Mutazioni Laurentino 38, ontogenesi e filogenesi di un quartiere romano, Prospettive, Roma 2011
Mutations Laurentino 38, ontogeny and phylogeny of a Roman neighborhood, Prospettive, Rome 2011

Autore / Author: Ruggero Lenci



 

Molteplici possono essere i punti di partenza validi per una sperimentazione didattica sul social housing. Il Laurentino 38 rappresenta a Roma un eccellente esempio di quartiere degli anni ’70 inserito a pieno titolo nella filogenesi dell’architettura abitativa sul quale è sorta l’idea, a distanza di oltre 30 anni dalla sua realizzazione, di sperimentare possibili mutazioni in accordo con le trasformazioni sociali ed economiche in atto. Queste sono intese non per essere sostitutive di quella realtà, ma come raccolta di variazioni confrontabili tra loro e con il quartiere ispiratore: oltre 200 proposte che sul distretto abitativo ideato da Pietro Barucci trovano fertile campo di applicazione per valutare la presenza di effettive modificazioni evolutive proponibili in realtà in via di sviluppo. Queste mutazioni – positive, negative o neutre – che i giovani progettisti della “Sapienza” hanno elaborato sono ben evidenti. Talune di esse rispondono a esigenze affioranti nella società assumendo la forma di altrettante ipotesi di progetti abitativi urbani, che nella loro evoluzione rappresentano nuove tappe di sviluppo ontogenetico e che comunque, per affermarsi, dovranno passare il vaglio della selezione culturale.
Nel programma di Pietro Barucci la genesi compositiva del Laurentino 38 doveva dar luogo a un sistema complesso e articolato di architettura a scala urbana nel quale queste due dimensioni progettuali fossero integrate: un dispositivo architettonico da inserire in serie alle frange di una Roma capitale e papalina da poco modernizzata a seguito del completamento del vicino EUR. Egli voleva attuare un articolato e ben visibile segno nella città, un connettore distributivo fortemente strutturato che intercettasse, negandola, quella troppo rigida soglia di confine tra le dimensioni urbanistico sociale e architettonico-artistica. Desiderava ottenere qualcosa in più rispetto a meri contenitori di alloggi, ovvero sentiva come necessario il superamento della logica degli invertebrati quartieri-dormitorio che a macchia di leopardo saturavano molti spazi delle città italiane.
Strutturare un quartiere voleva dire per lui munirlo di una spina dorsale che ne legasse insieme le parti, da segmentare prima in macroinsulae quindi, dopo aver trovato l’idonea conformazione e dimensione della vertebra urbana, da ripetere più volte in insulae tra loro articolate. Tale vertebra (o insula) composta da cinque edifici in linea, uno a torre e un edificio ponte, ha trovato nel progetto di Barucci un eccellente equilibrio compositivo, a lungo ricercato nell’architettura contemporanea. Essa ha dato vita a un dispositivo architettonico complesso, a un connettore che ha il compito di conferire a gruppi di edifici spesso solitari un senso di forte coesione e di significato urbano, il tutto verso il tanto agognato effetto città. Privata dei ponti, l’idea della vertebra urbana non è più tale, con il risultato che il settore sud-ovest (macroinsula 1) nel quale i connettori sono stati rimossi risulta ora disconnesso, evirato, invertebrato e privo d’identità. Diventa utile, in controtendenza rispetto a un diffuso quanto troppo mediocre conformismo, comprendere in modo scientifico la dimensione urbana prima ancora che le scelte architettoniche dell’intera operazione, ovvero quella concezione distributiva stratificata che Barucci con i suoi ponti voleva generare. Questa nuova e a un tempo antica tipologia (si pensi a Ponte Vecchio a Firenze) voleva e vuole caricarsi di un magnetismo capace di condensare e restituire alla città alcune esigenze della collettività, su modello di un costruttivismo russo calato nella realtà, più stemperata, di un’Europa post-sessantottina. I condensatori sociali sono qui diventati in primo luogo undici agili dispositivi architettonici, ginnasti che spiccano il salto, per usare un’espressione futurista cara a Marinetti (al quale, incidentalmente, la via principale del nuovo quartiere è intitolata), contenenti spazi per servizi che rispetto a quelli ereditati dovevano apparire rinnovati nella forma e nella sostanza.

La mutilazione dei “ponti”
L’errore dell’infausta decisione presa nel 2006 e passata in giudicato nel dicembre dello stesso anno è stata quella di pensare che se i su descritti dispositivi architettonici fossero stati disconnessi, recidendone i ponti ? similmente a come barbaramente alcuni regnanti usavano fare trasformando la servitù in eunuchi ? si sarebbero risolti i vari problemi del Laurentino 38, a torto ritenuta una città proibita lì dove si chiamavano in causa questioni legate alla sua sconveniente conformazione architettonica e urbanistica.
E’ noto, invece, che il problema reale del Laurentino 38 è stato di tipo sociale, problema sorto sin da subito allorquando il comune di Roma, nonostante l’opposizione dell’IACP, decise di trasferirvi un centinaio di famiglie problematiche che da tempo occupavano abusivamente l’Hotel Continental frontistante la Stazione Termini, da costoro trasformato in un luogo malavitoso. Questa concentrazione sociale ha compromesso il decollo di un quartiere che sotto molti aspetti sarebbe potuto divenire un ottimo modello da valutare nel corso del tempo e sul quale, perché no, apportare anche qualche minimo correttivo.
“Petrangeli scrisse in un rapporto ufficiale che il forzoso trasferimento significava ‘…compromettere per almeno l’arco di una intera generazione il futuro del quartiere’.
Quella decisione sciagurata segnò l’apertura di rapporti conflittuali fra l’IACP e il Comune, che rifiutò di ricevere la consegna di tutte le attrezzature di servizio realizzate dall’IACP, in particolare degli edifici ponte, delle scuole materne e degli asili nido. Questi ultimi, realizzati nel verde residenziale a ridosso delle abitazioni, erano già stati forniti degli arredi e delle sistemazioni a verde ma vennero in breve tempo vandalizzati e distrutti. A molti degli undici edifici ponte realizzati toccò una sorte analoga, con l’eccezione del primo ponte vicino alla Laurentina che divenne sede degli uffici Circoscrizionali.
Nel frattempo in questa situazione in larga misura fuori controllo, erano completate le procedure di assegnazione degli alloggi e il quartiere doveva affrontare un lungo periodo di precarietà e di disordini, segnato da occupazioni abusive, da furti e aggressioni, da violenze esercitate dagli occupanti irregolari nei confronti degli utenti legittimi.
In questa cornice l’utenza, abbandonata a se stessa, manifestò risentimento per la situazione in generale, ma anche per l’architettura del quartiere, così lontana dalle attese della gente.
I garantisti, la stampa che conta, i rappresentanti della cultura, la critica, gli studiosi, gli architetti sedotti dai post-conformisti come Maurizio Costanzo, non tardarono a prendere posizione sulla vicenda e il progetto assieme ai suoi autori, subito identificati nel sottoscritto, furono posti sistematicamente sotto accusa.
Da allora, una coltre di discredito è calata sul Laurentino e su chi lo ha progettato; la situazione è poi in parte migliorata, per merito della Circoscrizione, ora diventata Municipio, insediatasi nel quartiere, ma anche per merito di iniziative dovute al volontarismo di alcuni giovani, ad alcune associazioni che si sono formate per dibattere i problemi sociali, che talvolta sostengono le qualità del quartiere, ma le pubbliche amministrazioni centrali interessate si sono occupate d’altro, considerando il Laurentino una grana di cui, se possibile, liberarsi.” (Pietro Barucci)
L’utenza regolare fu quindi abbandonata a se stessa in un clima denso di atti vandalici, stato di precarietà, occupazioni abusive, furti, aggressioni, violenze esercitate dagli occupanti abusivi nei confronti degli assegnatari degli alloggi.
