in the Office.
My father’s death coincided with my first years in University and the period of the Second World War. Unfortunately I was not able, nor did I understand how to enjoy a sufficient and direct contact with my father and the world of architecture, where I could have benefited from his lengthy professional and cultural experiences. Prior to their deaths in 1985 and 1998, my brothers would certainly have been much more capable of contributing to this biography.
We must, or at least we should entrust ourselves to the oral traditions and memories of the second and third generations. Our interest is equal to the challenges of a world that uses completely different methods to communicate and remember.
I will begin with some information about the beginning and the successive development of my father’s activities.
The Basilica of Santa Teresa marked the important beginning of his period of reference to the “Romanic” style. It was very well liked, amongst others, by Pius X who, with Pontifical simplicity, asked for an “identical” one, very close by in via Piemonte, to be dedicated to San Camillo de Lellis.
Tullio Passarelli was able to convince the Pope to ask only for the same stylistic approach.
I will return later to my father’s architectural evolution. However, in my opinion, the church of San Camillo considered in its entirety, even while presenting some interest at the urban level given its location at the corner of three roads, with its dark colours, light capitals and linear decorations by Armando Brasini, does not manage to achieve the original simplicity of Santa Teresa and the intensity of its interior.
As mentioned, today it is difficult for me to explain in detail the development of my father’s design activities. I will entrust this to the successive presentation of some of his principal works.
The new building for the Collegio De Merode (beside the S. Giuseppe in Piazza di Spagna); the Stock Exchange in Piazza di Pietra and the new home of the Chamber of Commerce; the Magazzini Generali in via del Porto Fluviale; the Caetani Villas on the Gianiculum Hill and the via Monti Parioli; the Pontificio Collegio Angelicum and the Aula Magna at San Domenico e Sisto; the Curia Generalizia for the Fratelli delle Scuole Cristiane; the Grain Silos.
These latter works were realised together with his sons Vincenzo and Fausto.
My father designed and coordinated an impressive amount of work, collaborating professionally with a very restricted number of collaborators and using a limited range of equipment.
When I consider the number of collaborators and the amount of space, on various floors, that we later occupied during the Office’s period of maximum growth, even if the “production” was undoubtedly greater, the relationship in terms of “productivity” was significantly less.
The Archives contain bundles of important documents, much thinner than the massive recent folders, even for small projects, which contain original hand drawn drawings featuring the elegant and subtle lines of my father’s pen or pencil.
His intense design activity was accompanied by an equally intense cultural activity.
Like the other successive members of the office, my father did not belong to the academic world or the teaching establishment. I believe, more than the result of a personal choice, this was because he was too busy with his professional career and family, coupled with an innate shyness.
He was, however, a very active member of the Accademia Nazionale di San Luca, of which he was president for the two year period 1929-1930. This was a very delicate moment tied to the moving of the Academy’s Seat, and to its becoming part of the unified Accademia d’Italia, only to be later reborn as an autonomous institution following the Second World War. My father was also a member of the Accademia Pontificia dei Virtuosi del Pantheon, again as part of the architectural class, as well as being a member of Technical Commissions for various Administrations among which the Commissione Centrale d’Arte Sacra to the Holy See.
I feel that I should now write briefly about his architecture.
At the beginning of his career my father worked in the Office of Gaetano Koch, later designing a small, elegant villa in via di Villa Torlonia for the next generation of the Koch family.
Gaetano Koch (Banca d’Italia, Piazza Esedra and Palazzo della Regina Margherita, now the American Embassy) infused his work with sobriety, finesse, “classical” architectural elegance and a level of continuity based on coherent development. It was Tullio Passarelli who organised the commemorative event at the Banca d’Italia, in occasion of the anniversary of the construction of the building.
For what reason does a young man of such provenance decide to make use of a style that is so diverse in its spatiality, graphic representation and chiaroscuro as the Romanic? The truth is that I don’t know, again as a result of some of the things I have already mentioned.