In merito ai piccoli correttivi ai quali si accennava, un discorso lo merita la dimensione dell’insula, di circa 1.700 abitanti che, a cose fatte, risulta essere esigua rispetto alla dotazione di servizi prevista per ciascun ponte attrezzato, che richiederebbe invece un bacino di utenza di almeno 5.000 abitanti. E’ ormai noto, infatti, che questa è la soglia sotto la quale è preferibile non scendere. Si potrebbe allora dire che un ponte attrezzato per ogni settore, invece dei tre realizzati, sarebbe stato sufficiente? Molto probabilmente si, ubicato in posizione centrale, e i due ponti laterali potevano essere semplici passerelle. Ma non ritengo giusto spingere oltre un simile ragionamento su un progetto egregio qual è quello di Pietro Barucci. Queste semmai potrebbero diventare utili indicazioni di post-evaluation-occupancy, per una nuova progettazione, ma giammai eliminare o sfoltire, mutilandone alcuni, i ponti laurentiniani.

Ontogenesi e filogenesi architettonica della vertebra urbana
E’ interessante notare, analizzando la planimetria elaborata da Sergio Lenci del progetto presentato al concorso ISES del 1965 (insieme ad Alfredo Lambertucci che si è occupato delle tipologie), la presenza di un sintomo premonitore di quell’architettura a scala urbana che Pietro Barucci ha avuto l’occasione e la capacità di sintetizzare e sistematizzare. A saperlo vedere, il citato progetto già conteneva quasi tutti gli elementi presenti nell’insula del Laurentino 38: il ponte, le linee, le torri, il doppio livello distributivo carrabile e pedonale. In realtà qui il ponte non è attrezzato e consiste in una piastra forata che scavalca la viabilità sottostante facendo sì che l’organismo urbano diventi un dispositivo architettonico generante un effetto città del tutto in linea con quanto successivamente realizzato su larga scala al Laurentino 38. Va subito detto, però, che dal 1959 al 1962 Pietro Barucci aveva intrapreso per conto dell’Istituto Romano Beni Stabili tre fasi di progettazione ? di cui la prima con Manfredi Nicoletti ? e subito dopo la realizzazione del Nucleo Direzionale di piazzale del Caravaggio. Progetto questo ammiratissimo in primo luogo da Leonardo Benevolo, e che tanti spunti di riflessione fornirà alla cultura architettonica, quindi certamente anche a Sergio Lenci per la sua proposta che qualche anno dopo presenterà al concorso ISES. La sistemazione a piastra del “Centro Direzionale Caravaggio”, ma anche la proposta del 1962 del Centro Direzionale di Torino, è finalizzata a conformare un brano stratificato di città, facente uso per i volumi a uffici del tipo edilizio del grattacielo Phoenix-Rheinrohr realizzato a Düsseldorf nel 1957 su progetto di Helmut Hentrich e Hubert Petschnigg.
Nel progetto del Centro Direzionale romano, di almeno tre anni antecedente il piano Pampus del 1965 di Bakema e van den Broek, era già presente l’idea della vertebra urbana che, nel citato progetto per l’espansione di Amsterdam, diverrà una colonna vertebrale. Ecco i rimandi: da Düsseldorf (l’elemento), a Piazzale del Caravaggio (la vertebra), ad Amsterdam (la spina dorsale a forma di un cobra maestosamente eretto al suono del magico flauto bakemiano), al concorso ISES di Sergio Lenci, al Laurentino 38 (un’area a sviluppo non lineare nella quale il cobra bakemiano viene riposto nella cesta, avvolto su se stesso). Questa vertebra nel Laurentino diverrà l’insula, la cifra progettuale per la quale Pietro Barucci sarà ricordato nella storia dell’architettura, realtà mutevole fatta di continui rimandi, che influenza e dai quali si rimane influenzati. Tra i riferimenti progettuali non realizzati bisogna almeno citare la città verticale a circolazione e funzioni stratificate di Ludwig Hilberseimer. Tra gli effetti prodotti, i Centri polifunzionali che John Portman ha eseguito ad Atlanta e a San Francisco negli anni ‘70 e ‘80: il Peachtree Center e l’Embarcadero Center (li si confronti con i Centri Direzionali di Roma di piazzale del Caravaggio e di Torino).
A seguito di questo breve excursus, i Ponti del Laurentino 38 vanno letti come delle briglie, delle redini che governano l’unitarietà di tutto il quartiere, riconducendone la concezione barucciana a un’idea post-illuminista, sulle orme di Boulleé e Ledoux, intenta a conferire alla tipologia edilizia una qualità morfologica a scala urbana. Oltre a quanto già detto, le idee che vi si respirano derivano anche dal futurismo di Antonio Sant’Elia, Mario Chiattone, Tullio Crali, Virgilio Marchi, dal costruttivismo di Chernikhov, di El Lissitzki, di Leonidov, dal razionalismo di Gropius. In ultima analisi esse derivano da una logica compositiva presieduta da un DNA fortemente mittle- europeo, responsabile della dislocazione dei volumi degli spazi aperti, dei percorsi, dei pieni e dei vuoti, in definitiva degli edifici costituiti da cinque corpi in linea, una torre e dal ponte pedonale attrezzato. Tale regola realizza a Roma un’ontogenesi che ricapitola la filogenesi dell’architettura contemporanea legata all’evoluzione della città e alla storia dei quartieri abitativi. Ma è impensabile che una città di oltre 30.000 abitanti (quattro volte superiore rispetto alla dimensione media dei comuni italiani) possa funzionare senza un mini-sindaco, quindi sopravvivere in uno stato di forzato isolamento e disagio sociale.

La nascita del quartiere
L’area compresa tra il quartiere Ferratella e la via Laurentina, di fronte alla città militare della Cecchignola, sorge sulle vestigia di un abitato protostorico ubicato su una collina con pareti scoscese sul fosso dell’Acqua Acetosa, affluente minore del Tevere. Tale abitato antico venne scoperto nel 1976 durante la costruzione del settore sud-ovest del quartiere, allorquando sono stati rinvenuti importanti reperti archeologici relativi a un insediamento preromano al cui interno è stata trovata un’interessante necropoli. La strada è quella che portava a Laurentum, località ricca di Lauro, Alloro. Nel recente passato l’area del Laurentino è stata amministrata dai Torlonia, con una tenuta che comprendeva 29 casali, alcuni conformanti dei borghetti, che vennero quasi tutti demoliti. L’idea di edificare in quest’area un quartiere abitativo prende forma con il piano d’attuazione della legge 167. Il piano di zona, già previsto dal piano regolatore generale del 1962, era destinato a zona E3, espansione riservata all'edilizia economica e popolare da attuarsi mediante i piani di zona approvati con DM n. 3266 e successive varianti. Esso era previsto anche nel primo PEEP del 1964, ed è stato avviato dal Comune, dalla GesCaL e dagli IACP nel 1972. Il piano di zona n. 38 è pertanto localizzato nel settore meridionale di Roma, nell’area situata all’interno del Grande Raccordo Anulare tra la Colombo a ovest e la Laurentina a est.
L’area presenta caratteristiche morfologiche assai accentuate per l’esistenza di tre altipiani frastagliati e intervallati da valli digradanti che si staccano dalla valle centrale del fosso dell’Acqua Acetosa. Sorto su un terreno di 164,5 ettari, vi sono insediati circa 32.000 abitanti per una densità di 194 ab/ha. Alla costruzione parteciparono sia privati in forma di cooperative, sia il Comune con la XVI Ripartizione Comunale per l’Edilizia Economica e Popolare guidata da Marcello Girelli, architetto che aveva al suo attivo importanti esperienze al London County Council di Londra. Girelli, a sua volta, affidò la realizzazione di 2.092 alloggi e la loro assegnazione allo IACP, guidato dall’ingegner Luigi Petrangeli e dal presidente Edmondo Cossu, ed altri alloggi ad altre figure.
La progettazione del quartiere iniziò nel 1970 a seguito di uno stanziamento straordinario di 70 miliardi di lire deliberato dalla GesCaL. In una sua prima stesura, elaborata nel 1963 dall’Ufficio Speciale del Piano Regolatore, il piano si presentava nella forma di una generica zonizzazione per 31.900 abitanti. La progettazione urbanistica ebbe inizio nella primavera del 1971 e richiese due anni di tempo per la sua stesura definitiva (giugno 1973). Gli architetti incaricati del progetto urbanistico furono Pietro Barucci (capogruppo), Alessandro De Rossi, Luciano Giovannini, Camillo Nucci, Americo Sostegni. La progettazione edilizia degli interventi IACP fu divisa in tre gruppi diretti rispettivamente da Pietro Barucci, Ennio Borzi (con Lorenzo Monardo che progettò alcune torri), Pietro Catalano. Il coordinatore generale degli interventi IACP fu Pietro Barucci. Gli interventi nel settore Sud-Est del Consorzio delle Cooperative C.C.I. furono eseguiti dal gruppo Sandulli.
L’équipe si ispirò alle esperienze della costruzione del quartiere autosufficiente ? una sorta di città satellite, sia pur inglobata nel tessuto urbano ? sulla base, come già detto, di riferimenti quali il Piano Pampus di Bakema e van den Broek ad Amsterdam e la new town di Cumbernauld in Scozia per il centro lineare pedonale e flessibile costruito a ponte sulla strada. Nel gennaio del 1973, prima dell’ultimazione del progetto urbanistico, l’IACP nominò il gruppo di progettazione edilizia dell’intervento GesCaL, segnando l’inizio dell’attuazione del quartiere. I professionisti incaricati furono trentaquattro, appartenenti alle sezioni di specializzazione previste dalle norme GesCaL. Il progetto planivolumetrico fu adottato dalla Giunta comunale il 2 aprile del 1974 e ratificato dal Consiglio comunale un mese dopo, allorquando i progetti architettonici erano già in avanzata fase di elaborazione.
Nel 1975 vennero aggiudicati gli appalti dei primi lotti. La concezione urbanistica del quartiere è quella di una città satellite autosufficiente rispetto a Roma, un quartiere con morfologia e funzioni autonome, di conformazione unitaria che viene organizzato e strutturato lungo un asse viario principale ad anello che si sviluppa per circa quattro chilometri su due carreggiate a doppia corsia, distanziate da un’area alberata con destinazione a parcheggio a raso. Tale viabilità avviene in trincea, a una quota media di -4,4 m rispetto al piano porticato delle unità residenziali. L’anello presenta un punto di tangenza con la via Laurentina, dove sono state dislocate attrezzature collettive di livello urbano. Questo è il centro della città satellite, con caratteri urbani più marcati, in cui sono ubicati, oltre alle residenze, alcune sedi di uffici pubblici e privati, attrezzature commerciali e di servizio. Sull’anello viario, costituito dalle vie Filippo Tommaso Marinetti, Francesco Sapori e Ignazio Silone, sorgono sei settori, qui chiamati macroinsulae, che dal basso in senso antiorario sono: sud-ovest, sud, sudest, nord-est, nord, nord-ovest. In quattro dei sei settori gli edifici sono organizzati in insulae, ovvero in sistemi insediativi permeabili alla vista, architettonicamente e distributivamente organici, che costituiscono le vertebre urbane del quartiere e si ripetono secondo un medesimo schema architettonico con poche varianti. Pertanto l’asse viario principale incontra undici insulae abitative, rese tali per mezzo di altrettanti ponti attrezzati che lo scavalcano, di cui otto superstiti. Il progetto edilizio del ponte-tipo fa parte del piano urbanistico che prescriveva la ripetizione di ciascuna parte centrale dell’insula secondo uno schema alternativamente ribaltato lungo la viabilità. L’interasse delle insulae è di 118,80 m, pari a trentatré moduli da 3,60 m. La notevole spaziatura ottenuta nonostante la forte concentrazione abitativa di ciascuna insula ha creato una generosa disponibilità di spazi intermedi sistemati a parco, con nuclei di scuole materne e asili nido, attrezzature sportive e ricreative. La valletta centrale dell’insediamento, che doveva rimanere libera come una sorta di Central Park, è stata invece ingombrata da prefabbricati bassi destinati a scuole, scelta alla quale Pietro Barucci si è sempre fortemente opposto. I declivî settentrionali della valletta sono inoltre stati impegnati da serie di case a gradoni che ne riducono ulteriormente l’immagine naturalistica. Sul settore sud-est tangente alla via Laurentina, che come abbiamo detto è considerato il centro del quartiere, sono state sviluppate diverse proposte progettuali. Il progetto urbanistico prevedeva di organizzare il settore intorno a un grande snodo stradale a due livelli, studiato in particolare dall’architetto Camillo Nucci, che comportava l’adeguamento della via Laurentina e regolava il traffico di scorrimento e il suo sfioccamento negli svincoli di entrata e di uscita dal quartiere, senza l’introduzione di semafori. Questo accurato studio non architetto venne accettato dalla competente ripartizione comunale che lasciò la via Laurentina nelle precarie condizioni in cui si trovava e realizzò due semplici tronchi a raso di accesso al quartiere muniti di semaforo. Quale importante complemento del progetto urbanistico era stato elaborato uno studio approfondito di questo settore, conformato da un sistema di torri poste agli angoli di edifici in linea a due piani e destinazione commerciale, sistema poggiante su una piazza pedonale pensile con sottostanti parcheggi.
Il principale segno della composizione era un lungo edificio in linea a destinazioni speciali e una sottostante piastra a giacitura ortogonale con servizi secondari e stazione Metro, mai eseguita. La realizzazione del settore, affidata in gran parte al movimento cooperativo e conclusasi con l’affidamento in concessione all’ISVEUR (Istituto per lo Sviluppo Edilizio e Urbanistico di Roma), avveniva in modo alquanto scomposto, difforme e molto impoverito rispetto alle indicazioni del progetto urbanistico originario.
L’insula-tipo presente nei settori nord-est, nord, nord-ovest, sud-ovest, è costituita da: un edificio a torre in media di 14 piani, con quattro alloggi per piano, che in quelle di Barucci (le altre sono di Monardo) da quattro camere da letto per alloggio alla base passa progressivamente a una in sommità; cinque edifici in linea in media di 8 piani e di profondità costante; un edificio a ponte a cavallo dell’asse stradale, impostato su una pianta a “L” con due livelli fruibili (oltre a un soppalco nel primo livello) che contiene una serie di attrezzature di servizio, dove a quelle commerciali localizzate nel primo livello si sommano due gruppi di servizi pubblici (tra cui servizi sanitari, delegazioni comunali) e uno privato nei piani superiori, mentre nel braccio parallelo alla strada trova posto un volume cilindrico destinato ad attività polifunzionali; varie aree libere tra i corpi edilizi dove sono localizzati spazi per il gioco, lo sport e l’educazione dei bambini, quali scuole materne e asili nido. Gli spazi porticati degli edifici residenziali e le zone coperte dell’edificio a ponte generano un sistema distributivo pedonale impostato a una quota superiore rispetto a quella dell’anello stradale che confluisce, con continuità attraverso percorsi paesistici, nel parco centrale. Caratteristica fondamentale dell’insediamento è pertanto quella della separazione dei traffici veicolare e pedonale, con la sede stradale ribassata rispetto alle aree d’ingresso agli edifici. Alla base dell’organizzazione edilizia delle insulae vi è una razionalizzazione del processo costruttivo risolta mediante l’adozione di una maglia modulare (7,20x7,20 m) ordinatrice di tutti gli spazi costruiti e liberi. L’architettura abitativa delle insulae è caratterizzata da schemi semplici e ripetibili, ai quali sono facilmente applicabili le tecniche dell’industrializzazione edilizia, che qui fa uso del sistema dei tunnel dell’Hirondelle di Parigi, già sperimentato da Pietro Barucci al quartiere Tiburtino Sud.