Perhaps, during his education in what was substantially a French institution, he came into contact with examples of abbeys and religious complexes.
However, when dealing with the addition to his school, that is the Collegio De Merode (almost hidden, even in its vastness, between Piazza di Spagna, Via Margutta and the Pincio), his reference changes; there is a clear connection, in the use of metal, mansard windows and curves, to the roofs of French palaces.
Later, for the Roman Stock Exchange, he felt the necessity of inserting the remains of the Temple of Hadrian, creating a “Roman” portico (no longer Romanic), with columns and arches.
Again, for the Magazzini Generali in via del Porto Fluviale, the simplicity and the economy of the construction required by the client for a simple container in the periphery, is transformed by my father into a building whose stereometry and relationship between the solid and the void is reminiscent of a northern port (Amsterdam, Hamburg ?). I will stop here.
A critic, perhaps superficial, may attribute him with the simple merit of possessing the great personal ability to incorporate different examples, in a very natural manner, which may border on the satisfaction of knowing that, in this way, one possesses the solution to any problem.
This may even be the case. However, I feel that it was more a work of research; perhaps not at the level of a serious investigation, but rather an attempt at referring to the existing, past and/or present, to which he applied his own personal revision: this I will accept, and what is more, I would say with continual merit and positive results.
Finally, I would like to recall what he often quoted and wrote: “It is necessary to live as if we were to die today. We must work as though we would never die”. Personally I do not agree so much with the second affirmation, though I am in perfect agreement with the first. This was a slogan; easy, difficult or impossible to explain? For Tullio Passarelli, I believe, there were no question marks. That was how he was.
That was how it had to be.
I do not like to give importance to or celebrate my personal anniversaries. Important birthdays, my fiftieth graduation anniversary, or other similar moments. However, I became aware, almost accidentally, on the 100th anniversary of one of my father’s buildings that a century had passed (actually a little more), since the beginning of his professional activities. During this entire period, only one small, though valid book about the Office and myself in particular had been published (edited by Sergio Lenci). Another book, edited by Mario Pisani and similar in format, was published on the building in via Campania. All of this is, of course, in addition to a lengthy series of bibliographic references in books, magazines and the media. On many occasions, however, I have been asked why there is no book that reflects the volume of work produced by the Office, and why has no exhibition ever been held.
I believe this corresponds with the reserved nature that defines our work, accompanied by its severe self-evaluation. I will come back to this later.
I felt an obligation, towards those who preceded me, towards myself and those who currently work in the Office to render a simple and essential testimony to over 100 years of professional practice and design.
Once I decided upon a publication, it was necessary to decide upon its character.
While creating and updating the list of the Office’s projects and works, (excluding the more modest ones), we discovered that the list contained approximately 250 projects.
Over 100 of these were important enough to be accompanied by images.
This led to the choice of pairing the age of the office with the number of projects. One hundred years, one hundred projects, the slogan that became the title of this book.
It was then necessary to identify the professional figure who would be entrusted with the organisation, the control and the graphic representation of the notable amount of archival material, based on specific criteria of selection by the architect Tullio Passarelli Jr.
In recent years we had come into contact with Ruggero Lenci, who handled some of our international relations and with whom we have jointly participated in architectural competitions.
Ruggero designs, teaches and writes (his recent publishing includes books on Pei, Fuksas and Sergio Lenci). He is both a colleague and a friend and the son of Sergio Lenci (another respected colleague and friend, who recently passed away), to whom we owe the 1983 book on the Office.
We thus gravitated towards Ruggero as the intelligent and active “editor” of this book, equipped with the necessary enthusiasm and reflections, advice and commitment. His introductory text appears before this one.
I extend many thanks to Ruggero for his work, and to his wife Nilda Valentin for her invaluable assistance.
We also requested an essay from both Alessandro Anselmi and Giorgio Muratore, to whom we are greatly indebted for having accepted.