La storia della genesi del Laurentino 38, che nella mente del suo progettista avrebbe dovuto essere unificato in un grande progetto di architettura, senza le sbavature che poi ha subito per effetto del su citato mancato coordinamento, è molto complessa. Nelle undici insulae dell’IACP, che formano quattro settori, l’effetto città ha funzionato, ma nel resto del quartiere il coordinamento operativo ha prodotto esiti contrastanti. La storia della nascita del quartiere si divide in tre fasi, peraltro tipiche: la progettazione, i cantieri, l’uso del quartiere. La progettazione urbanistica si svolse in piena sintonia tra l’IACP, il Comune e il gruppo di Pietro Barucci, la cui nomina era stata voluta congiuntamente da Marcello Girelli e Luigi Petrangeli, i due deus ex machina dell’iniziativa, rispettivamente alla guida del Comune e degli IACP e in ottimi rapporti tra loro. Fu Girelli a sostenere l’idea degli edifici ponte, esigendo che il progetto edilizio del ponte-tipo diventasse parte del progetto urbanistico così da vincolarne la realizzazione nelle singole insulae senza variante alcuna. Stabilito ciò, come già ricordato, per la progettazione edilizia degli interventi IACP il gruppo si allargò a 34 unità. A Barucci spettò la supervisione generale di tutto il quartiere e nel 1975 vennero aggiudicati gli appalti dei primi lotti. La scoperta di importanti reperti archeologici determinò il fermo dei lavori, questione sulla quale il Sindaco Argan non pose sufficiente attenzione e che fu rimessa nelle mani del Sovrintendente La Regina il quale, con Petrangeli
e Girelli, stilò un faticoso compromesso, “…che segnò l’avvio del degrado, decidendo alcune varianti urbanistiche inevitabili ma devastanti, che comportarono l’istituzione di un’area inaccessibile, protetta con vincolo archeologico, lo spostamento o l’amputazione di alcune insulae, la soppressione di alcune attrezzature di quartiere, lo spostamento di un plesso scolastico nel parco pubblico, al posto del lago previsto in progetto. Il quartiere cambiava aspetto.” (Pietro Barucci) Le proteste di Barucci furono giudicate un atto incolto; dissero che avrebbe dovuto gioire e prodigarsi “…per assimilare l’area archeologica, trascurando i contratti in corso, i cantieri aperti, le grandi attrezzature installate, le centinaia di operai assunti, le regolari autorizzazioni a costruire.” (Pietro Barucci)
Fu da quel momento che nacque la diffidenza fra le amministrazioni, foriera di critiche al progetto e ai suoi responsabili, rendendo lecita e incontrollata ogni variante. “Renato Nicolini, giovane Assessore non ancora in odore di estate romana, scrisse su un importante quotidiano che il carattere insolito dei nuovi interventi IACP e in particolare del Laurentino era insopportabile.
La Quinta Ripartizione comunale preposta alle opere di urbanizzazione avviò una opposizione sistematica al progetto del Laurentino dissentendo su tutto, introducendo pesanti varianti al sistema viario e procrastinando i lavori. Nelle altre zone del quartiere si svolgeva l’azione delle centrali Cooperative, poco propense a rispettare il nostro piano urbanistico, di certo più adatto a un’edilizia sovvenzionata. Girelli purtroppo scomparve prematuramente, ma ebbe tempo per subire forti pressioni politiche intese a conferire importanti assegnazioni di cubature a varie Cooperative, per assecondare le quali fu costretto a disattendere il nostro progetto planivolumetrico autorizzando interventi frazionati e incoerenti, rispondenti a una logica del tutto estranea ai criteri da noi seguiti nella progettazione urbanistica.” (Pietro Barucci).

Le richieste programmatiche agli studenti
Con questo vasto retroterra culturale alle spalle, non privo di conflitti, è sembrato interessante proporre, nell’ambito del corso di Architettura e Composizione Architettonica rivolto agli studenti ingegneri-architetti del quarto anno della Facoltà di Ingegneria Sapienza Università di Roma, un programma di attività che prevedesse la riprogettazione architettonica degli edifici ivi inclusa la ridefinizione dell’assetto urbano all’interno dei sei settori del Laurentino 38. Ciò avrebbe dato modo ai giovani discenti di cimentarsi non solo sul progetto di singoli edifici o poco più, ma anche con l’ideazione di un vero e proprio brano di città, partendo dall’osservazione critica della città reale.
Ma la complessità e vastità del quartiere prescelto ha risolto un altro problema, quello di suddividere in gruppi l’elevato numero di studenti, oltre 180 per anno, che nei cinque anni che vanno dal 2006 al 2010 si sono iscritti al Corso di Architettura e Composizione 3. Era necessario quindi scegliere un tema che permettesse di formare gruppi da 30, quindi sei seminari che però non venivano abbinati ? per non ridurne la vivacità intellettuale ? alle sei macroinsulae immaginate da Pietro Barucci. Ogni studente, dopo l’annuale visita all’area ? cinque buone invasioni del Laurentino 38 ? ha operato liberamente la scelta della macroinsula sulla quale ideare la propria cittadella di 900 alloggi per 4.000 abitanti. Ha proceduto, quindi, con l’analisi delle caratteristiche ambientali: morfologiche, altimetriche, espositive, viarie.
D’accordo con Pietro Barucci ? che ha gradito l’operazione ? tutti gli edifici esistenti sono stati rimossi dalla cartografia di base nella quale è stata mantenuta la sola viabilità anulare. Le sei macroinsulae hanno lasciato al centro dell’area uno spazio libero da edilizia (anche le ingombranti scuole sono state rimosse), molto permeabile e da esse direttamente accessibile, che dà luogo a un parco attrezzato con percorso pedociclabile e specchio d’acqua. Pertanto i sistemi insediativi proposti in fregio a quest’area si sono confrontati con tale realtà paesaggistica e con la sua quota altimetrica notevolmente più bassa rispetto alle macroinsulae n. 2, 3, 4, 5, 6. I progetti si confrontano, inoltre, con la posizione e quota dell’arteria stradale esistente, spesso in trincea di circa 4,40 m rispetto al piano di imposta di quelle insulae con edifici a ponte (esistenti o demoliti).
Ogni studente ha quindi progettato il planivolumetrico utilizzando le seguenti quattro tipologie abitative: 1- la casa in linea, di minimo 4 massimo 8 piani fuori terra, con corpo scala-ascensore; 2- la casa a torre, di minimo 12 massimo 18 piani fuori terra, con uno o due corpi scala, di cui uno con filtro, e due ascensori; 3- la casa sperimentale, di massimo 3 piani fuori terra, senza ascensore (case a schiera, a patio, sovrapposte, altre tipologie simili, miste, innovative a cura dello studente); 4- la palazzina, di massimo 6 piani fuori terra, con corpo scala-ascensore. Era richiesto che tali tipologie abitative, o alcune di esse, potessero assumere una conformazione unitaria, articolandosi dall’una all’altra così da conformare un sistema tipo-morfologico complesso, come ad esempio una casa in linea che diventa torre. Ogni macroinsula doveva possedere un centro gravitazionale di spazi pubblici, attività commerciali e di servizi a scelta dello studente (chiesa, multisala, centro commerciale, altro) che rappresentasse un luogo di attrazione anche per l’intero settore urbano.