I would like to say a few brief words about the basic character of our office.
I believe that all of the Office’s protagonists give precedence to work and production over self-representation and relationships. Our work varies significantly, from public relations, to design and construction. There is both the specialisation of responsibilities, as well as processes of exchange and participation.
The Office has passed through both favourable and difficult periods, as is often, perhaps always the case. I remember the period of the Second World War; the 1940’s; the difficulty in designing even the most modest of works. Later there was also the crisis suffered by the construction industry, which rippled through the entire profession.
Our activity was characterised by the necessary degree of design investigation, I do not say at the level of “integral design”, when we spoke of this level as a myth, but we are on the right track.
During a period of slow activity, some time in the 1970’s, we gathered together all of the primary design details used in the Office, in order to simplify their use. I think we could have made an interesting contribution to the development of the technical-professional world.
I remember how, even during moments of intense activity, the most challenging design projects, even though well paid, never managed to compensate for the costs incurred, especially when compared to the efforts involved in the development of the drawings.
Perhaps the principle characteristic of our work consisted in that which I would call the relationship between quality and quantity.
Let me explain. There are offices that have built less, but all, or at least almost all, at the highest standards. There are others, instead, who boast a greater level of production that is objectively represented by a decisively modest level of quality.
Our structure has produced a limited number of excellent works, and an even more limited number of projects that could be referred to as being not valid from an architectural point of view. Instead, our work is characterised by a notable level of good quality production that is clearly above average and which represents a solid base of valid expression. In addition it is possible to notice that the built average of the designs is 75%.
I recall a lengthy essay on Rome by Carlo Aymonino, published in Casabella n. 279 from 1963, in which he was determined to unite, from his opening remarks onwards, the role of our Office with the importance of public housing and large projects for the Capital city.
At the beginning of this introduction I made some mention of the architectural characteristics of my father’s projects, together with some references that can be seen in the successive approaches taken by the Office.
I believe it is possible to observe a series of phases.
The first phase can be attributed to Tullio Passarelli, from the turn of the century to 1930.
The next phase, lasting until the end of the Second World War and the stop to construction, that is until 1948, can be tied to the arrival of Vincenzo and later Fausto. In particular, the activity of Vincenzo begins during the period of profound change of Roman architecture in the 1930’s, which becomes visible in the “palazzine” designed by the firm in the Salario-Parioli neighbourhood.
The next period may be considered as that which leads up to roughly the 1960’s/70’s. On the one hand, it includes the beginning of the post-war reconstruction and the resumption of construction; on the other it relates to the beginning of my activities and, in a certain sense, the integration and subdivision of the office’s work.
Vincenzo became the head of the office, both in terms of public relations as well as managing the business in its entirety. Fausto was more focused on technology, production and relationships with government institutions. I dedicated myself to design, which was approved by all of brothers, as well as handling the relationships with the office’s design collaborators and thus it is his hand that objectively marks the office’s architectural production.
The inexorable progression of time lead to my increased presence in the various fields of activity, even though I maintained a preference, and perhaps a predisposition, for design. This period is followed by the gradual introduction of the next generation, which assumes its own role in the growing management of the office.
Tullio Leonori, Maria Passarelli and Tullio Passarelli Jr, were made associates in 1990. The activities of the last 15 years are marked by their active presence, both in the field of design and the management of the office, representing that qualitative continuity that is clearly visible in the office’s more recent projects.
I would also like to recall the important contributions provided to the firm by the many and qualified collaborators who, over the course of the years, guaranteeing quality, continuity and bringing their own personal expression to the office’s production and ethic approach. In some cases these figures have passed from being collaborators to associates, often continuing their own autonomous activities. Many thanks to all of them. We have tried to list as many names as possible. I would like to mention by name all of those who have participated in this team effort, however, as a result of the fear of making some involuntary errors, I prefer to express my sincerest general appreciation.