Da un punto di vista metodologico, la progettazione ha avuto luogo sia in senso deduttivo che induttivo: sia dall’esterno verso l’interno, attraverso laplanimetria generale, sia dall’interno verso l’esterno, attraverso lo studiodel tipo e della sua aggregazione. Ciò per evitare il rischio, da un lato di disegnare delle sagome per poi riempirle di alloggi, gli insaccati abitativi, dall’altro di produrre un disegno urbano non controllato morfologicamente.

I Tutor
Si è precedentemente accennato all’elevato numero di studenti del Corso e alla necessità di una suddivisione in seminari. Ciò è stato possibile grazie alla capacità e generosità dei Tutor con i quali ho lavorato per tessere le fila del programma: Annio Maria Vittori, Alessandro Scaletti, Claudio Merler, Stefano Catalano, Riccardo Ianni, Cristiano Tomiselli (inizialmente). Ad essi si sono aggiunti Marco Proietti, Valeria Cametti, Giovanni Bianchi, Andrea Pelella, Fabio Sorriga, Floreana Tramonti, Chiara Luchino, Edoardo De Cicco, Haruna Watanabe (gli ultimi tre non più nel Corso), alcuni di loro a intermittenza. Tutti architetti e/o ingegneri di grande capacità comunicativa, in grado di trasmettere agli studenti l’amore per una ricerca nel progetto dei rapporti tra contenuto ed espressione, al fine di produrre non mere architetture di facciata o volumi privi di piante. Oltre alla cura dell’assetto planimetrico, la questione sulla quale ci si è confrontati costantemente ruota intorno alla seguente convinzione: è piuttosto facile elaborare un’efficace articolazione volumetrica, specie oggi con il computer, oppure una pianta ben distribuita. Il difficile è unire le due cose insieme facendo in modo che si corrispondano, ovvero che a piante ben distribuite corrispondano volumi ben articolati.
Va anche riconosciuto che la suddivisione in gruppi di 30 studenti, quindi la presenza dei tutor, è ciò che ha permesso, anno dopo anno, la sopravvivenza stessa del Corso e il raggiungimento degli obbiettivi che qui vengono presentati. Purtroppo l’Università italiana, lungi dal sanare certe ben note questioni, spesso procede a singhiozzi. I risultati di questo Corso sono la dimostrazione che per le nostre Facoltà è fondamentale lo straordinario lavoro dei tutor ai quali è purtroppo riconosciuto sempre meno. E’, in ogni caso, da parte mia un grande onore lavorare o aver lavorato con i su menzionati architetti e/o ingegneri.
Le specificità dei tutor e la questione dell’identità dei singoli seminari non va inoltre trascurata, essendo in essi presente, oltre all’idea generale che li accomuna tutti, un’ idea dominante che guida i progetti degli studenti con diversità non trascurabili. Valeria Cametti trasmette agli studenti una filosofia del progettare come riflessione totale sull’architettura, certa che ogni singolo elemento, sia esso legato al progetto insediativo o al singolo edificio, debba essere pensato come appartenente a un unicum organico. Su questo solco i discenti vengono seguiti in modo personalizzato, così da far emergere le singole creatività individuali, mai privati del confronto con la realtà normativa ed economica. Quanto sopra avviene in parallelo all’individuazione e all’analisi critica di riferimenti contenenti soluzioni linguistiche, tecniche, tipologiche, costruttive, spaziali idonee al progetto in corso di elaborazione.
Stefano Catalano pone l’accento sul tentativo di ripensare la città mediante il disegno di macro-organismi urbani fortemente articolati, ricercando al tempo stesso la qualità dell’interazione spaziale tra interno/esterno e generando complessi sistemi aggregativi di cellule abitative. Seguendo questo metodo, il progetto a scala urbana è sviluppato attraverso progressive interfacce di ricerca e di elaborazione che si occupano di sincronizzare la complessità compositiva con l’identità insediativa dell’intervento. L’individuazione delle tipologie abitative si relaziona sempre al contesto urbano e paesaggistico, dove le volumetrie dell’edificato instaurano un rapporto dialogico con gli spazi limitrofi e interstiziali.
Riccardo Ianni, che per due anni è stato affiancato da Giovanni Bianchi, cerca di formare progettisti completi che si realizzino esprimendosi in modo integrale rispetto alle molteplici discipline e alle diverse scale d’intervento. Il suo insegnamento si basa su un metodo collaudato nel mondo reale che cerca di trasformare i momenti di crisi in altrettante occasioni per aggiungere valore al progetto. L’attenzione è qui rivolta alla figurazione di una città adeguata alle attuali esigenze abitative, rispondente alla crescente intensità del traffico veicolare, all’inserimento di spazi per la socializzazione, al verde di qualità, alla sicurezza urbana, al rispetto degli standard urbanistici, all’integrazione degli spazi pubblico-privato. In definitiva al progetto di spazi urbani a misura d’uomo.
Nell’insegnare un metodo teso alla prefigurazione delle scelte adottabili, Claudio Merler mira a rendere chiara la comprensione degli elementi strategici del funzionamento della città e del paesaggio, sia a scala generale che a quella di isolato. Il suo approccio alla didattica porta gli studenti a individuare gli aspetti salienti dei caratteri tipici delle centralità urbane, così da modellare il progetto in fieri in modo organico e razionale, comprendendo le dilatazioni e gli addensamenti del costruito intorno alla viabilità, agli spazi di aggregazione e al verde, prevedendo l’efficacia paesaggistica delle soluzioni in rapporto agli skyline e alla morfologia del territorio. Tutto ciò secondo un processo di maturazione che non impone soluzioni ma indica strade e attende esiti.
Andrea Pelella è animato dalla convinzione che chiunque sia dotato di buona volontà possa far meglio di quanto il passato ci consegna, in primis gli studenti, se essi sono in grado di distillarne i pregi e i difetti. La sua attenzione entusiastica è per lo spazio vuoto, da progettare come luoghi tutti da vivere. Le normative, le tipologie, gli standard, ovvero le conoscenze tecniche, sono necessarie ma non sufficienti. Nelle sue parole “tutto deve essere messo a servizio della qualità dello spazio”.
Ritmo ed eccezioni sono due parole ricorrenti nell’insegnamento di Marco Proietti, il cui seminario promuove tessuti urbani sperimentali, ricchi di interconnessioni carrabili e pedonali, spazi lineari e puntuali, attrattori ambientali e/o funzionali in grado di attivare flussi dinamici all’interno degli insediamenti proposti. Secondo questi principî, non dovrebbe più esistere un progetto urbano privo di una tale tessitura che la sostenga e la trasformi. Queste relazioni visibili e invisibili trovano il proprio campo di forze nei vuoti urbani, che vanno plasmati ancor prima dei volumi che li definiscono. La sfida posta agli studenti è quella di immaginare lo spazio come un’entità viva e pulsante, piuttosto che come uno sterile vuoto a perdere interstiziale.
Se è vero che nell’abitare gli spazi sedimentati del borghetto ci si trova a proprio agio, allora si può comprendere appieno il lavoro di Alessandro Scaletti, convinto sostenitore che la città a misura d’uomo non possa avere un dimensionamento standardizzabile, ma correlato alla definizione progettuale e sociale dello spazio da essa sotteso. L’obiettivo perseguito all’interno del seminario è dunque quello della creazione di luoghi e funzioni caratterizzanti la vita sociale e carichi di identità, ricchi di flussi endogeni ma soprattutto esogeni, che rappresentino altrettanti poli di attrazione. Qui gli studenti sono invitati a immaginare la propria città, a lasciarsi andare all’emozione nell’ideare tanto uno spazio quanto un edificio, guida sicura per un corretto incipit progettuale.
Fabio Sorriga, nel promuovere il confronto iniziale con il Laurentino 38, stimola gli studenti a far emergere nel progetto in fieri la propria “idea di città”, la prefigurazione di un habitat nel quale vivere degnamente. Il seminario è animato da questa attitudine positiva che produce negli studenti quell’entusiasmo utile a maturare idee già rivelatrici di una visione di architettura a scala urbana. L’emozione, l’ispirazione, l’amore per il progetto guidano la loro creatività costruttiva e anche il sogno: due poli che rispecchiano la sfera del fare concreto e quella dell’immaginifico immateriale.
Alla base dell’impostazione dell’insegnamento di Cristiano Tomiselli vi è la richiesta di organizzare una griglia modulare, un tracciato regolatore che si erga a garanzia contro l’arbitrio, a seguito del quale lo studente procede nello sviluppo del progetto normando o negando questo tessuto invisibile in punti d’eccezione. Lo stesso metodo è utilizzato alla scala della singola tipologia edilizia, dalla matrice del modulo alla definizione delle geometrie di base, dall’organizzazione della maglia alla sua variazione, finanche alla sua negazione. Un percorso che richiede il rinvio della sintesi, affinché il risultato finale possa raggiungere, nelle parole dello stesso Tomiselli, una matura e solida estetica del contenuto.
Infine Annio Maria Vittori, grazie alla sua esperienza e sensibilità sviluppata in lunghi anni di impegno didattico, trasmette l’importanza di predisporsi all’ascolto delle esigenze dei fruitori nonché alla percezione delle vocazioni del sito. In questo percorso formativo egli invita gli studenti a stabilire un dialogo sensibile con il luogo. Il suo insegnamento ruota intorno a un dato fondamentale: il progetto architettonico non deve dar luogo a volumi separati dal resto della città, ma a organismi edilizi che si coniugano con il contesto, urbano o paesaggistico. Senza precludere le ricerche sul presente e su progetti ancora in corso che riguardano realizzazioni future, Annio Maria propone frequenti collegamenti e analogie con spazi ed edifici del recente passato. Al posto di meri tipologismi gli studenti sono invitati a ricercare accurate trasformazioni evolutive dei casi più significativi presi a riferimento. Ecco cosa Vittori intende dire con strutturare e qualificare gli spazi per mezzo degli edifici.

I progetti degli Studenti
Non potendo analizzare criticamente tutti i progetti contenuti nel libro, per i quali si rimanda alle schede analitiche che seguono, ci si limiterà qui a illustrare una selezione di essi. Lo straordinario progetto elaborato da Marcella Macera descrive un complesso e articolato brano di architettura a scala urbana che muove da considerazioni epigenetiche e metameriche operate sul tipico settore barucciano contenente i ponti. Il ponte attrezzato qui diventa unico, marcato da una torre ubicata sul suo asse e da una configurazione urbana che focalizza tutta l’attenzione sulla presenza di questo doppio segno orizzontale-verticale.
Chiara Alessi suddivide la macroinsula in quadranti più o meno regolari per poi approfondire un organismo basso a gradoni di matrice organico-neoplastica. Silvia Coscia dà luogo a un boulevard pedonale ubicato al centro dell’area che conduce al parco attestandosi su un edificio a corte. La volontà di creare due tipi di città è chiarissima nell’impostazione planimetrica di Francesco Fatiganti nella quale emergono almeno due tipi di granulometrie: corti grandi, morfogeneticamente modificate, corti piccole più regolari e basse. Le torri danno infine luogo a una sperimentazione tipologica di notevole qualità. Alessandro Mammola opera un’attenta analisi alla scala dell’organismo urbano progettando un sistema tripartito: corti aperte, torri e linee tentacolari che curvano e digradano verso il parco. Sono le torri a suscitare il maggior interesse, con la quadripartizione planimetrica e la camicia esterna che eleva i terrazzi al rango di logge (vedi scheda). I cinque dolmen abitativi di Simone Ranieri, protetti da un lungo edificio in linea a nord, generano un tessuto urbano rarefatto e metafisico, radunando ampie masse di volume in torri, a forma di ampi portali, ubicate in alcuni ben calibrati punti di un’area che ora risulta essere in dialogo con l’oltremondo. L'impianto urbano di Corinna Muscio viene gerarchizzato in fasce a chiara riconoscibilità, con le linee a corte aperta in fregio alla via principale a formare spazi di accoglienza e piazze. Il progetto urbano di Rocco Spagnuolo procede secondo le regole di un ingranaggio che affida la dislocazione di volumi lineari e al tempo stesso articolati a un meccanismo compositivo che, come nel mondo virtuale, sembra volersi poter trasformare (edifici transformer). La planimetria di Domenico D’Alessandro è idealmente tracciata da un edificio in linea che si smaterializza in una serie di blocchi, tutto secondo una ricerca di morfemi urbani. E’ l’articolazione rigorosamente ortogonale dei pieni e dei vuoti che definisce tutti gli spazi pubblici. La cittadella di Alessandro Contessa è concepita in modo centripeto, con una serie di edifici in linea orientati verso una torre di notevole altezza che assume un ruolo di centralità, un landmark ideato per accogliere funzioni non solo residenziali. Le chele urbane del dispositivo planimetrico di Valentina Francescangeli catturano due delle sei torri, risucchiandole all’interno di uno spazio pedonale e trasversale alla via Marinetti. In questi edifici in linea si sperimenta con successo la segmentazione del volume curvilineo. Un tessuto rettificato di corpi di fabbrica in linea derivante da un’idea di edifici curvilinei è ciò che caratterizza la planimetria di progetto di Vincenzo Larocca. In alcuni punti di intersezione le linee si sviluppano in altezza dando luogo alle torri come parte indissolubile dell’insieme. La continuità linguistica nel passaggio dalla linea alla torre del progetto di Francesco Saverio Madeo viene messa in evidenza dal trattamento delle facciate. I caratteri chiaroscurali dell’architettura sono evidenziati dalla superficie esterna pensata per conformare e schermare i fronti. Le mutazioni del progetto di Marco Ungari sono accentuate da una planimetria molto complessa caratterizzata dalla tipologia in linea, spartiacque tra l’ambito nord più densamente edificato e quello sud dove ha luogo un viale sul quale converge un micro tessuto di case basse. Ivan Panzieri propone la reiterazione di moduli ottagonali dai quali spicca il volo una torre di grande qualità compositiva. Il disegno planimetrico del progetto di Ilario Franco, caratterizzato da un sistema di corti urbane, è composto prevalentemente da edifici a corte con apertura rivolta verso la direttrice viaria preesistente. Il piano porticato, elemento unificatore del quartiere, favorisce l’integrazione dei diversi ambiti spaziali e delle abitazioni. Il modello urbano messo a punto da Silvia Pace tende a unificare il linguaggio architettonico al fine di conferire una forte identità all’insieme abitativo. Segnalare con edifici a torre legati ai volumi in linea i punti di ingresso e uscita alla macroinsula è funzionale a questo scopo. L’elemento d’interesse del progetto di Daniela Ciurli, la cui planimetria è peraltro correttamente delineata, è costituito dall’articolazione volumetrica della torre a pianta quadrata che, attraverso un sistema di logge aggettanti, mette in luce un’efficace compenetrazione di due parallelepipedi. Nel progetto di Davide Iavarone la messa a nudo dello scheletro strutturale dei quattro volumi verticali della torre denota, superando la semplicità planimetrica della macroinsula, una decisa apertura alla ricerca di un dialogo tra gli aspetti linguistici e quelli strutturali dell’architettura. La