This occasion served as an opportunity for me to ask myself if there is some reference, some connection between my father’s life experiences, what he expressed in his work and that which we have recounted, for over 50 years now.
I mentioned at the beginning how Tullio Passarelli had, in some way, made use of a variety of styles, even while demonstrating a predilection for the Romanic, the brick and completion through sculptural decoration. There will be others who will speak in a more qualified manner about this, about how, in some way, he grew more sensitive to a greater number of tendencies, references and contacts.
I feel, without entering into a qualitative evaluation, that something analogous can be said about his successors, and myself in particular.
At the beginning of his experience, an architect is bombarded by a vast number of models, drawn or built, though in any case extremely diversified: they range from true masterpieces, or those that are considered to be such, that are exalted or demolished by critics. Inevitably, in the vast majority of cases, he tends to imitate them then to challenge them, referring to the figure or the tendency that is most in fashion at the time. Today, it would be very easy to make precise references.
I believe, in most cases, that this produces an increase in the average quality of architecture, the primary objective of global and social interest, in the activities of urban planning and construction and that, therefore, it constitutes a positive element.
However, it is necessary to find, within these “masters” or these works, the references that come closest to our own personal tendencies, which it may be difficult to express in an entirely autonomous manner, gaining instead some level of validity from external identification.
The spontaneity of this comparison makes a qualitative leap when it manages to reveal original elements, in what is almost an unconscious result.
Finally, I would like to underline a characteristic that represents a fixed point in the structuring of the design process, and to which we have sought, as much as possible, to adhere. To begin with an idea that is clear, strong and expressive enough to survive, throughout its development at the design and construction stage, as well as the inevitable - though imaginable and, above all, the unimaginable - changes that, in some cases, may even lead to improvement, even though their influence upon a work is generally negative.
During the period of my education and at the beginning of my professional career there were precise points of reference: Wright, Le Corbusier, Mies van der Rohe and later, Kahn, Tange, Saarinen and perhaps even Stirling, before the swirling transformations of recent years began to take shape.
I do not hesitate, actually I feel privileged, to recognise that I was subject to the influences of more than one of these masters.
I have always been attracted and I have always methodically applied a regular, orthogonal and spatial modulation, at a wide range of scales, where uniformity is countered by diversity and by exceptions, such as a horizontal cut, the insertion of a circle or a portion of one.
If I go back in time I would have to say that the my most beloved personal reference, by which I was most affected, perhaps even only internally, belongs to Kevin Roche.
I can mention the Ford Foundation in New York and the John Deere Offices in Moline, both of which I have visited. I mention them here like a memory, a testimonial more than an explicit reference to his works.
If it is true, as it is true, that there are many points of contact and similarity between the worlds of architecture and music, then we can consider this form of comparison in some way akin to the consolidated musical expression of the “variation on a theme”. What is more, a variation on many themes, even by different authors, each of whom present points of contact and contiguity.
Perhaps here there is some connection with my father, if we wish to identify something similar in the adventure that is the history of our office.
The completion of the Church in Selva Candida in the spring of 2005, the most recent work designed together with the office’s newest members, represents a point of contact with the first work designed by Tullio Passarelli, the Church of Santa Teresa which was completed in 1905 – exactly 100 years ago.
This is most certainly a question of chance, but also a coincidence, a sign, a reflection and an element of continuity.
Before proceeding with the illustration of the projects, we desire to express the conviction that the Studio’s activity couldn’t have taken place without the support of many collaborators in the various fields of design and of supervision during construction.
Their names are written in the list of projects and we are sorry for the inevitable omissions and lack of precision. Moreover, we feel important to remember those who have operated with large continuity and relief; and some of them are not among us any longer.
We like to mention Cristoforo Borowsky, Giombattista Castagnetta, Paolo Cercato, Franco Ceschi, Maurizio Costantini, Fabrizio Falchetti, Franco Ferlito, Piero Gandolfi, Luca Leonori, Patrizia Pizzinato, Edgardo Tonca.