concezione planimetrica nella progettazione di Raffaele Ponturo è quella di un’unica insula che si collega all’area ubicata sull’altro lato dell’asse viario mediante un percorso. La struttura rientrante rispetto al filo degli edifici apre alla possibilità di operare intagli che li penetrano in profondità e che risultano particolarmente significativi nell’edificio a torre. Il masterplan di Caterina Vici scaturisce da una matrice che nel corso di successive rielaborazioni dà luogo a una cittadella centripeda. Il cardine del progetto di Martina Paterlini è costituito da un triangolo equilatero ai cui vertici sono ubicate le tre torri trasformate in altrettanti dolmen abitativi, ovvero nei guardiani del quartiere. Con il loro svettare sulle case più basse esse custodiscono l’ordine segreto della cittadella, orientandone l’abitante, anche quello più inconsapevole. Il tipo morfologico messo a punto da Jakub Wachocki assume in planimetria la conformazione di una linea-gancio che diventa torre nell’impugnatura. Nella sua definizione architettonica questo volume si articola in un insieme di protuberanze che rompono la schematicità dei fronti, conferendo all’insieme una forte identità. Nel progetto di Eleonora Irti due fronti contrapposti di edifici, leggermente inclinati tra loro, sono uniti centralmente da un doppio sistema edificato che scavalca l’asse viario. Tra gli edifici predomina la torre, costituita da un volume quadrilobato ulteriormente articolato da una camicia che contiene le logge a sbalzo e dialoga con i volumi interni. L’impianto urbano di Roberto Siciliani De Cumis si articola su tre piazze circolari tra loro collegate. Un edificio in linea che diventa torre, a maglie esagonali, dà luogo a un unico sistema edificato scalettato, nel quale è presente la ricerca di inserire maglie strutturali rettangolari e trapezoidali in una geometria appunto esagonale. L’ autonomia espressiva e la forte riconoscibilità della planimetria di William Montecchi genera un organismo urbano libero da geometrie chiuse, con interspazi concavi e convessi contenuti tra gli edifici abitativi, quasi delle dighe, che raccolgono la vita sociale del quartiere. La pianta della torre spicca per interesse, con alloggi duplex ruotati di 90°. Andrea Formosa propone un sistema urbano ruotato rispetto alla via Marinetti, su cui sono organizzati gli edifici in linea, le torri e i volumi minori. Gli edifici si caratterizzano per la decostruzione dei prospetti, talvolta messa in atto in chiave neoplastica. Gli edifici a torre di Rosalba Golino, il cui sviluppo planimetrico è definito da due setti semicircolari in cls armato, posseggono enormi valenze architettoniche. Tra i due setti semicircolari, il volume edificato si scompone in una sorta di casbah verticale, inserita quasi casualmente nel pozzo centrale e dotata di una forte carica plastica. Elisa Paris sviluppa un disegno urbano ortogonale che in alcuni lotti dà luogo a organismi edilizi con morfologia ad “L” disposti in modo contrapposto così da creare una corte aperta. Lo scavo architettonico assume spessore degno di nota nell’edificio ibridato linea-torre. La proposta di Carla Quaranta sviluppa un sistema di edifici e piazze che si pone in diagonale rispetto all’asse del quartiere. Il progetto della torre, nell’estendere il concetto di un gioco di blocchetti in legno a quella di un ampio edificio, è certamente l’elemento di spicco. Una geometria a maglia quadrata, ruotata rispetto alla giacitura dell’asse del quartiere, subisce, nel progetto di Elena Buffa, delle trasformazioni morfologiche consistenti in deflessioni e slittamenti di sue parti. Tali alterazioni sono coerenti con quanto avviene nella suggestiva torre, risolta con uno sbalzo che consente di operare forti incisioni volumetriche. Francesco Amendola non rinuncia a un originario sistema ordinatore, messo in crisi dalle rotazioni derivanti da un’acquisita duttilità compositiva. Un sistema insediativo ortogonale regola i diversi lotti dell’impianto urbano del progetto di Cecilia Catalini. Le otto torri seguono invece una regola compositiva basata sul triangolo equilatero. Questa dissonanza genera nel quartiere un apprezzabile aumento di complessità. Il progetto di Davide Simeone è degno di segnalazione non tanto per l’assetto planimetrico, peraltro a sviluppo diagonale, quanto per la sintesi architettonica dell’edificio in linea che diventa torre. Tale organismo edilizio si caratterizza per la continuità morfologica tra i piani orizzontali e verticali. Lo spazio urbano complesso è il tema della mutazione di Andrea Bonamore. La strada principale perde il suo carattere di asse attraversato da ponti per ritornare a essere una più dimessa connessione di quartiere che si apre su multiple spazialità di grande pregio. Un vivace rigore compositivo determina, nel progetto di Lorenzo Attorre, edifici diversi ma tutti di notevole qualità compositiva, oltre a una planimetria che risulta essere ordinatrice di tanta complessità. L’edificio in linea mette in atto una convincente rivisitazione di importanti riferimenti architettonici. Salvatore Belfiore sviluppa un disegno planimetrico ortogonale e continuo costituito da edifici in linea e linea-torre che segnano alcuni episodi, primo tra tutti l’ingresso dalla via Laurentina. La cittadella di Giuseppe Cartolano è definita da una geometria quadrata sulla quale vengono opportunamente applicate linee di forza che generano frequenti rotazioni e svuotamenti. Il sistema degli spazi pubblici si svolge sulle diagonali della figura. Percorrendo la via Marinetti l’intervento di Christian Di Ianni si svela come dissonante ma equilibrato: tre torri progettate centrifugamente, verso la via Laurentina, una verso il parco, tutte uguali e sofisticate architettonicamente. Negli edifici in linea, che generano varie corti aperte, viene messa in campo una maestria compositiva nel trattamento dei prospetti, sempre coerenti con gli spazi interni degli alloggi. Domizia Faggella ed Elena Roveri (accomunate da nomi epici e da cognomi ispirati a splendide essenze arboree) hanno sviluppato una planimetria su due settori contigui, le macroinsulae 3 e 4, differenziandosi poi nell’approccio progettuale degli edifici, come si evince chiaramente nelle torri. Faggella affida a un fusto centrale il poderoso compito strutturale di sorreggere a sbalzo i quattro lobi come se fossero altrettanti rami; Roveri definisce un tronco ben protetto da una spessa corteccia venata sulla quale compie ripetute operazioni di sottrazione a tasselli e incisioni longitudinali. Luca Calzuoli dà luogo a un raffinato scavo architettonico delle diverse tipologie edilizie che compongono la planimetria, apprezzabile in particolare nel sistema formato da un edificio a forma di crescent sormontato da torri. Daniela Corrado conforma inattese spazialità di quartiere, alla ricerca di una qualità urbana sperimentale da ottenersi prevalentemente tramite la plasticità degli edifici in linea. Giulia Gallo nel progetto elaborato per l’esame affida a due gruppi di quattro torri il compito di marcare l’ingresso e l’uscita dalla macroinsula 3, mentre in quello per la tesi di laurea svolge un’interessante operazione di inserto di nuove quantità di servizi ipogei all’interno della macroinsula 1. Essendo stati in questo settore demoliti tre ponti, viene proposta l’edificazione di un unico ponte centrale, con direzione trasversale rispetto alla via Marinetti, a collegamento dei due lembi sui quali hanno luogo un centro commerciale e un multisala, ambedue ipogei. L’idea di dar luogo a una città in miniatura, con un suo centro turrito ed edifici in linea centrifughi e digradanti verso la periferia, corrisponde al desiderio di Valerio Rossi di comporre un sistema organico dove l’architettura risponde a precisi intenti ideativi alla scala urbana. Il tridente di Andrea Spagnoli si diparte all’ingresso colombiano del quartiere con via Marinetti a mo’ di Corso, per intercettare un altro sistema a due assi convergenti. Dalle intersezioni scaturisce un tessuto urbano che abiura l’ortogonalità e informa di tale rifiuto la composizione degli edifici. Lievi ed equilibrate inclinazioni planimetriche, non più paghe degli spazi derivanti da orditure ortogonali, generano il tessuto urbano della cittadella di Giorgio Alessandrelli, formato da edifici studiati in dettaglio, primi tra tutti le torri quadrilobate. L’empirismo compositivo planimetrico di Chiara Bonanni trova un contrappunto in quello architettonico, chiaramente evidenziato nelle torri dove una rotazione di 90° nell’orditura di pacchetti di tre piani genera l’effetto di una pila di volumi scatolari appoggiati gli uni agli altri. La configurazione planimetrica del progetto di Riccardo Graziani, con le linee che ricercano andamenti irregolari e le torri che vengono poste come terminazione particolare delle prime, ricorda gli schizzi iniziali del cuore dell’intervento del quartiere IACP di Torrevecchia a Roma. La linearità planimetrica consistente in una simmetria che però è negata da una terminazione obliqua è ribadita da superfici orizzontali che diventano verticali e falde oblique nelle torri, uniformando le diverse parti del progetto di Diana Muneroni. Alessandro Nanni sperimenta la conformazione di un quartiere definito da edifici in linea sinuosi che crescono in altezza fino a divenire torri. La complessità spaziale degli invasi è memore delle sperimentazioni di Libera e Moretti al quartiere Incis a Roma e del progetto abitativo di Alvar Aalto per Pavia. La regola compositiva di Elisa Cartapati perviene a piena maturazione nella torre lì dove l’economia funzionale e distributiva degli spazi è verificabile nella pianta del piano tipo che risolve la posizione non angolare della zona giorno con un’efficace spinta del vano salone verso l’esterno. Debora De Stefano inserisce nella planimetria della macroinsula 3 alcuni segni altamente riconoscibili, segnatamente quelli di Federico Gorio, e altri, progettati per il quartiere ISES a Secondigliano. Il quartiere di Irene Florio assume una conformazione morfogenetica che non può tenere distinta l’architettura dal disegno della città. Queste due anime qui confluiscono in un tutt’uno che, nel bene e nel male, danno origine tanto al tessuto urbano quanto a ipotesi di edifici complessi. Valentina Dapiran dà luogo a un ampio parco centrale delimitato su due lati da case in linea che a volte penetrano nello spazio aperto frazionandone delle parti. La cittadella di Annalisa Cibello ? elaborata per l’esame e ulteriormente sviluppata per la tesi di laurea ? assume la forma di un anello piegato più volte a delimitare un hortus conclusus totalmente pedonale e cinto da un muro abitato di tre piani sopra i pilotis con sei torri che fungono da bastioni. Il boulevard pedonale centrale è immerso nel verde e lambito sui due lati da attività commerciali. Claudia Rizzaro basa il suo intervento sull’uso di una morfologia curvilinea che ripropone quella dell’asse stradale esistente. Nel progetto degli edifici, alcuni inserti volumetrici vengono utilizzati in modo apparentemente casuale per interrompere la regola compositiva improntata alla serialità. Le linee ad andamento segmentato di Matteo Mariano generano spazi urbani concavi e convessi: inclusivi e protetti, oppure dilatati e aperti verso il parco centrale e da un lato e l’area archeologica dall’altro. Una di esse scavalca coraggiosamente la via Marinetti. Il tessuto urbano secondario quasi perpendicolare all’asse viario preesistente dell’impianto di Nicola Di Maio genera aperture prospettiche lì dove le aree edificate vengono dilatate. Le divergenze delle assialità planimetriche si riscontrano nelle piante degli edifici dando luogo ad accentuate articolazioni volumetriche. Marco Ludovici modella l’impianto urbano per mezzo di corpi in linea che accolgono chi accede al quartiere dalla via Cristoforo Colombo. La proposta di Anna Longo si compone di un unico segno, un macro-edificio che si sviluppa con una progressiva inclinazione altimetrica e che attraversa la via Marinetti generando due corti trapezoidali aperte. La parte a larghezza maggiore della linea mette in atto un’interessante aggregazione tipologica con percorso distributivo interno. Tale aggregazione viene variata e resa sublime nella torre.

Considerazioni conclusive
In un momento nel quale in alcuni ambienti romani si pensa di demolire migliaia di alloggi a Tor Bella Monaca per poi raddoppiarne le quantità ricostruendoli secondo un progetto mirante a ottenere un effetto città, o forse sarebbe meglio dire un effetto borghetto, è necessario ribadire con chiarezza che la presente operazione riveste un carattere prettamente didattico e che non è negli obbiettivi del Corso polemizzare sulla qualità urbana complessiva del Laurentino 38. Fermo restando il fatto che i ponti superstiti vanno conservati e tutelati, qualche operazione edilizia potrà essere effettuata. Essa potrà riguardare la manutenzione straordinaria di alcuni edifici, in particolare le linee che, secondo modelli per lo più sviluppati nei Paesi Bassi, in alcuni casi potrebbero essere dotati di una doppia pelle contenente anche le logge, così da potersi rinnovare architettonicamente e risultare più sostenibili energeticamente.
In ultima analisi, il materiale raccolto in questo libro testimonia i risultati di una ricerca didattica ideata agli inizi del 2006, diversa da quella di Ve-Ma di Franco Purini ma che con essa condivide alcuni elementi essenziali, alcune affinità elettive. Un’operazione che ha reso possibile per tanti giovani progettisti ? non importa se ingegneri o architetti, compositivi o urbanisti (non andrebbe dimenticato che le strategie legate a logiche corporative confliggono, ieri come oggi, con l’evoluzione delle idee e della cultura, nonché con l’espressione delle libertà individuali) – cimentarsi nello scavo architettonico di molteplici edifici abitativi e, al tempo stesso, prefigurare la propria idea di città.

Ringraziamenti
Vorrei infine ringraziare gli studenti, quelli pubblicati e non, che ho avuto il piacere e l’onore di seguire. Poi tutti i Tutor prima citati, che hanno svolto un lavoro straordinario, paziente, di elevato livello culturale e maieutico e, bisogna dirlo, senza ottenere quei riconoscimenti che meritano. Questo libro vuole gratificare il lavoro di tutti: degli studenti, dei Tutor e, non posso negarlo, il mio. Ma vuole in primo luogo porre l’attenzione sul dibattito culturale legato al futuro dei nostri quartieri al fine di alimentarlo con idee nuove e giovani. Ringrazio Franco Purini, dotato come sempre di una rarissima apertura intellettuale, una delle teste pensanti non solo della Sapienza, Università che peraltro ringrazio nelle sue componenti più qualificate – specie in quelle più aperte alle curiosità multidisciplinari – nonché nelle componenti specifiche della mia Facoltà: Corso di Laurea, Dipartimento, Preside. Ringrazio Marcello Rebecchini, prematuramente scomparso solo pochi mesi prima che questo libro vedesse la luce, per avermi affidato nel 2006 il suo Corso di Composizione 3 i cui esiti contenuti in queste pagine purtroppo non posso commentare insieme a lui. Ringrazio, infine, Pietro Barucci per il sostegno che non mi ha mai fatto mancare, nonché per il coraggio dimostrato nel trattare un tema per lui scottante, per di più contenente ipotesi conformative in alcuni casi tanto diverse dal suo progetto che, alla soglia degli 89 anni, sarebbero potute apparire come irriverenti e provocatorie. Ma ciò non è avvenuto.